Gabriele Pedullà: Territorio, identità nazionale e tradizione fanno parte di un progetto aperto
Critico letterario e scrittore, Gabriele Pedullà (n. 1972) insegna Letteratura italiana contemporanea all'Università "Roma tre". Redattore del "Caffè illustrato", scrive sulle pagine culturali del "Sole 24 Ore". Ha pubblicato saggi su Fenoglio e Machiavelli. Con Sergio Luzzatto ha ideato e curato l'Atlante della letteratura italiana (Einaudi 2010-2012). I brani che seguono sono tratti da un'inchiesta della rivista "Nuovi argomenti" che nel 2011 sottopose ad alcuni scrittori e critici un questionario sull'identità italiana. L'intero dossier è consultabile qui: http://www.doppiozero.com/dossier/disunita-italiana/nuovi-argomenti-la-dove-il-si-suona. [gm]
Per immaginare un’identità nazionale all’altezza del nostro tempo dobbiamo fare i conti con il Romanticismo. L’insistenza dei romantici sull’identità e sulla tradizione è stata soprattutto una risposta alla Rivoluzione francese e alla sua pretesa di poter rifare il mondo da capo a colpi di decreti e proclami: ricorrendo per i più testardi al potere di persuasione della ghigliottina. Le leggi, per i romantici, non sono invece una codificazione convenzionale ma il distillato spirito di un popolo: in qualche modo l’esplicitazione del suo carattere, il manifestarsi di una forza che ci trascende e rispetto alla quale, come individui, possiamo solo inchinarci. Ma questo vuol dire anche che non c’è spazio per i cambiamenti: se non come sanzione di una metamorfosi già avvenuta nel corpo della società.
Non è necessario tuttavia scambiare il giusto riconoscimento del peso della tradizione per una condanna all’immobilità, e non solo perché le stesse idee del Romanticismo hanno ispirato, accanto alla Restaurazione, anche quegli ideali nazionali che nel giro di qualche decennio hanno cambiato il volto dell’Europa. L’innegabile importanza dei fattori identitari si risolve dopo tutto soltanto in una grande lezione di realismo.
Rispetto ai romantici, così consapevoli della resistenza che la natura, i costumi, la lingua e persino le più assurde superstizioni oppongono al nostro tentativo di plasmare a nostro piacimento la società, i grandi filosofi politici che li hanno preceduti (da Machiavelli a Montesquieu) ci appaiono persino un poco ingenui nella loro fiducia che, una volta individuata la costituzione perfetta, sia sufficiente cambiare le leggi per ottenere all’istante il migliore dei governi possibili. Dopo il Romanticismo, nessun pensatore politico che si rispetti ha più potuto prescindere dal peso della tradizione (con l’eccezione di John Rawls), e proprio la consapevolezza della forza inerziale del passato ha ispirato una delle idee più fortunate degli ultimi due secoli: vale a dire la dialettica di Hegel e di Marx, come processo non lineare (e non istantaneo) di sviluppo e come lotta implacabile di azione e reazione in cui spesso gli attori si scambiano le posizioni senza saperlo.
Riconoscere il peso della tradizione, in tutte le sue diverse manifestazioni, non ci condanna insomma a una sterile ripetizione del passato, ma è una premessa indispensabile per affrancarcene: non per negare l’Italia di ieri, ma per scegliere – in una collezione di storie spesso contraddittorie tra loro – l’Italia che dovrà farci da modello. A queste condizioni il radicamento identitario non è altro, insomma, che l’orizzonte di possibilità del cambiamento e non, come vorrebbero taluni, l’imperativo a conformarci a un fantomatico carattere italiano già dato una volta per tutte. La formula con cui potrei definire questo particolare sentimento di appartenenza è forse quella di «identità potenziale». In ogni presente è inscritta non solo una costellazione di storie passate ma un gran numero di futuri ipotetici, con altrettante identità future. Ed è qui che esercitiamo la nostra libertà di scelta.
Oggi, l’unica certezza sulla nostra identità è che sta cambiando più rapidamente che in passato. Ma tra l’ingenua fiducia nella possibilità di azzerare il passato con un colpo di bacchetta magica (magari aggravata dalla retorica del «diventiamo tutti più colorati», «i frutti puri impazziscono», «meticcio è bello») e il sostanziale fatalismo dei romantici abbiamo un’alternativa. Toccherà a noi cittadini del XXI secolo immaginare una tradizione che comprenda anche le Italie che ancora non ci sono e che possono prendere forma soltanto a partire dall’Italia che è già stata: Italie diverse da quella di oggi e in conflitto tra loro, perché anch’esse frutto di conflitti, cesure e scelte spesso drammatiche. Una volta chiarito che il territorio, la tradizione e l’identità fanno parte di un progetto aperto non mi preoccupa utilizzare questi termini a proposito dell’Italia.
Per quel che può valere sono d'accordo.
Non è tanto importante criticare e magari fare a pezzi l'apprenti sorcier che mette la marmellata di lime, l'importante è avere a portata di mano (difeso e accudito con cura) qualcuno (meglio molti) che sappia fare il Bacalà alla vicentina come si deve.
Il solito gioco di sovrapporre alla "condensazione storica" il senso di appartenenza all' istituzione statale. Purtroppo la nazione è la forma politica che permette di giocare sullo scacchiere dello sviluppo ineguale tra nazioni, altrimenti detto mercato mondiale. Se l'aspirazione alla indipendenza nazionale fu la forma moderna in cui si espresse la prassi secolare, la sua realizzazione, lo stato-nazione, da lungo tempo ha cancellato (impossibilitata a svilupparla storicamente, portata a renderla folclore, ossia una differenziazione artificiosa nell'ambito di una comune prassi economica mondiale) la sua stessa premessa.
E quindi? Dobbiamo rassegnarci a questa cancellazione e subire fatalisticamente la comune prassi economica mondiale?
fatalista è la chimera di porre limiti politici, territoriali, giuridici, etici ad una potenza che nasce dai rapporti sociali di produzione. comprensibile invece piazzare questa merce al mercato dell' ideologia come progetto di liberazione
Bah. Lenin vide nel prevalere della libera circolazione dei capitali rispetto alla circolazione delle merci uno degli elementi dell'imperialismo come fase ultima del capitalismo. Però poi la circolazione dei capitali fu enormemente limitata.
Comunque, la "vera liberazione" può venire soltanto da ciò che sa "piazzarsi al mercato dell'ideologia come progetto di liberazione"; mentre, ovviamente, non tutto ciò che sa piazzarsi come merce al mercato dell'ideologia come progetto di liberazione porta alla liberazione (insomma, sapersi piazzare al mercato è condizione necessaria ma non sufficiente). Però una cosa è certa: tutto ciò che non è spendibile come merce al mercato dell'ideologia come progetto di liberazione è pippa mentale per deficienti.
Mangiato troppo problemi di digestione ?
"Lenin vide nel ..come fase ultima del capitalismo." Vero, è il titolo, ma ne dai una lettura elementare: una volta abbattuto per ipotesi il potere dei monopoli sarebbe ricomparso il capitalismo della società civile borghese. Altro che limite, niente di essenziale cambia! A te interessa potenziare il Capitale nazionale, anche questa è tradizione, i miei interessi immediati non sono affatto i tuoi.
Così dovrebbe essere chiarito brevemente il senso dei due commenti sopra, ma sentiamo l' internazionalista pratico Lenin:
"L’imperialismo puro, senza il fondamento del capitalismo,non è mai esistito, non esiste in nessun luogo e non potrà mai esistere. Si è generalizzato in modo errato tutto ciò che è stato detto sui consorzi, i cartelli, i trust, il capitalismo finanziario, quando si è voluto presentare quest’ultimo come se esso non poggiasse affatto sulle basi del vecchio capitalismo. Ciò è falso. Ed è falso specialmente per l’epoca della guerra imperialista e per l’epoca che segue la guerra imperialistica … E oggi non soltanto in Russia e non soltanto in Germania, ma anche nei paesi vincitori, incomincia appunto un’immensa distruzione del capitalismo moderno, che elimina ovunque quest’apparato artificioso e risuscita il vecchio capitalismo … Se ci trovassimo di fronte a un imperialismo integrale il quale avesse trasformato da cima a fondo il capitalismo, il nostro compito sarebbe centomila volte più facile. Avremmo un sistema nel quale tutto sarebbe sottomesso al solo capitale finanziario. Non ci resterebbe allora che sopprimere la cima e rimettere il resto nelle mani del proletariato. Sarebbe cosa infinitamente piacevole, ma che non esiste nella realtà. In realtà lo sviluppo è tale che si deve agire in tutt’altro modo. L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo. Quando crolla, ci si
trova di fronte alla cima distrutta a alla base messa a nudo … C’è il vecchio capitalismo, che in diversi campi si è sviluppato fino all’imperialismo".