Le lingue dei vinti
Le lingue dei vinti
di Luciano Del Vecchio
L’estinzione linguistica è un processo di progressiva riduzione della competenza linguistica in un gruppo umano parlante una determinata lingua. Ovviamente è un fenomeno che non si esaurisce nel giro di un decennio o di qualche generazione, e si completa quando nessun parlante la lingua identitaria sopravvive nel gruppo umano considerato. Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, nell’arco di soli sei decenni, il numero delle lingue autoctone, parlate dalle popolazioni locali, in particolare nelle Americhe e in Australia, si è notevolmente ridotto con ritmi accelerati. Meno vistoso, invece, è tale processo in Europa, in Africa e in Asia. L’estinzione, che può riguardare qualsiasi lingua, è stata studiata in passato, ma in particolare nel corso degli ultimi due secoli, da quando l’interesse sistematico, relativamente recente, per le sorti delle lingue a rischio di estinzione ha indotto gli ambienti scientifici a rilevarlo, quantificarlo e misurarlo sul campo.
Nelle generalità dei casi l’estinzione è graduale, per cui non si considera qui quella radicale e improvvisa, non più frequente, dovuta a catastrofi naturali che sterminano interi gruppi umani, o, ancor peggio, a violente imposizioni di regimi coloniali che comportarono la scomparsa degli idiomi parlati da gruppi demograficamente poco numerosi e stanziali. Nel caso dei dialetti la gradualità della scomparsa è un fenomeno che molti italiani possono sperimentare, o aver sperimentato, da un punto di osservazione privilegiato che è la cerchia familiare, parentale o comunitaria, senza la necessità di apprenderlo da ricerche scientifiche svolte su periodi secolari, ma di constatarlo già nel corso dei pochi decenni intercorsi tra l’infanzia e la maturità. Non che dei dialetti, ma negli ultimi anni un’incipiente, lenta e costante riduzione d’uso della lingua comincia a essere percepita anche in ambito scolastico e accademico.
Meno appariscente e meno percepibile dagli individui è l’estinzione graduale decisa e programmata a livelli istituzionali e massmediatici e di istituzioni educative. L’industria delle comunicazioni e quella dello spettacolo solitamente avviano una sostituzione lenta e inavvertita del lessico di una lingua con quello di un’altra, tramite condizionamento mentale; sembrano gareggiare quotidianamente nell’applicare direttive di un unico disegno che, in un primo stadio, presenta la sostituzione lessicale come un semplice assestamento di bilinguismo, condizione di indubbia utilità per una comunità di parlanti. Ma, se in seguito una delle due lingue acquisite va a sostituire la lingua identitaria, questa è penalizzata e si estingue, secondo sviluppi che il linguista francese Claude Hagège ha descritto scientificamente nei suoi saggi e in particolare in “Morte e rinascita delle lingue”.
Questo processo di assimilazione, modifica e sostituzione lessicale, che non sempre è volontario ma forzato, viene imposto in proporzioni tali da trasformare una lingua, prima sovrana e maggioritaria, in una lingua minoritaria e regionale, o addirittura in dialetto, cioè in una lingua quasi esclusivamente orale, usata in situazioni linguistiche socialmente limitate ad ambiti ristretti di vita quotidiana. Quando i parlanti anziani trasmettono alla generazione successiva una lingua non più sentita come fattore fondante l’identità del gruppo che essa esprime; o la trasmettono in modo parziale e priva di sufficiente competenza, anche la successiva massa parlante non usa più la lingua madre per comunicare, se non con i membri anziani della generazione precedente. In questo nuovo stato di restrizione d’uso la lingua può essere definita “in via di estinzione”. È un processo molto lento, in cui l’individuo padroneggia sempre meno le sottigliezze e le proprietà della lingua madre e sempre più la circoscrive a esprimere soltanto contenuti affettivi, o poetici, o musicali. Quando poi i parlanti della lingua regionalizzata cominciano ad abbandonarla per motivi economici o utilitari, la via per la scomparsa è tracciata e, nei decenni successivi, può essere percorsa più o meno velocemente a seconda del grado di autonomia politica, economica e culturale che il popolo parlante riesce a difendere e conservare. Da questo punto di vista le cause e i meccanismi che preannunciano la scomparsa di una lingua non sono molto diversi da quelli che comportano la perdita di sovranità popolare e nazionale.
La lingua che, a torto o a ragione, i glottoconvertiti considerano più utile e prestigiosa, soffoca la lingua originaria in un processo che, in spazi e tempi dilatati, gli stessi percepiscono come spontaneo, naturale, ineluttabile, imperativo, inarrestabile. Questa altra lingua viene proposta o esibita come veicolo di realtà e valori sentiti e considerati superiori e “moderni”. Nel caso dell’inglese, lingua del monoteismo economico, i valori percepiti come superiori, fatali e ineluttabili, senza alternativa, sono quelli dell’economia liberista, che non lascia concepire altri sistemi economici e produttivi al di fuori del suo; e nel contempo non utilizza altri idiomi se non quello che insegna, educa e induce ad accettare come ineludibili il mercato unico, l’anarchia finanziaria e la concorrenza sfrenata a tutti i livelli.
Linguicidio è parola solitamente non usata ed è anche un brutto neologismo, ma meritevole di maggiore attenzione perché definisce un fenomeno che è proprio dei nostri tempi, sotto i nostri occhi, nella nostra storia: l’estinzione linguistica voluta, decisa, programmata e imposta. Con questo carattere di intenzionalità il fenomeno non esisteva nei secoli scorsi, almeno non fino all’inizio dell’era coloniale moderna, non fino a quando tra le cause e i mezzi per estinguere una lingua non erano ancora annoverate la decisione politica e gli apparati di controllo massmediatico.
Per questo carattere di novità il glottoimperialismo non è ancora avvertito e riconosciuto, si stenta a crederlo e a vederlo come disegno politico e come azione di guerra. Chi ne accenna rischierebbe la taccia di complottista, se non fosse che ad avviare il progetto glottoimperialista, a proclamarlo, attuarlo, finanziarlo, e continuamente rilanciarlo, sono stati esponenti politici anglo-americani di primo piano sulla scena politica e diplomatica internazionale, a partire dagli anni ’30 del secolo scorso fino ai giorni nostri.
Su questo progetto, ormai indubbio e innegabile, si sono orientate le ricerche del linguista Robert Phillipson, docente presso il dipartimento di studi linguistici internazionali della Business School di Copenaghen. Lo studioso individua la lingua inglese non solo come fattore di imperialismo politico, economico e culturale, ma anche come strumento di espansione ideologica, secondo un metodo di analisi comparata che unisce linguistica, investigazione politico-sociologica e le teorie sulle relazioni tra linguaggio e potere, e tra gruppi dominanti e gruppi dominati. In breve, se non viene prima modificato l’attuale profondo squilibrio di potenza politica a favore degli Stati Uniti, la vittoria del linguicidio a livello planetario è fatale.
Che un piano siffatto possa realizzarsi o meno, è dato saperlo esaminando i casi delle molte lingue asiatiche e africane che si sono estinte dall’inizio dell’epoca coloniale ai nostri giorni. Non è dato saperlo se si realizzerà in pieno, o solo in parte, o per nulla – si auspica – in territori e tra popoli dove le lingue storiche godono di tutt’altra stabilità, di secolare tradizione scritta e parlata, e di maggior prestigio culturale rispetto alle lingue di altri continenti. Nello spazio europeo il progetto è strettamente legato alle sorti delle sovranità politiche economiche e culturali dei popoli. Tutto sommato, impedire l’estinzione di una lingua è un problema non risolvibile con soli strumenti linguistici, ma con l’attuazione di politiche sovraniste in tutti settori della vita nazionale.
Non sono spie rassicuranti l’imposizione della lingua straniera nelle lezioni e nei corsi universitari, e la convergente proibizione di usare la lingua nazionale pena il rifiuto della borsa di studio o sussidio per lo studente renitente al corso anglofono. Anche nel campo delle ricerche e delle pubblicazioni scientifiche è già in atto da parecchi decenni in Europa l’estinzione settoriale delle lingue. In crescendo discriminante è la glottopolitica dell’Unione europea, che impone la lingua inglese nei concorsi pubblici ed esclude le altre lingue storiche nella redazione degli atti legislativi; lingue che dal trattato di Roma erano state dichiarate ufficiali come lingue di stati fondanti la comunità europea, sono state escluse dalla produzione degli atti comunitari. Nell’amministrazione, nelle accademie e università, nella scienza e nella scuola, domini sociolinguistici che possiamo definire “alti”, una lingua non serve soltanto come strumento di comunicazione corrente, informale, quotidiana, ma esprime contenuti diversificati e settorialmente specifici. In questi ambiti la lingua, quanto più ampiamente viene usata, tanto più gode di buona salute. Quando da questi ambiti i ceti dirigenti e le istituzioni autorevoli cominciano a escluderla, a non tutelarla con politiche adeguate, la lingua tende ad assottigliarsi, a deperire, a perdere forza, a svilirsi.
Il dibattito sulle lingue in via di estinzione vede i linguisti che si oppongono alla loro scomparsa contrapporsi agli studiosi che non la ritengono un problema. Per i primi il linguicidio dovrebbe essere prevenuto e impedito perché sulle lingue i ricercatori tracciano le capacità e i limiti della mente; perché le lingue tesaurizzano conoscenze di culture e sistemi naturali; perché tutte le lingue, nessuna esclusa, sono indispensabili elementi di conoscenza per capire la storia dell’uomo. Di contro, extralinguistiche, e perciò significative ed esplicite, sono le motivazioni dei linguisti favorevoli all’estinzione. Essi ritengono che questa debba essere incoraggiata, “per evitare costi economici di traduzione; perché una società potrebbe risparmiare molto denaro progettando e pubblicizzando un prodotto in una sola lingua, e con un solo allegato illustrativo; perché tutte le lingue dovrebbero lasciare il passo a una singola lingua globale, creando così la massima efficienza economica evitando addirittura tutti i costi associati alle differenze linguistiche”. È evidente che queste motivazioni di tenore economico e commerciale, espresse con schietta sincerità da parte degli estinzionisti, sfatano e sbugiardano tutte quegli altri argomenti che caldeggiano l’adozione della lingua unica internazionale (l’inglese) giustificandola come una doverosa opera di giustizia, di eguaglianza, di democrazia, di solidarietà, di fratellanza tra popoli e nazioni, mondo unito e senza confini. Declamazioni nobili che nascondono l’intenzione vera, quella ammessa dagli estinzionisti: unificare in conformità agli interessi del mercato unico: interessi che vanno ad aggiungersi ai fattori di estinzione delle lingue, gli stessi in definitiva che minano la sovranità e la democrazia dei popoli.
Come la perdita della sovranità popolare e nazionale non avviene dalla sera alla mattina, così anche la lingua di un popolo non si estingue nel giro di pochi giorni o di un decennio. Oggi è possibile, nel corso di tre o quattro generazioni, completare un progetto di estinzione linguistica. Rispetto al passato, in cui sia la modifica che la scomparsa di una lingua richiedeva diacronie plurisecolari, oggi, per via delle potenza dei mezzi comunicativi, di pressioni economiche e militari, di ricatti energetici, di trattati internazionali e attività diplomatiche monolingue, di migrazioni organizzate di masse, il processo glottocida può essere artificialmente accelerato. Oggi si può intervenire sui fattori determinanti non diversamente da come si interviene per modificare geneticamente organismi animali e vegetali; non diversamente da come si influenzano e si condizionano le abitudini e i comportamenti di milioni di individui su tutto il pianeta. Oggi si può. Così come speditamente si manipola – occorre provarlo? – la “massa consumante”, altrettanto agevole è l’adulterazione linguistica continuativa nella massa parlante. Progettare l’insignificanza e l’irrilevanza politica e culturale di un idioma non è un problema. Chi dispone delle scuole, delle università, delle televisioni, del cinema, dell’organizzazione della ricerca, può permettersi di aggredire, quando che sia, la lingua dei vinti, intervenendo su processi che erano ritenuti, e in passato lo erano, non manipolabili.
Le numerose analisi e le approfondite ricerche della comunità scientifica sulle cause, sulle modalità, sulle tecniche e sui segnali di scomparsa delle lingue, sono meritevoli di essere interamente citate, ma lo spazio di un breve articolo non consente di esaurire la discussione su questo tema che richiederebbe ulteriori e più estese riflessioni, e sul quale, pertanto, ci proponiamo di intervenire anche in futuro.
Ottimo articolo. Complimenti.
Va spiegato a quella zucca dura di Chiesa.
Le AVO, prima di essere AVO, sono la patria di un popolo che ha radici in una geografia determinata. L'economia fa parte dell'espressione culturale stessa e la lingua è sinonimo di cultura nei termini più profondamente antropologici.
«Taglia ad un uomo mani, braccia, gambe… sopravviverà. Toglili la lingua e muore».
Così si capisce perchè la destra restauratrice neoliberista ama la mobilità del fattore lavoro chiamata "flussi migratori".Solo un appunto: i linguisti non sanno cosa siano i "dialetti": esistono solo LINGUE.
«Una lingua è un dialetto con droni, bombe H e banche di investimento»
Mi pare evidente che l'Unione Europea si stia trasformando in un agevolatore del tantato linguicidio ai danni degli idiomi diversi dall'Inglese. Ma questo va di pari passo con il suo essere complice del capitalismo nord-americano nell'opera di omologazione economica delle ex (?) nazioni europee.
Mi chiedo se ciò stia avvenendo anche in altri continenti.
Inoltre, mi domando se la posizione di potenza degli U.S.A. durerà abbastanza da portare a compimento l'opera di distruzione delle diverse nazionalità nel vecchio continente o, magari, con il crescere di altre grandi potenze tale obiettivo possa andare in fumo.
Ad es., se la Russia dovesse continuare a rafforzarsi, perchè mai dovrebbe accettare un ruolo subordinato per la propria lingua? E, conseguentemente, un abitante dell'Italia del futuro potrebbe trovare nel Russo un'interessante alternativa all'Inglese.
Insomma, a mondo multipolare, secondo me, difficilmente corrisponderà una lingua mondiale.
Speriamo che la Russia si rafforzi. Per ora mi sembra abbastanza debole, almeno rispetto all'America. Quindi non riesce a esercitare un'influenza politica o culturale sui Paesi della UE; anzi, forse non ci prova neppure. Del resto noi Europei occidentali non cerchiamo affatto di farle capire che questa sua influenza potrebbe interessarci, e essere utile anche a lei.