La «fuga in avanti» della CGIL
L’indomani della creazione delle prime Istituzioni comunitarie (CECA e CED), che precorsero il Trattato di Roma del 1957, il maggior sindacato italiano intraprese un lento percorso di revisione del proprio atteggiamento nei confronti di una certa spinta al mutamento – evidentemente considerato ineluttabile nel processo di integrazione europea – delle forze economiche e sociali in un mercato sempre più ingovernabile.
Un importante passo in questa direzione fu la risoluzione “La posizione della CGIL sul Mercato Comune Europeo” del 19 luglio 1957, adottata all’unanimità, nella quale il Comitato esecutivo prese atto di «una tendenza verso forme di intesa economica internazionale e verso forme di integrazione di mercati europei» e che questa tendenza «poggia anche su esigenze obbiettive, quali la necessita di garantire più ampi mercati ai progressi in atto della tecnica produttiva, di coordinare gli sforzi per lo sfruttamento più razionale di tutte le risorse tecniche, energetiche e umane, di garantire uno sviluppo più rapido delle regioni economicamente arretrate le quali costituiscono una remora alla stabilita economica di tutte le nazioni europee». «Malgrado inconvenienti di natura transitoria che possono derivare dallo sviluppo di una tale tendenza, il Comitato esecutivo ritiene che essa vada appoggiata, perché può recare in prospettiva un contributo fondamentale e, in una certa misura, insostituibile, allo sviluppo generale delle economie europee e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori».
Sebbene non mancassero alcune preoccupazioni riguardo il “carattere incontrollato (nel tempo e nello spazio) previsto dal trattato per l’esportazione dei capitali; l’abolizione di ogni forma di controllo sugli scambi di merci; il divieto agli aiuti forniti dagli stati nei confronti di settori produttivi o di regioni economiche (…). In particolare, la possibilità di realizzare un'efficace politica di industrializzazione del Mezzogiorno verrebbe ad essere seriamente compromessa dall’applicazione del trattato [Trattato di Roma]”, il documento si configurava come primo passo di una “fuga in avanti”, nella speranza di rendere europee le trattative sindacali sui salari, le lotte per l’occupazione, l’orario di lavoro, le prestazioni previdenziali e così via.
Vent’anni dopo, con il manifestarsi di nuova crisi delle economie capitalistiche, un Convegno di Fiuggi del 1977 dal titolo sintomatico “Nuova democrazia e piena occupazione – Socialisti e lotte operaie in Italia e in Europa” fu l’ennesimo momento per i socialisti della CGIL per ribadire l’esigenza di «lotte operaie unitarie a livello europeo» sebbene caratterizzate, commentava Giorgio Lauzi, da « uno sforzo di anticipazione in qualche misura sbilanciato rispetto alla situazione esistente, e ciò perché le lotte operaie europee (per un diverso tipo di sviluppo europeo che sappia «replicare» alla crisi del capitalismo con un «progetto» il quale rechi in se stesso elementi significativi via via più accentuati di socialismo) sono ancora pressoché tutte da costruire».
Oggi possiamo dire che questa “fuga in avanti” rispetto ai problemi economici, sociali e politici del Paese, nel miraggio di una nuova piattaforma sindacale europea ,non produsse altro che lo svuotamento delle lotte nazionali.
È certamente utile, per comprendere l’evoluzione del dibattito interno alla Confederazione, riportare alcuni passaggi del discorso di Mario Didò, nel corso del citato convegno di Fiuggi. L’allora segretario confederale, nonostante credesse fermamente nel processo di integrazione europea, riuscì a mettere in luce con sincera preoccupazione molte di quelle contraddizioni che oggi, invece, vengono accettate, giustificate o ignorate.
La prima parte del discorso affrontava in tono critico le politiche di austerità che, allora come oggi, seppur in forma più attenuata, colpirono l’occupazione.
«Nel movimento sindacale europeo è maturata progressivamente la consapevolezza che parlare di occupazione non significa parlare di un problema specifico o particolare, da affrontare con misure di natura sociale, ma che significa parlare di politica economica e cioè di misure e di strumenti di intervento nella economia da utilizzare per modificarne il corso e creare così le condizioni per un aumento dell'occupazione. […]
Le misure deflazionistiche finora adottate in tutti i Paesi e dalle istituzioni monetarie finanziarie internazionali, se hanno avuto un certo successo nel combattere l’inflazione e i deficit delle bilance dei pagamenti non sono però riuscite ovviamente a rimettere ordine nel sistema monetario internazionale, né a creare le condizioni per un ritorno spontaneo agli investimenti, all’aumento della produzione e dell’occupazione. […]
Bisogna dunque risalire alle cause profonde della crisi per trovare la via giusta da seguire che è quella di favorire condizioni per una ripresa produttiva che non sia solo frutto di un aumento della produttività a costo di un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, ma sia il risultato di un aumento dell’occupazione. E l'occupazione può crescere solo se la produzione aumenta ad un tasso più elevato della produttività, il che è l’esatto contrario di quanto sta avvenendo negli stessi settori e nelle stesse imprese più attivi. […]
La caduta generalizzata degli investimenti estensivi e la parallela crescita della disoccupazione si possono […] considerare un dato strutturale e politico di tutti i Paesi industrializzati. […]
[la scelta della programmazione] implica il rifiuto netto della linea capitalistica di un rilancio che sconta una sconfitta preliminare delle rivendicazioni sindacali, che punta quindi sul rilancio degli investimenti intensivi senza alcuna selettività settoriale e territoriale, insistendo sull'attuale modello di consumi individuali e rifiutando, oltretutto, l'esigenza di un severo piano di risparmio di energia i cui prezzi sono destinati ad aumentare, e lo sviluppo di fonti alternative al petrolio. Per il nostro Paese, la scelta di un rilancio produttivo che ottemperi alla esigenza del riequilibrio della bilancia dei pagamenti e dell'attenuazione dell’inflazione, non può che basarsi sulla penalizzazione dei consumi privati ad alto contenuto di importazioni e su una politica industriale ed agricola che miri a sostituire le importazioni con produzione interne, sia intervenendo nei settori a tecnologia matura che in quelli di avanguardia. […]
I problemi che a questo riguardo sorgono tra le istituzioni nazionali e internazionali non possono essere assolutamente ignorati. La famosa lettera della Commissione della CEE che ricorda, giustamente, al nostro Governo che secondo le norme comunitarie vigenti sulla «libera concorrenza», ogni singolo provvedimento che sarà adottato in applicazione della legge di riconversione industriale dovrà essere sottoposto al vaglio della Commissione stessa che ne valuterà la compatibilità, deve farci riflettere. La stessa procedura del resto è stata aperta per una iniziativa analoga adottata dagli Olandesi. […]
La crisi dei settori tessile, siderurgico, cantieristico, ecc. «è dovuta sia a cause congiunturali (caduta del mercato per effetto della crisi); sia alla durissima concorrenza in atto tra i paesi industrializzati, che si configura come una specie di guerra commerciale; sia all’intervento produttivo in questi stessi settori dei paesi del 3° Mondo, per cui una soluzione strutturale dovrebbe essere inquadrata in una strategia generale di politica economica e non solo con misure assistenziali e contingenti.
Le norme di libera concorrenza creavano, allora come oggi, profondi squilibri nella bilancia dei pagamenti, anche senza l’aggravante di un cambio nominale fisso, costringendo i paesi in deficit a estenuanti politiche deflazionistiche. Mentre l’adozione del principio della “libera concorrenza” (oggi maggiormente affermato e difeso), implicava forti limitazioni nel potere degli Stati di programmare le proprie economie.
Il problema che poniamo noi […] è quello di orientare gli investimenti (attraverso incentivi e disincentivi) a favore di nuovi settori produttivi, che evidentemente diventa un fatto concorrenziale nei riguardi degli stessi settori sviluppati in altri Paesi della CEE e dunque, in nome della salvaguardia delle regole dell’economia di mercato, che stanno alla base del Trattato di Roma, questa nostra strategia programmatoria rischia di saltare. […]
Il nostro Paese come tutti gli altri Paesi capitalistici che hanno problemi di deficit della bilancia dei pagamenti e di disavanzo pubblico, ha chiesto al F.M.I. e alle stesse istanze comunitarie, così come a singoli Paesi, dei prestiti che sono stati concessi a ben determinate condizioni che vincolano il nostro governo ad un’azione di risanamento finanziario entro breve termine, con misure restrittive che hanno provocato […] un aggravamento della crisi in atto.
Lo stesso metodo di governo che pone precise “condizionalità” è presente tutt’oggi in Istituzioni europee più recenti, come il M.E.S., che in caso di rischio insolvenza per debito eccessivo, con conseguente fuga di capitali, concede assistenza finanziaria agli Stati in difficoltà in cambio di ulteriori cessioni di sovranità in politica di bilancio.
Si pongono in definitiva due questioni: la prima è che non possiamo impostare una politica di programmazione economica nel nostro Paese senza contemporaneamente aprire una contrattazione a livello internazionale e a livello CEE. […] La seconda questione che si pone è quella per cui una politica di programmazione a livello nazionale può diventare incompatibile con una politica economica in sede comunitaria basata su una economia di mercato dominata dalle multinazionali e sostanziata da indirizzi contrari ad un orientamento selettivo degli investimenti.
Non a caso una recente proposta della Commissione, per una politica di prestiti comunitari, basati sul ricorso della stessa Commissione al mercato finanziario internazionale, per finanziare progetti di investimenti di carattere strutturale nell'ambito di scelte di interesse comunitario (per esempio nei settori dell’energia e dei trasporti) è stata bocciata dal Consiglio dei Ministri. […]
Una politica di programmazione non è solo una scelta economica, ma è anche una scelta politica perché la sua realizzazione esige un avanzamento e un arricchimento della democrazia, a tutti i livelli. In primo luogo garantendo la partecipazione e il controllo sociale e sindacale dei lavoratori sulle scelte di politica economica e sui programmi di sviluppo, a partire dalle imprese, e nei confronti delle istituzioni pubbliche, sia di Governo, sia delle assemblee elettive. […]
Far avanzare la democrazia economica significa fare avanzare la democrazia in quanto tale, intesa come modo di fare partecipare i lavoratori, a partire dalla impresa e fuori dall’impresa, a livello della società.»
Il lettore si sarà accorto che nessuna delle questioni poste 35 anni fa ha trovato oggi soluzione. Anzi, tutti i problemi sono stati amplificati proprio lì dove si è gridato “più Europa” con messianica fede.
Gianluigi Leone (ARS Lazio)
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