Mary Kaldor: L’Europa e la “nuova guerra”
[Mary Kaldor, da alcuni considerata “una figura chiave nello sviluppo della democrazia cosmopolita”, insegna Global Governance alla London School of Economics.]
Ulrich Beck, nel suo meraviglioso libro German Europe, («L'Europa tedesca», Polity, 2013), sostiene che l'Europa non è stata fondata sulla logica della guerra, ma sulla logica del rischio. L'Unione europea – fa notare Beck – si regge su una rete di «non». Non è una nazione, non è uno stato e neppure un'organizzazione internazionale. Gli stati sono stati edificati sulla logica della guerra.
L'Unione europea rappresenta un diverso tipo di sistema governativo, costruito per reazione al rischio della guerra e, oggi, per reazione al rischio del collasso economico.
Gli economisti sostengono che l'unione monetaria sia stata un grosso errore in assenza di un'unione politica. Beck, invece, sostiene proprio il contrario: l'unione monetaria stabilirebbe un interesse materiale per un'unione politica. Senza l'unione monetaria non ci sarebbe alcuno slancio per l'unione politica.
Fin qui tutto bene. Ma c'è di più in questa storia. Nell'Europa di oggi le logiche economiche e politiche spingono in direzioni opposte. È vero che l'unione monetaria decide il bisogno dell'unione politica, e tutti lo capiscono a livello delle élites. Ma le conseguenze dell'unione monetaria e l'agenda neo-liberista a essa associata, stanno indebolendo, allo stesso tempo, quel che è noto come consenso passivo, indebolendo enormemente la legittimità delle élites europee e con esse il progetto europeo.
L'Unione europea è stata fondata per reazione a quella che chiamo la "vecchia guerra": le guerre del ventesimo secolo. Benché, a rigor di logica, questioni di interesse materiale dovrebbero condurre a un'accresciuta cooperazione politica, la politica europea contemporanea, o l'assenza di quest'ultima, suggerisce piuttosto la possibilità di nuovi conflitti, ciò che definisco la "nuova guerra".
L'idea secondo cui la cooperazione economica condurrebbe alla cooperazione politica è stata un punto centrale fin dal principio dell'integrazione europea. I fondatori dell'Ue credevano che obiettivi di "alta politica" sarebbero stati raggiunti attraverso misure di "bassa politica". La cooperazione economica e sociale stabilirebbe legami fra le persone, e questo alla fine porterebbe all'unione politica.
Nei primi tre decenni dopo la seconda guerra mondiale tale argomento sembrava effettivamente avere un qualche valore. Il cosiddetto "metodo Monnet" implicava la cooperazione a livello di infrastrutture (carbone e acciaio), dell'agricoltura, così come delle politiche regionali. Piccoli passi venivano intrapresi in direzione di una più grande cooperazione politica. Ma dopo il 1989 tutto è cambiato.
Da una parte l'89 è stato il punto alto raggiunto dai movimenti cosmopoliti del post-'68 – i "figli della libertà", come li chiama Beck. Il concomitante avvento della pace, dei diritti umani e la fine della guerra fredda hanno portarono a una nuova ondata di europeismo. Dall'altra parte ci fu l'arrivo dell'età del neoliberismo.
La stessa critica della rigidità, del paternalismo e dell'autoritarismo dello stato sviluppata dai "figli della libertà" fu usata per chiedere più mercato – deregolamentazione, privatizzazione e stabilizzazione macro-economica. I "figli della libertà" avevano dato la giustizia sociale per scontata e, nel reagire contro la "vecchia sinistra", avevano dato spazio a una nuova destra radicale.
Il Trattato di Maastricht del 1991 può essere considerato come un contratto fra gli europeisti, guidati da Jacques Delors, e i sostenitori del libero mercato, simboleggiati da Margaret Thatcher. Ma logica del mercato è molto diversa dalla cooperazione tra stati. Negli ultimi due decenni è stata realizzata in Europa quest'unione contraddittoria di cosmopolitismo e mercato.
Sul primo versante, l'Europa si è estesa verso est, sviluppando una politica di vicinato basata sull'applicazione del "metodo Monnet", estendendo i metodi della "bassa politica" ai paesi confinanti e, a volte, anche oltre. A livello internazionale la Ue ha elaborato politiche per la gestione delle crisi e per l'aiuto allo sviluppo che, seppur gestite spesso in maniera burocratica, l'hanno trasformata nella più grande donatrice di aiuti nel mondo e in una protagonista del dibattito globale sul cambiamento climatico, la povertà e la sicurezza globale.
Sul secondo versante, le regole del mercato unico e dell'euro – i cosiddetti criteri di convergenza – associati con le altre riforme neoliberiste, hanno portato a un aumento delle disuguaglianze, dell'insicurezza e dell'atomizzazione, indebolendo il senso di comunità e la politica cosmopolita.
Per di più, le politiche di sicurezza interna e la sorveglianza, specie ai confini dell'Europa estesa, hanno contribuito a crescenti diffidenze all'interno delle società. È vero, come nota Beck, che interessi materiali potrebbero imporre la cooperazione politica. Questa è la sola via per salvare l'euro.
Ma l'"alta politica" della Ue è ancora assente – abbiamo solo Merkiavelli, il titolo di un brillante articolo di Ulrich Beck su opendemocracy.net. Le élites nazionali ora non hanno un sostegno popolare e il cosiddetto consenso passivo, che ha permesso l'avanzamento dell'integrazione europea, sta scomparendo rapidamente. Il destino dei Primi ministri tecnocrati, Mario Monti e Lukas Papademos, imposti a Italia e Grecia, illustra la fine del consenso passivo.
Quella che l'Europa sta affrontando è una profonda crisi politica. Questa è la conclusione del nostro rapporto sulla "Politica sotterranea" (The Bubbling Up of Subterranean Politics, in pubblicazione con Routledge). Le proteste e le manifestazioni, le nuove iniziative politiche e i nuovi partiti non sono soltanto una reazione all'austerità. Riflettono una profonda perdita di fiducia nelle attuali élite politiche – esprimono l'opinione che tali élite siano rinserrate dentro interessi materiali e mediatici e siano perciò incapaci di agire a vantaggio del bene comune, insieme alla percezione che la democrazia rappresentativa non riguardi più la partecipazione, ma miri soprattutto a riprodurre quell' élite .
Il problema è che, nell'assenza di un "cosmopolitismo dal basso", di un progetto di solidarietà europea, quest'assenza di fiducia politica può essere facilmente manipolata da partiti xenofobi, euroscettici ed elitari di vario genere. Partiti come l'Ukip (UK Independence Party), i True Finns, il Dutch Freedom Party, Alba dorata in Grecia e altri analoghi stanno realizzando incursioni elettorali in quasi ogni paese europeo. E i partiti tradizionali, preoccupati da considerazioni a breve termine di carattere elettorale, tendono ad assecondare i sentimenti espressi da questi partiti, invece di dar voce agli interessi comuni di lungo termine.
È molto difficile capire come l'Europa possa sfuggire a questa spirale. L'analisi offerta dal volume di Ulrich Beck sottolinea che l'europeismo della stabilità monetaria è radicato a tal punto nella mentalità tedesca che è improbabile che un'Europa tedesca, guidata da un pragmatismo apolitico, possa cambiare il suo corso.
L'assenza di una pressione dal basso in Europa, la debolezza della solidarietà trans-europea, la frammentazione della "politica sotterranea", tutto lascia intravedere tendenze politiche piuttosto buie. Lungi dall'essere un'eccezione, una dissonanza marginale, la Grecia potrebbe rappresentare il futuro per gran parte dell'Europa. Quanto accade in Grecia è tipico di ciò che chiamo "la nuova guerra", l'emergere di nuove forme di conflitto. I drammatici tagli nella spesa pubblica indeboliscono la capacità dello stato ed erodono ulteriormente fiducia e legittimità, dando spazio a una combinazione di criminalità e di politica estremista.
Una tale mescolanza si autoriproduce perché chi ne è coinvolto trae vantaggio dal disordine. E' una dinamica che è molto difficile fermare; si sta affermando un nuovo tipo di economia politica predatoria, che non conosce nessun limite. La sola risposta sarebbe un'autorità politica cosmopolita, ma da dove potrebbe venire?
[“il manifesto”, 30.3.2013]
Allucinata ricostruzione del processo di integrazione europea, priva di ogni addentellato colla realtà.
L'unificazione europea occidentale (CEE e significativamente NATO) nasce e si sviluppa come un'alleanza in funzione anticomunista interamente dominata dal conquistatore anglosassone, che prosegue la secolare politica britannica volta a scongiurare egemonie continentali. Alleanza identica e speculare a quella dei satelliti sovietici in funzione anticapitalista ed antiamericana.
Il grado di alienazione della Kaldor si rende evidente quando ricostruisce il crollo sovietico come "il punto alto raggiunto dai movimenti cosmopoliti del post-'68 – i figli della libertà". Il crollo sovietico è esclusivamente il risultato della vittoria statunitense nella quasi cinquantennale guerra non dichiarata combattuta fra le due superpotenze e relativi corteggi di satelliti.
Dal fatto che un giornale come il Manifesto pubblichi una simile demenza si ricava bene anche il grado di svirilizzazione ed annaquamento cui è giunta la c.d. sinistra (per ridere): la storia non è più letta in termini di guerra (sia pure di classe), manipolazione del gregge e fioritura di ideologie pugnaci, ma come trionfo dei figli dei fiori e del potere all'immaginazione. I fumi di questa narrazione servono naturalmente a coprire il fattivo asservimento al regime plutocratico.
Di valido, nell'articolo, c'è solo il riconoscimento del fortunato sgretolarsi del consenso passivo che lega il gregge mediatizzato al regime. Anche la crisi europea non è dovuta alle "regole del mercato unico e dell'euro": l'Europa sta semplicemente seguendo il suo padrone ed unificatore anglosassone sulla strada del capitalismo terminale che questo l'ha costretta ad intraprendere (certo aggravata da una moneta la cui introduzione è stata anticipata di 40 anni per tenere sotto controllo la Germania rinunificata).
Anche le conclusioni sono vaghe e svolazzanti come un velo di seta: non si capisce cosa vorrebbe fare la Kaldor contro la situazione attuale. E non lo si capisce perché questi schiavi contro la situazione non vogliono fare proprio niente: sanno che se il regime crolla finiscono anche i loro stipendi e le loro pensioni, sanno che con esso finisce probabilmente nella pattumiera della storia anche la loro mitologia antinazista e antirazzista, hanno orrore del caso di eccezione, cioè della guerra, cioè della vita. Che differenza rispetto ai socialisti d'inizio secolo che vagheggiavano sì il sol dell'avvenire, ma intanto parlavano di odio di classe, di guerra civile, di dittatura del proletariato!
E allora i nostri manifestini & C. fanno quel che fan tutti in questa società putrescente: campano nell'oggi ed evitano di pensare a un domani sempre più minaccioso. Il rifiuto di pensare, per un giornalista o un intellettuale, si traduce ovviamente in un pensiero trasognato e regressivo come quello dell'articolo.
Mai lette tante idiozie, ipocrisie, falsità, assurdità in un solo articolo.
Bene a fatto Giampero a pubblicare questa sconcezza. Ormai è chiaro che chi continua a leggere Il manifesto non è di destra (ma un bel po' lo è) non è di sinistra (figuriamoci) non è popolare (è ultra elitista)_ è semplicemente uno scemo. E lo dice una persona che ha letto quotidianamente Il Manifesto per dieci anni. Allora si trovavano sul quotidiano articoli dalle posizioni contrastanti ma almeno alcuni erano informativi e altri interessanti. Un articolo del genere spero che sia il segno della fine definitiva del quotidiano. Mandiamolo online questo giornalaccio! E auguriamoci che tra due anni i patrioti italiani avranno un giornale online più letto di quanto sia adesso questo spregevole giornale.
Stefano, quello che dici sul "manifesto" è giusto ma, più in generale, riguarda tutta la cosiddetta sinistra radicale/altermondista giunta meritatamente al capolinea. Il teorico che meglio rappresenta lo sfacelo è senza dubbio Toni Negri, con la sua idea che l'Impero non sia imperialista: un catastrofico gioco di prestigio intellettuale che trascina praticamente ogni cosa con sé e spiega bene l'attuale impasse.
Mary Kaldor mi sembra grosso modo sulle stesse posizioni. L'interesse di questo articolo deriva proprio dall'essere uno scritto militante, di parte, come dimostrano le affermazioni propagandistiche, false, retoriche, sulla missione "provvidenziale" dell'UE. Al contempo, però, vi sono espressi, o meglio adombrati, alcuni concetti forti che l'ARS sostiene da sempre. Per esempio l'inesistenza del popolo europeo ("cosmopolitismo dal basso", lo chiama la Kaldor). Oppure l'impossibilità di un cambiamento di rotta, da parte dell'Europa a trazione tedesca, in materia di politica economica e monetaria. E infine la stroncatura degli Stati Uniti d'Europa ("autorità politica cosmopolita").
In sostanza, in quest'articolo vedo sia l'ammissione di un fallimento sia il timore di affrontarlo a viso aperto.