Lavoro e previdenza sociale – Documento programmatico per Assemblea nazionale dell’ARS (PESCARA 15 e 16 giugno)
Il Documento è pubblicato anche sul Forum dell’ARS, dove gli iscritti all’ARS potranno proporre emendamenti e svolgere commenti fino al 5 giugno p.v. Invece, i simpatizzanti e i curiosi dell’ARS, iscritti o che si iscrivano al forum, sempre fino al 5 giugno, potranno pubblicare soltanto commenti: http://forum.riconquistarelasovranita.it/forum/viewtopic.php?f=40&t=331
Lavoro
Il diritto del lavoro è da molti anni oggetto di controriforme ispirate ai principi liberisti contenuti nei trattati europei. Tale tendenza ha preso l’avvio soprattutto a partire dall’Atto Unico Europeo del 1986, con il quale si è passati dalla fase del “mercato comune” a quella del “mercato unico”, per proseguire con il Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del 1992 e in ultimo con il Trattato di Lisbona del 2007 (che tra l’altro ha modificato il Trattato istitutivo della Comunità Europea del 1957, ridenominandolo “Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea”. In particolare si assiste a una progressiva mercificazione e disumanizzazione del fattore lavoro, sancita in linea di principio nei trattati e penetrata negli ordinamenti giuridici nazionali attraverso lo strumento di normazione ordinaria costituito da regolamenti e direttive, soprattutto a seguito del riconoscimento della “primazia” del diritto comunitario in base alla sentenza “Simmenthal” (Corte di Giustizia, 1978) e “Granital (Corte Costituzionale, 1984) e della responsabilità statale per la mancata applicazione delle direttive in base alla sentenza “Francovich” (Corte di Giustizia, 1991). La contestuale, progressiva espulsione dell’intervento pubblico dal novero degli strumenti della politica economica in virtù del principio del divieto degli “aiuti di Stato alle imprese” (cui però si fa eccezione per le banche, che vengono regolarmente e sempre più generosamente foraggiate) e il conseguente abbandono dell’idea stessa di una politica industriale, non riesce più a garantire i diritti che la Costituzione della Repubblica Italiana, teoricamente “fondata sul lavoro”, dovrebbe garantire ai suoi cittadini lavoratori. Dall’altro lato, un ulteriore elemento di confusione e di disordine nella normativa in materia di lavoro è stato introdotto con la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione (2001), che ha incluso nella potestà legislativa concorrente Stato-Regioni la “tutela e sicurezza del lavoro” e la “previdenza complementare e integrativa”, la cui riconduzione nella potestà legislativa esclusiva dello Stato è a dir poco improcrastinabile.
Per la concezione economica liberista, il lavoro è merce. Nel diritto comunitario la rappresentazione plastica di questo concetto si ritrova nel principio della “libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi”, le c.d. “quattro libertà”: avrebbe detto l’economista tedesco Friedrich List, vissuto nel XIX secolo, la libertà della volpe nel pollaio. In quanto fattore della produzione la merce-lavoro, ove venga offerta in quantità non sufficiente o a un prezzo ritenuto troppo elevato, deve essere reperita a un prezzo più basso al di fuori del mercato di riferimento. A tal fine si delocalizza l’azienda o si importa manodopera straniera disponibile a ricevere retribuzioni più basse di quelle dei lavoratori autoctoni. Le tappe della distruzione del diritto nazionale del lavoro sono state rappresentate negli ultimi anni dalla riforma Treu del 1997, responsabile in particolare di aver introdotto il famigerato “lavoro interinale” (ora somministrazione di lavoro), la riforma Biagi del 2003, che ha rappresentato un deciso passo in avanti sulla strada della proliferazione dei contratti precari e della svalutazione del contratto collettivo nazionale di lavoro rispetto al contratto individuale, infine la riforma Fornero del 2012, che ha colpito soprattutto la stabilità del rapporto di lavoro introducendo una maggiore facilità di licenziamento.
E’ pertanto evidente che il mercato del lavoro deve tornare ad essere un mercato nazionale, disciplinato dal diritto nazionale e tendente al pieno impiego della forza lavoro nazionale.
La normativa giuslavoristica deve tornare a ispirarsi nelle sue linee fondamentali ai principi contenuti nella Costituzione Italiana: diritto al lavoro e conseguente promozione della piena occupazione (art. 4), tutela del lavoro in tutte le sue forme (art. 35), diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente per il sostentamento del lavoratore e per la propria famiglia, a un orario di lavoro confacente e alle ferie retribuite (art. 36), tutela del lavoro delle donne dei minori con particolare riguardo alla promozione della maternità e della famiglia (art. 37), garanzia di un sistema organico di assistenza e previdenza sociale contro i rischi di malattia, infortunio, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria e inabilità (art. 38).
In questo quadro, deve essere ripristinata la disciplina della tutela contro i licenziamenti vigente prima della riforma Fornero del 2012, con ripristino della tutela reintegratoria nel posto di lavoro per tutti i casi in cui essa è stata sostituita con una tutela di tipo risarcitorio.
Deve essere ripristinato il limite giornaliero dell’orario di lavoro di 8 ore, vigente in Italia dal 1923 al 2003 e inopinatamente abrogato dal D.Lgs. 66/2003 che, recependo la direttiva europea in materia di orario di lavoro che stabilisce il riposo giornaliero garantito di sole 11 ore, di fatto rende lecita una prestazione lavorativa giornaliera di 13 ore.
I contratti collettivi nazionali dei vari comparti, che nel 2009 sono stati assoggettati a una riforma che ha sostituito lo schema del contratto economico biennale e normativa quadriennale con quello del contratto triennale sia normativo che economico, dovrebbero essere modellati su uno schema unico di contratto. La fase di inserimento del contratto unico dura per i primi tre anni di vita del contratto. In ogni caso deve essere ribadita la primazia del contratto collettivo nazionale di lavoro tanto sui contratti aziendali che a maggior ragione su quelli individuali, con piena applicazione mediante apposita legge delle disposizioni dell’art. 39 della Costituzione su registrazione obbligatoria e conferimento ai sindacati della personalità giuridica, rappresentatività ed efficacia erga omnes dei contratti stipulati dai sindacati registrati.
Il lavoro a progetto, sviluppatosi in via di prassi sulla base di una previsione del codice di procedura civile (art. 409) ed esploso soprattutto durante gli anni ’90, con successivi interventi dello Stato che hanno cercato di disciplinarlo, venga senza mezzi termini vietato e considerato per quello che è, ovvero per lavoro subordinato mascherato da lavoro autonomo a fini sostanzialmente illeciti ed elusivi della normativa giuslavoristica e previdenziale. Allo stesso modo la somministrazione di lavoro, nonché ogni forma di intermediazione e mediazione privata in materia di lavoro devono essere vietate per legge. La stessa attività di mediazione attualmente svolta dai “centri per l’impiego” e dai “servizi per il lavoro” degli enti locali deve essere ricondotta sotto la competenza dello Stato, mediante la ricostituzione degli uffici di collocamento gestiti dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. I contratti di lavoro ripartito o intermittente debbono parimenti essere cancellati dall’ordinamento giuslavoristico, meritando di essere ricordati negli anni a venire come bizzarrie di un periodo da dimenticare.
Il lavoro a tempo determinato, che negli ultimi anni ha subito un processo di progressiva liberalizzazione conclusosi con la riforma Fornero, deve essere utilizzato nei soli casi di stagionalità o temporaneità del lavoro, ovvero come modalità iniziale di inserimento del lavoratore nell’impresa nei casi in cui non ricorrano le esigenze formative proprie del contratto di apprendistato. In ogni caso, i contratti a qualsiasi titolo “precari”, ivi compreso il rapporto di lavoro a tempo determinato, devono essere disincentivati mediante una maggiore imposizione fiscale e contributiva a carico del datore di lavoro, rispetto a quella applicabile al contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
Occorre rilanciare il contratto di apprendistato, che peraltro sta vivendo un momento positivo con circa 600.000 contratti attualmente in essere. Le tre fattispecie attualmente previste dalla normativa, ovvero quella per la qualifica e il diploma professionale (fascia 15-25 anni), quella professionalizzante (18-29 anni) e quella di alta formazione e ricerca (fascia 18—29 anni di età) possono essere ridotte a due unificando la seconda e la terza fattispecie. Tale fattispecie riservata alla fascia di età 18-29 anni può assorbire la tipologia contrattuale attualmente definita “contratto di inserimento”, ovvero il vecchio contratto di formazione e lavoro. E’ opportuno che i giovani acquisiscano una qualifica professionale prima del diciottesimo anno, piuttosto che perdere tempo in percorsi formativi privi di sbocchi. Occorre una rivoluzione culturale che restituisca prestigio, rispetto e soprattutto un adeguato riconoscimento giuridico al lavoro manuale in genere. Occorre rilanciare anche la formazione professionale, indispensabile alla pari dell’apprendistato alle piccole e medie imprese e alla salvaguardia degli antichi mestieri artigiani. Occorre un incremento degli investimenti pubblici nella ricerca scientifica e tecnologica finalizzata alle imprese e creazione di occasioni di collaborazione tra imprese, università ed enti pubblici in questo ambito.
La partecipazione dei lavoratori agli utili e/o alla gestione delle imprese, prevista dall’art. 46 della Costituzione, può essere introdotta a patto che eventuali forme di cogestione non si risolvano in un ulteriore ostacolo al dispiegarsi delle energie imprenditoriali già così duramente provate dalla concorrenza internazionale. La cogestione dovrà essere portata avanti dalle rappresentanze direttamente elette dai lavoratori impiegati nell’azienda più che da parte di eventuali apparati burocratici dei sindacati.
La sicurezza nei luoghi di lavoro deve essere incrementata soprattutto nei cantieri edilizi e nelle attività a grave rischio, ovviamente senza introdurre un regime troppo vincolistico che penalizzi le imprese e pregiudichi la loro capacità produttiva e concorrenziale. I costi della sicurezza, di cui dovrà essere riconosciuta la deducibilità o detraibilità fiscale, devono essere considerati non tanto una spesa a fondo perduto, quanto un investimento per risparmiare spese assicurative e risarcitorie a carico dell’impresa e del sistema previdenziale pubblico.
Rifiutando una concezione del lavoro come merce e della forza lavoro come fattore della produzione che, in dispregio a qualsiasi considerazione di tipo sociale e umanitario, può essere spostata tra Paesi e continenti senza alcun rispetto della dignità umana, deve essere assicurata la preferenza nazionale ai lavoratori italiani nelle assunzioni in tutti posti di lavoro e, in caso di licenziamenti collettivi o mobilità, nel mantenimento del posto di lavoro, attivando al contempo una collaborazione con i paesi del terzo mondo per la risoluzione in loco dei loro problemi sociali ed economici, nel quadro di una riconquistata indipendenza politica economica a fronte di ogni ingerenza imperialistica e neo-colonialistica.
Deve essere infine ridotto il carico fiscale del lavoro dipendente e ampliata la casistica di spese deducibili e detraibili in sede di dichiarazione dei redditi, anche al fine di combattere l’evasione fiscale e garantire un’effettiva equità contributiva.
Per le lavoratrici madri deve essere previsto un congedo parentale con indennità sostitutiva dello stipendio, a carico della gestione previdenziale di competenza, pari all’80% della retribuzione fino al terzo anno di vita del bambino. Detto beneficio dovrebbe spettare a tutte le donne che decidono di non lavorare per seguire i figli fino all’età di accesso alla scuola materna (3 anni). Ad esso si dovrebbe affiancare la possibilità di poter conciliare i tempi di lavoro con quelli da dedicare alla cura dei figli.
Infine, anche per quanto riguarda il pubblico impiego, devono essere ribaditi i principi costituzionali e in particolare quelli dell’art. 97, con particolare riguardo alla regola dell’accesso esclusivamente per concorso pubblico, troppo spesso elusa o aggirata per motivi politico-clientelari. Gli obiettivi dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, nonché la tutela della dignità e del prestigio dei pubblici dipendenti che sono la precondizione per il raggiungimento dei suddetti obiettivi, nel quadro di una politica di valorizzazione delle risorse umane della Pubblica Amministrazione, potrebbero forse essere perseguiti con maggiore efficacia nel quadro di un ritorno alla disciplina del pubblico impiego vigente anteriormente alla c.d. “privatizzazione” del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, attuata con il D.Lgs. 29/1993 e attualmente contenuta nel D.Lgs. 165/2001.
Previdenza sociale
Una comprensione del sistema previdenziale italiano non può prescindere dalla conoscenza del quadro demografico della Nazione. Il tasso di natalità italiano, pari a 9,2 nascite ogni 1.000 persone, è al 183mo posto tra quelli di 195 Stati del mondo. Il tasso di fertilità italiano, pari a 1,38 figli per donna, è al 173mo posto tra quelli di 195 Stati del mondo ed è inferiore a quello medio dell’Unione Europea (pari a 1,5 figli per donna). Per l’aspettativa di vita, invece, l’Italia è al dodicesimo posto su 195 Stati del mondo (77 anni e mezzo per gli uomini e 83 anni e mezzo per le donne). L’aspettativa di vita è peraltro destinata a salire vertiginosamente fino al 2050 (quando si supereranno gli 82 anni per gli uomini e gli 87 per le donne). Ciò ha inevitabili e macroscopiche ripercussioni sul nostro sistema pensionistico, che già oggi assorbe il 14% del Prodotto Interno Lordo (circa un settimo di tutta la ricchezza prodotta dalla Nazione in un anno).
Con la riforma pensionistica Dini del 1995 fu introdotto un nuovo sistema di calcolo del trattamento pensionistico, c.d. “contributivo”, per chi iniziò a versare contributi esclusivamente dal 1° gennaio 1996. La pensione “contributiva” viene calcolata sulla base del montante dei contributi versati durante tutta la vita lavorativa, sulla base di un coefficiente di trasformazione indicizzato al tasso di crescita del PIL, commisurato all’aspettativa di vita del futuro pensionato e periodicamente aggiornato. Per chi invece al 31 dicembre 1995 aveva maturato 18 anni di contributi, il calcolo della pensione viene effettuato con il più vantaggioso sistema retributivo, ovvero in base alla retribuzione degli ultimi anni di servizio che sono i meglio remunerati per il lavoratore. Chi al 31 dicembre 1995 aveva meno di 18 anni di contribuzione, rientra nel sistema “misto” ovvero retributivo per i periodi fino al 31 dicembre 1995 e contributivo per i periodi successivi al 1° gennaio 1996. Infine per tutti i lavoratori, a prescindere dall’anzianità maturata, per i periodi successivi al 1° gennaio 2012 viene applicato comunque il sistema contributivo (già comunque in vigore per gli assunti dopo il 1° gennaio 1996).
Pertanto, l’attuale sistema pensionistico penalizza particolarmente i giovani. Nell’attuale sistema a ripartizione, il peso del finanziamento del sistema previdenziale ricade su una platea di lavoratori attivi sempre meno numerosa. Il c.d. “indice di dipendenza” (numero degli ultrasessantenni in rapporto alla popolazione di età compresa tra i 20 e i 59 anni) salirà progressivamente dal 45,1% del 2005 al 95,5% del 2050 (cioè praticamente un pensionato per ogni lavoratore). Inoltre i lavoratori attivi interessati dal sistema contributivo, al momento del pensionamento, godranno di un tasso di sostituzione (rapporto tra stipendio e pensione) pari al 64% con 40 anni di contributi nel 2050 (rispetto all’80% di chi va in pensione con il sistema retributivo), con riduzioni proporzionali per pensionamenti con anzianità contributiva inferiore.
L’INPS, primo ente previdenziale italiano, con riguardo al settore privato (lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, coltivatori diretti, fondi sostitutivi) amministra oltre 16,6 milioni di pensionati e 23,8 milioni di lavoratori attivi, sia dipendenti che autonomi. Altri 2,6 milioni di pensionati e 3,5 milioni di lavoratori del pubblico impiego sono stati presi in gestione dall’INPS a seguito della soppressione del secondo ente previdenziale italiano, quello dei dipendenti pubblici, l’INPDAP. Gli immigrati, saliti dal milione del 2001 di contribuenti INPS ai 2.200.000 del 2008, hanno apparentemente incrementato le entrate dell’INPS, ma in breve tempo cominceranno a essere fonte di spesa per l’Istituto. Quello che forniscono oggi in termini di contributi, se lo riprenderanno domani con gli interessi, molto probabilmente sottraendolo all’economia nazionale in ragione della fruizione del reddito pensionistico nei paesi di origine. Non solo: è stato dimostrato che per avere un effetto benefico sui conti pensionistici dei paesi europei ripristinando un tasso di dipendenza (rapporto tra lavoratori attivi e pensionati) adeguato, occorrerebbero altri 710 milioni di extracomunitari in tutta Europa entro il 2050 (dati ONU 2001), ovvero più dei 500 milioni di attuali abitanti dell’Unione Europea. Pertanto, il luogo comune secondo cui gli immigrati “pagheranno e nostre pensioni” è destituito di qualsiasi fondamento scientifico. Occorre inoltre tenere conto del fatto che l’incorporazione dell’INPDAP ha portato in dote all’INPS 6 miliardi di disavanzo. Questo disavanzo, in realtà, dipende unicamente dal mancato trasferimento, all’atto della costituzione della relativa gestione previdenziale all’interno dell’INPDAP nel 1996, del montante contributivo dei pensionati ex dipendenti statali allo stesso INPDAP, nonché dalla sospensione, dal 2007 al 2011, dei trasferimenti operati dallo Stato, sotto forma di anticipazioni, nei confronti dell’INPDAP.
Il 35% delle entrate dell’INPS è peraltro costituito da trasferimenti statali aventi varie finalità, tra cui il finanziamento dei trattamenti pensionistici non fondati sul versamento di contributi (come le pensioni per gli invalidi civili e l’assegno sociale) nonché delle prestazioni a sostegno del reddito, che, a differenza della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria e dell’ASPI (che ha sostituito la vecchia indennità di disoccupazione e che dal 1° gennaio 2017 sostituirà anche l’indennità di mobilità), non sono finanziate da appositi prelievi contributivi.
L’elevazione dei requisiti (anagrafici e contributivi) necessari per il conseguimento del diritto a pensione è stata il minimo comune denominatore delle riforme degli ultimi 20 anni (Amato 1992, Dini 1995, Prodi 1997, Maroni 2004, Damiano 2007). L’ultima riforma pensionistica, quella del Decreto SalvaItalia del 2011, ha stabilito nuovi e più restrittivi requisiti per l’accesso al pensionamento. La pensione di vecchiaia si ottiene con un’anzianità contributiva di 20 anni e un’età anagrafica di almeno 66 anni (tale requisito entrerà a regime nel 2018, partendo rispettivamente dagli attuali 62 anni e 63 anni e sei mesi, per le lavoratrici dipendenti e autonome del settore privato). Per ottenere la pensione anticipata, che ha sostituito la vecchia pensione di anzianità liquidata con il sistema delle “quote”, non bastano più 40 anni ma ne occorrono, per il 2012, 41 e 1 mese per le donne e 42 e 1 mese per gli uomini. I requisiti, oltre ad essere soggetti all’adeguamento alla speranza di vita (per l’anno 2013 pari a 3 mesi), sono aumentati di un mese per l’anno 2013 e di un ulteriore mese a decorrere dal 2014. La quota di pensione relativa alle anzianità contributive maturate prima del 1° gennaio 2012 è ridotta di 1 punto percentuale per ogni anno di anticipo nell’accesso al pensionamento rispetto all’età di 62 anni e di 2 punti percentuali per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a 60 anni di età. In via eccezionale, i lavoratori del settore privato, iscritti all’AGO e alla forme sostitutive, che entro il 31 dicembre 2012 maturano 36 anni di contribuzione e 60 anni di età o 35 di contribuzione e 61 di età potranno andare in pensione anticipata al compimento dei 64 anni di età, mentre le lavoratrici che entro il 31 dicembre 2012 maturano almeno 20 anni e alla medesima data conseguano un’età anagrafica di almeno 60 anni potranno andare in pensione di vecchiaia al compimento dei 64 anni di età. Restano fermi i diritti acquisiti per chi ha già maturato i requisiti previsti, secondo la normativa vigente all’epoca, alla data del 31 dicembre 2011, nonché per le lavoratrici dipendenti ed autonome, con anzianità contributiva di almeno trentacinque anni e un’età di almeno 57 anni per le lavoratrici dipendenti e a 58 anni per le lavoratrici autonome che optino per il sistema contributivo, a condizione che la decorrenza del trattamento pensionistico si collochi entro il 31 dicembre 2015.
Dilazionare ulteriormente l’accesso al trattamento di quiescenza dei futuri pensionandi, la prospettiva della cui pensione si allontana sempre di più, sembra essere stata una scelta eccessiva in un quadro europeo in cui il sistema pensionistico italiano, se pure può aver riscontrato delle difficoltà in passato, sembra ormai messo al riparo da ogni rischio di sostenibilità finanziaria. In ogni caso, questo della previdenza come altri aspetti della politica economica nazionale costituiscono un problema solo in assenza di un’effettiva sovranità politica, economica e monetaria del nostro Stato e nel quadro dell’attuale sudditanza verso Unione Europea e Banca Centrale, mentre sarebbero drasticamente ridimensionati ove l’Italia potesse nuovamente stabilire in totale indipendenza la propria politica economica, usando a pieno titolo tanto la leva monetaria quanto la leva fiscale.
In ogni caso, anziché con l’elevazione dei requisiti per il diritto a pensione, la tenuta del sistema pensionistico avrebbe potuto essere perseguita mediante un contributo di solidarietà da far gravare: 1) su tutte le 80.000 “pensioni baby” ottenute a suo tempo con un’età anagrafica inferiore a 50 anni, salvi i casi delle pensioni concesse in età così bassa a seguito dell’accertamento di un’effettiva infermità o inabilità al lavoro; 2) a carico delle pensioni liquidate con il sistema retributivo puro, i cui percettori sono oggettivamente favoriti rispetto ai più sfortunati la cui pensione è liquidata secondo il sistema misto o contributivo. In entrambi i casi, ovviamente, da tale contributo di solidarietà avrebbero dovuto essere esentate le pensioni al di sotto di una certa soglia di reddito, al fine di non pregiudicare il potere d’acquisto di soggetti appartenenti alle fasce economicamente più deboli della popolazione.
Le pensioni liquidate con il sistema contributivo, invece, avrebbero dovuto essere sostenute mediante un sistema di indicizzazione e l’introduzione di elementi propri della tipologia c.d. “a prestazione definita”: ai futuri pensionati assunti dopo il 1° gennaio 1996 deve essere garantito un tasso di sostituzione (rapporto tra la pensione e l’ultima retribuzione) minimo inderogabile.
In ogni caso, l’attuale normativa pensionistica dovrà essere rivista sulla base dei seguenti obiettivi minimi: 1) fissazione del requisito massimo dei 65 anni per l’accesso alla pensione di vecchiaia; 2) fissazione del limite massimo dei 40 anni per l’accesso alla pensione di anzianità; 3) salvaguardia dei lavoratori esodati o che hanno perduto il lavoro dopo i 55 anni, con piena garanzia dello Stato in ordine al loro accesso anche anticipato al trattamento pensionistico; 4) completamento dell’opera di armonizzazione e semplificazione della normativa pensionistica mediante l’adozione di un codice o testo unico della previdenza sociale; 6) tutela del sistema previdenziale pubblico obbligatorio e conferma della sua centralità rispetto a qualsiasi sistema di previdenza complementare o integrativa.
Fermi restando i provvedimenti proposti, l’unica soluzione duratura al problema della sostenibilità del sistema pensionistico nel lungo periodo resta l’abbassamento del c.d. “indice di dipendenza”, ovvero il miglioramento del rapporto numerico tra pensionati e lavoratori attivi, perseguibile in modo strutturale anche attraverso un sostegno alle famiglie con figli in vista di un incremento demografico della popolazione italiana.
Luca Cancelliere per “Associazione Riconquistare la Sovranità”
Lavoro e previdenza sociale – Documento programmatico per Assemblea nazionale dell’ARS (PESCARA 15 e 16 giugno) | Appello al Popolo – E-zine risorgimentale – Organo del partito che ancora non c’e’, me ha parecido muy revelador, me hubiera gustado que fuese más amplio pero ya saeis si lo bueno es breve es dos veces bueno. Enhorabuena por vuestra web. Besotes.
40 anni di limite per l’accesso alla pensione non è giustificabile riguardo la disoccupazione giovanile e non. Per quanto mi riguarda, tranne che per settori particolari come l’insegnamento universitario, la magistratura e alcuni settori di vitale importanza per lo Stato, ogni lavoratore pubblico e privato dovrebbe avere una vita lavorativa massima di 35 anni, a prescindere dalla misura della prestazione (part-time o no). Il pensionamento dovrebbe dunque essere obbligatorio a prescindere dall’età , da fissare altrimenti a 60 anni nel caso si raggiungano i 35 anni dopo questa età anagrafica. Le pensioni, a prescindere dal sistema di calcolo, dovrebbero essere pagate partendo dal minimo vitale per vivere in questo Paese, indicativamente oggi: 1000 euro, e il relativo cambio una volta tornati ad una divisa nazionale. e indicizzate ad ogni reale cambiamento di prezzi e tariffe. Beninteso, deve poter lavorare solo chi ritiene utile e giusto farlo. Per chi si astiene dal lavoro, qualunque ne sia la motivazione, va riconosciuta la pensione sociale a 60 anni, di egual misura rispetto i l pensionamento da lavoro; solo in questo caso, secondo il possesso di determinati redditi, da stabilire. Solo in questo modo sarebbe possibile rilanciare veramente l’occupazione e soprattutto far tornare i giovani lavoratori italiani in Patria.