Zingari, clandestini, disabili, accattoni, malviventi, …. Presenze scomode che abilitano l’evoluzione
di Alessandro Bolzonello
La nascita conferisce una condizione ‘partigiana’.
Nasciamo e cresciamo appartenenti ad una identità definita. Ciò è tanto rassicurante quanto limitante. Io ne ho colto più la mancanza che il valore. Per questo ho provato a mettere i piedi ‘fuori’.
Osservando i miei trascorsi intravedo il bivio che mi si è posto dinnanzi: accogliere lo statu quo percorrendo la strada dispiegata, senza guardare oltre e senza porre troppe domande, oppure volgere lo sguardo altrove provando a far entrare ciò che di interessante c’è ‘fuori’.
Ho provato a muovermi in questa seconda direzione: mettere i piedi ‘dove non si può’ ma sempre con cautela e attenzione, cioè rassicurando e facendo capire che nonostante tutto mai avrei usato ciò che era ‘fuori’ per contaminare il ‘dentro’. Talvolta ci sono riuscito, altre volte meno.
Ho così fatto sosta tra coloro che sono considerati ‘sbagliati’: zingari e disabili, sia fisici e psichici, ma sarebbe stato lo stesso se avessi fatto capolino tra clandestini, accattoni, malviventi, anche militanti di religioni non istituzionali. Soprattutto, ho provato a dar credito che la vita di costoro avesse un senso e un significato, cercando di cogliere ragioni e logiche del loro essere e del loro fare. È stata una immersione nella diversità, che è altra cosa dal ‘turismo del diverso’ dove l”altro’ è e rimane distaccato, dall’altra parte come visitatori allo zoo.
Ciò che siamo, ciò che facciamo e anche ciò che diciamo non è mai un assoluto. Esiste sempre qualcos”altro’ che rende relativo. Anzi è questo ‘altro’ che abilità l’evoluzione. Solo guardando ‘fuori’ gli individui e le società possono pensare di svilupparsi, mentre stando solo ‘dentro’, in modo autoreferenziale, si attua una mera perpetuazione dell’esistente, destinandoci irreversibilmente ad uno scollamento.
Pubblicato su Invito a …
Foto: gli zingari
Ho qualche perplessità, in genere, quando si svolgono discorsi generici sui "diversi".
Ho svolto un anno di servizio civile obbligatorio assieme a disabili psicofisici ed è stato l'anno più bello e importante della mia vita. Ho trascorso almeno una vacanza di natale a giocare a carte con topi di appartamento e non mi è restato nient'altro che squallore. Solo sensazioni negative ho ricevuto dall'incontro di associati a sette ("religioni non istituzionali"?). Certo ho cominciato ad apprendere cosa sono le sette, quali meccanismi scattino, prima che avvenga l'associazione e durante. Ma gli iscritti a sette non mi hanno dato niente, se non come oggetti del mio pensiero. Molto meglio è stato il rapporto con chi in passato era stato associato a una setta (un ex diverso, dunque). Clandestino è categoria generica, idonea a contenere i fenomeni più diversi. Con gli accattoni mi soffermo spesso, tanto più se sto passeggiando con i figli. C'è in essi sovente una tenerezza superiore alla media. Altre volte c'è rabbia e rancore. Con i primi divento amico. I secondi, in genere, li evito e ai loro occhi rancorosi o minacciosi rispondo con sguardi di disprezzo. Quanto agli zingari, sono i miei vicini di casa da 28 anni (vicini di casa dei miei, per la precisione). Reciproco rispetto e scambio di saluto con alcuni. Indifferenza al fatto che spaccino sotto casa. Ma nessuna volontà di approfondire il rapporto, né da parte mia né da parte loro. Tutta questa voglia degli zingari di conoscerci non la vedo anzi proprio non esiste. Mi sorprendo sempre perciò quando incontro italiani smaniosi di approfondire la conoscenza degli zingari.
Insomma i pregiudizi e l'incapacità di avere rapporti con gli sfortunati o con coloro che hanno sbagliato o con le varie figure di diversi sono indubbiamente limiti. Ma l'idea che siano gli altri che abilitino l'evoluzione e la crescita è senza senso. E' irrazionale, irragionevole e controfattuale come i pregiudizi (direi in modo simmetrico). Gli altri, e tra essi i diversi, li incontriamo eventualmente. Ma non suggerirei di andarli a cercare né di immergerci in essi.
L’azione abilitante è insita nell’esistenza di costoro.
La loro presenza relativizza, è affermazione vivente che un qualsiasi ‘sistema’ non è e non può essere un assoluto, bensì una possibilità a fianco di altre che, in un determinato periodo storico, ha trovato le condizioni per affermarsi, ma che è irrimediabilmente destinato a venir meno.
Alessandro, un conto è dire che l’esistenza dei diversi è abilitante (ma ripeto che quando si svolge un discorso così generico è impossibile non muovere da una petizione di principio). Un conto è suggerire di immergersi nel diverso. Chi non intende immergersi nel diverso non vuole perciò negarne l'esistenza (non è uno sterminazionista). Semplicemente ci convive fianco a fianco per anni senza instaurare alcun rapporto, oppure, essendoci capitato per caso, non stringe alcun rapporto. Li addita ad esempio di come non si deve essere. Oppure trova in alcuni di essi un arricchimento della propria personalità. Però se assolutizzi la tua posizione, servono anche le etnie che praticano la tortura o che mangiano il cuore dei nemici e quegli zingari che al 99% rubano, prestano a strrozzo, gestistcono prostitute e spacciano, così come i camorristi incalliti. In realtà queste categorie di diversi non relativizzano ma assolutizzano, perché rafforzano il bene e lo rendono assoluto. Il contatto con il diavolo e la momentanea perdizione possono anche servire. Ma non per relativizzare il bene, bensì per assolutizzarlo. Naturalmente, come ho detto, non tutti i diversi sono il male assoluto. Ma possono esserlo, almeno nell'accezione generica che tu hai accolto. Quindi, continuo a reputare che la filosofia di immergersi nei diversi è senza senso.
Concordo appieno sul potenziale di arricchimento implicito nel confronto colla diversità, a patto di non equiparare tacitamente quest'ultima col reietto e l'emarginato (il poverello afflitto del vangelo cristiano o il proletario sfruttato di quello marxista) e tradurre tale potenziale in un'etica del rispetto e della compartecipazione nei confronti degli ultimi della terra.
Che mi sembra precisamente l'intenzione di Bolzonello.
Non c'è dubbio che il confronto coll'Altro costituisca un fondamentale fattore di ampliamento degli orizzonti dal punto di vista sia intellettuale che esistenziale. Tuttavia, la cosa può ma per nessun motivo deve necessariamente risolversi in una fiaba del rispetto e della comprensione reciproca.
Anzitutto c'è sempre tanto più da imparare nel contatto coi potenti che non cogli umili. I primi hanno un'intelligenza e un orizzonte che per lo più manca completamente ai secondi, interamente immersi nella loro piccola (e in ultima analisi sorda e ripetitiva) quotidianità.
In secondo luogo, ricordo che qualsiasi assieme sociale si regge su una Weltanschauung, cioè su un insieme di pregiudizi condivisi, e che questi possono e debbono essere destabilizzati dall'arricchimento spirituale inerente al contatto colla diversità. A meno che non si neutralizzi premeditatamente tale potenziale "evitando di usare ciò che è fuori per contaminare il dentro". E per quale motivo al mondo il 'dentro' non dovrebbe essere contaminato? Bolzonello risponderà: per rispetto verso il mio e l'altrui 'dentro', al che io ribatto: come giustifichi questo rispetto, che inevitabilmente si risolve in una limitazione del potenziale abilitante-destrutturante? Per quale motivo stare in mezzo ai ladri o vivere in una società collettivista non dovrebbe indurmi a rubare, a deridere pubblicamente l'onestà, a concettualizzare l'inanità del diritto di proprietà?
In terzo luogo, il confronto col diverso può risolversi tanto in un processo condivisivo quanto in uno oppositivo. Il contatto cogli zingheri può indurmi ad apprezzare tanto il nomadismo quanto i campi di sterminio. Storicamente, il confronto col diverso si è risolto tanto in un processo di convivenza-meticciamento quanto nella persecuzione o nell'annichilimento. Solo nei fumi retorici del regime antirazzista è garantita / doverosa (ogni religione politica miscela insensibilmente il piano descrittivo con quello prescrittivo) la confluenza entro il primo alveo.
Il teorema di Bolzonello, insomma, mi trova fondamentalmente d'accordo, ma solo una volta che lo si sia spogliato dell'aura di valori e sensibilità non dichiarate che gli conferiscono il suo fascino e la sua poesia.
Intuisco (penso) il rischio percepito da Lorenzo.
Ho riletto il testo cercando di cogliere, anche tra le righe, le istanze che disapprova.
Non ho trovato alcuna traccia se non nei termini stessi riportati nel titolo che, nel tempo, sono diventati evocativi di molto altro, tra cui anche delle istanze sostenute da Lorenzo. Nulla di più.