Controreplica ai linguisti della domenica intorno alla questione della lingua
In osservanza al principio saussuriano per cui «il linguaggio è una cosa troppo importante perché se ne occupino solo i linguisti», che avevo già richiamato nell’articolo Priapo, la mimetica, i cosmetici e le pecore: ovvero, la questione della lingua (https://www.appelloalpopolo.it/?p=10455), rispondo alla replica di Luciano Del Vecchio (https://www.appelloalpopolo.it/?p=10554), il quale, non afferrando la sostanza delle mie argomentazioni e non assumendo nemmeno uno dei dati emersi dalle analisi scientifiche e dalle ipotesi di studio fin qui elaborate, persevera nel mito inconsistente dell’«abbandono pianificato della lingua». E rispondo partendo da un insieme di osservazioni sul non-metodo di Del Vecchio che, al di là di ogni personalismo, è esemplare dell’infondatezza scientifica, tanto teorica quanto analitica, della posizione sostenuta da lui e da non pochi altri all’interno dell’ARS.
0. L’ignoranza del metodo o il metodo dell’ignoranza?
§ 0.1. Le fonti. Un primo punto che lascia interdetti non solo coloro che hanno eletto il linguaggio e le lingue come campo di applicazione delle proprie ricerche scientifiche ma anche chi sia semplicemente provvisto di sano buon senso, è dato dal frequente rinvio, come nel caso della definizione degli idiomi italici o della sintassi, a Wikipedia. Ora, Wikipedia è senz’altro uno strumento utile ma non costituisce affatto una fonte di valore scientifico, il che la rende di fatto inaffidabile in sede di analisi. Sarebbe molto più serio, oltre che corretto, specie in risposta al livello delle considerazioni che ho svolto nell’articolo precedente, rinviare a opere o sistemazioni il cui valore scientifico è universalmente riconosciuto, anche al netto delle distinzioni storiche e di scuola. Non è certo su Wikipedia, le cui voci linguistiche sono peraltro assai discutibili, che il lettore inesperto possa farsi un’idea più matura di cosa siano le parlate italiche o la sintassi piuttosto che qualunque altro aspetto linguistico studiato dalle scienze del linguaggio.
§ 0.2. Le non-citazioni. Del Vecchio, poi, ricorre spesso a formule ipnotiche quali «L’estinzione di una lingua procede attraverso operazioni previste e studiate dalla linguistica» oppure «Gli studiosi hanno ben presenti questi fenomeni come indotti e provocati da un disegno di predominio politico, che ricorre solitamente alla sostituzione per logoramento». Ipnotiche perché non suffragate da alcuna analisi sistematica di alcun caso concreto capace di fornirci dati e tendenze, contrariamente a quanto avevo cercato di fare offrendo la maggior ricchezza possibile di dati sui diversi punti toccati dal dibattito sulla questione della lingua. Del Vecchio scrive come fosse un linguista consumato che la sa lunga ma che, da buon accademico di lungo corso, non ha voglia di condividere con altri i segreti della sua arte e si limita pertanto a citazioni vaghissime guardandosi bene dal circostanziarle e meno che mai dal provarle, cosa che agli studenti più smaliziati e, anche qui, di buon senso suona come la più classica delle divagazioni intorno a un tema di cui, in realtà, il barone tuttologo sa poco o nulla.
Per farla breve, non basta citare passi di Hagège o chi per lui senza misurarsi con la prassi dell’analisi linguistica giacché, come insegna Antoine Culioli e come sanno bene tutti i linguisti degni di questo nome, il linguaggio, in quanto oggetto essenziale della linguistica, non può che essere studiato attraverso la diversità delle lingue storico-naturali: perciò, non può esserci teoria del linguaggio senza una teoria di analisi delle lingue e viceversa.
§ 0.3. L’arte di insegnare un mestiere senza saperne niente. Il fondo, però, Del Vecchio lo tocca quando cerca assai maldestramente di confutare i dati che, in risposta alla nullità degli allarmi sull’egemonia dell’inglese e sulla sua progressiva sostituzione alla lingua italiana pianificata dall’alto, avevo presentato circa la stratificazione del lessico italiano dal punto diacronico e dell’uso. Scrive infatti Del Vecchio: «Per comprendere il fenomeno non ci sono d’aiuto le pur straordinarie e autorevoli lezioni e ricerche di Saussure o De Mauro sull’uso, la modifica, la stratificazione diacronica e sincronica del lessico nell’idioma dei vinti, ma piuttosto le realistiche dottrine sulla guerra e sulla politica di Machiavelli, o von Clausewitz, o Sun Tzu». E ancora: «le percentuali sulla frequenza di esotismi accolti nella lingua italiana, rilevate da ricerche condotte circa dieci anni or sono, non sono indicative. Il fenomeno in corso s’è talmente accelerato da renderle rapidamente poco importanti e poco significative per una descrizione scientifica». E infine: «Lunghi elenchi di percentuali di frequenza d’uso di lessici endogeni ed esogeni, sicuramente necessari per una maggior conoscenza dell’italiano, diventano dati trascurabili e insignificanti se, oltre che frutto di ricerche datate, vanno considerate nella prospettiva che la lingua italiana vada ad allungare l’elenco di quelle morte. I risultati su quante parole appartengono al vocabolario fondamentale, a quello d’alto uso, a quello comune, a quello tecnicospecialistico, a quello dialettale, a quello esotico, a quello usato in occorrenze ufficiali o nella vita quotidiana, sono di estrema utilità per migliorare l’uso di una lingua viva».
Che dire? Fa sempre un certo effetto imparare il mestiere da chi non ne sa niente o crede di saperne per il semplice fatto di aver letto un paio di libri su un argomento particolare mentre ignora la sterminata bibliografia che ormai si è consolidata tanto su quella disciplina in generale quanto su quell’argomento particolare e dalla quale basterebbe comunque estrarre quella decina di opere che è fondamentale conoscere per poter quanto meno comprendere un serio confronto scientifico. Ricevere continuamente lezioni da chi non ha mai praticato l’analisi linguistica e non sappia quanto sia complicato cercare di classificare i fatti linguistici e ancor più spiegarli alla comunità scientifica e al resto del pubblico: è questo l’amaro destino di chi si occupa di un oggetto come il linguaggio, che è alle radici del fondamento ontologico dell’essere umano e di cui ogni persona si sente dunque massimamente esperta, a differenza di quanto non avvenga per un matematico, un fisico, un astronomo, un biologo, un geologo o chi per loro, laddove l’alterità del loro rispettivo oggetto di studio garantisce una sorta di immunità dalle stravaganze dei luoghi comuni. Certo, esistono le bizzarrie degli stessi scienziati, contro le quali bisogna spesso fare il diavolo a quattro, ma l’assenza o la scarsità di ridicolaggini messe in circolo dai non esperti e amplificate dai mezzi di comunicazione di massa è già un grosso vantaggio.
Constatato ciò, armiamoci di santa pazienza e cerchiamo di spiegare perché Del Vecchio sbaglia clamorosamente. L’errore, infatti, è al contempo metodologico ed etico: Del Vecchio, cioè, dice che i dati delle ricerche che ho citato, di cui ignorava l’esistenza prima che le citassi e che chiaramente non si è premurato di leggere, per quanto preziosi, sono ormai datati perché risalgono a dieci anni fa e pertanto non sarebbero più indicativi, divenendo dunque trascurabili e addirittura insignificanti, e che i criteri di tali rilevazioni, di cui non sa niente dal momento che non le conosce, andrebbero per giunta ricalcolati con nuove indagini, che lui d’altra parte non saprebbe nemmeno come abbozzare giacché, a giudicare dalle sue non-argomentazioni, non sembra averne mai condotta una. Mi pare che il livello di questo non-ragionamento si qualifichi da solo, in ogni caso, è bene chiarire alcuni aspetti.
(a) I dati elicitati sono attendibilissimi perché, come avevo già ricordato nell’articolo precedente, le lingue, e con loro i mutamenti linguistici, non mutano, né spontaneamente e tanto meno per imposizione, nel breve volgere di un decennio ma sono sempre spontaneamente determinate, in quanto sistemi storico-sociali aperti e comunicanti tra loro, dalle masse parlanti che le ereditano e le rielaborano nel corso dei secoli, trascendendo la vita e i limiti dei singoli individui.
(b) Le ricerche nel campo della statistica linguistica applicate alle analisi lessicologiche si sono moltiplicate in misura esponenziale negli ultimi vent’anni, perciò basterebbe mezza giornata in una biblioteca degna di questo nome per redigere una bibliografia aggiornata fino al 2013 e dare una spulciata agli articoli più recenti.
(c) Quest’ultima operazione, però, anche alla luce del punto (a), non sposterebbe di molto le cose poiché, a differenza di quanto Del Vecchio non ha capito dal quadro che avevo cercato di tracciare, esiste un nocciolo duro del lessico italiano ma non è affatto incontaminato dalle fonti esogene e questo nocciolo duro consiste nel dato secondo il quale la metà del vocabolario fondamentale, cioè di delle parole che costituiscono mediamente il 90% dei testi e dei discorsi che leggiamo o scriviamo e ascoltiamo o diciamo quotidianamente, risale al Duecento mentre un quarto, invece, al Trecento; i tre quarti del vocabolario di alto uso, vale a dire di quelle parole che coprono mediamente il 6-8% dei testi e dei discorsi che leggiamo o scriviamo e ascoltiamo o diciamo quotidianamente, si sono affermate tra il Duecento e il Cinquecento; quasi la metà del vocabolario di alta disponibilità, ovvero di quelle parole talmente importanti da non essere nemmeno scritte o dette eppure ben presenti nell’attività linguistica endofasica, ha origine tra il Duecento e il Trecento. Per cui l’italiano, al pari di tutte le altre lingue, è al tempo stesso conservativo ma aperto all’innovazione, tradizionale ma sempre in divenire.
(d) Questi «Lunghi elenchi di percentuali di frequenza d’uso di lessici endogeni ed esogeni» – a proposito: il lessico è lessico, endogene ed esogene sono semmai le fonti della sua formazione – non sono assolutamente «necessari per una maggior conoscenza dell’italiano», tanto meno «sono di estrema utilità per migliorare l’uso di una lingua viva». E poi sì, sono lunghi e forse anche un po’ noiosi ma senza non si dà riflessione scientifica che sia davvero tale, proprio come un fisico piuttosto che un chimico o un epidemiologo non potrebbero dire nulla senza l’elicitazione di una mole notevole di dati ricavati dall’attività di laboratorio. Tuttavia, le masse parlanti parlano a prescindere dalla conoscenza delle marche d’uso delle parole e, anche fra quanti spiccano per la propria capacità di esprimersi, nel parlato come nello scritto, è raro trovare qualcuno che conosca questi dati giacché si tratta di elementi di un sapere scientifico che, come per qualsiasi altra disciplina, è noto quasi esclusivamente agli addetti ai lavori. In più, è sempre vivo il principio alla base della VII tesi delle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica messe a punto nel 1975 dal GISCEL, il «Gruppo di Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica» (http://www.giscel.it/?q=content/dieci-tesi-leducazione-linguistica-democratica), per il quale «pensare che lo studio riflesso di una regola grammaticale ne agevoli il rispetto effettivo è, più o meno, come pensare che chi meglio conosce l’anatomia delle gambe corre più svelto, chi sa meglio l’ottica vede più lontano».
(e) L’apice, tuttavia, è raggiunto dall’idea secondo cui, per comprendere la campagna d’imperialismo linguistico in atto, le ricerche lessicologiche alle quali avevo fatto riferimento non sarebbero di alcun aiuto dal momento che, essendo tale campagna una parte pur centrale di un piano di dominio imperiale a tutti gli effetti di ordine militare, andrebbe studiata attingendo alle conoscenze, alle tecniche e agli strumenti del pensiero strategico militare. Come a dire che, poiché la corsa agli armamenti nucleari avviata a partire dalla seconda guerra mondiale rientrava nelle logiche del pensiero strategico militare di quella che sarebbe poi diventata la guerra fredda, si sarebbe dovuto assumere quest’ultimo quale stella polare del processo di creazione della bomba atomica e di tutte le altre armi di distruzione di massa che sfruttano l’energia sprigionata dal nucleo, con buona pace di Einstein, Fermi e di tutti gli altri fisici che hanno studiato o condotto esperimenti in questo campo. È chiaro che, oltre a essere un’idea piuttosto strampalata, si tratta di un corollario dell’arte di insegnare un mestiere senza saperne niente. Il meccanismo interno su cui si fonda è grosso modo questo: beh, io di tutti questi dati, delle ricerche dai quali sono risultati e di questi testi fondamentali del pensiero linguistico non ne so niente però, francamente, adesso non ho né il tempo né la voglia di studiarmeli per bene perciò cerco di spremere al massimo quelle due o tre cose che ho imparato da quei due o tre libri che letto in proposito e comunque posso sempre dire che, trattandosi di una tendenza che non riguarda solo gli aspetti linguistici, questi ultimi rispondono alle leggi essenziali di questa tendenza non alle leggi del sistema linguistico che – aggiungo io – i linguisti cercano con fatica di ricostruire. È evidente che un ragionamento del genere si commenta da sé.
1. L’arbitrarietà radicale del segno linguistico
Tuttavia, il punto centrale della replica di Del Vecchio, come abbiamo detto all’inizio, ruota sempre attorno alla tesi per cui «Fino ad oggi […] si è creduto che un gruppo dirigente non potesse modificare una lingua o imporla artificialmente dall’alto, ma nel breve volgere di pochi decenni stiamo assistendo esattamente a questo tipo di operazione autoritaria». Come prove del disegno d’imposizione dell’inglese quale lingua unica dell’intero pianeta, Del Vecchio adduce: a) il progetto BASIC English elaborato da Ogden nel 1934; b) il documento The diffusion of English culture outside England. A problem of post-war reconstruction, stilato da Routh nel 1941; c) l’articolo In Praise of Cultural Imperialism scritto da Rothkopf e pubblicato da «Foreign Policy» nel 1997; d) il modello dell’Anglosfera concepito da Sullivan; e) la concezione militare delle politiche linguistiche del Generale von Lohausen.
Ora, una volta assunto il principio saussuriano dell’arbitrarietà radicale del segno linguistico, in virtù del quale «il segno non conosce altra legge che quella della tradizione, e proprio perché si fonda sulla tradizione può essere arbitrario» [CLG: 92], non possiamo non ricavare, come avevo già scritto, che «il segno linguistico sfugge alla nostra volontà» [CLG: 89] poiché non solo «un individuo sarebbe incapace, se lo volesse, di modificare in qualche cosa la scelta che è stata fatta, ma la massa stessa non può esercitare la sua sovranità neppure su una sola parola: essa è legata alla lingua come è» [CLG: 89]. Bisogna capire che non si tratta di uno di quei cavilli teorici tanto cari agli accademici, rispetto ai quali Saussure era piuttosto lontano, ma di un elemento fondante che segna uno spartiacque nella storia degli studi linguistici. A fondamento del sistema linguistico, cioè, sta il carattere radicalmente arbitrario del segno, in base al quale, all’indomani di un’ipotetica vittoria schiacciante dell’inglese sull’intero pianeta, «Passato il primo momento, la lingua entrerà molto probabilmente nella sua vita semiologica: essa si trasmetterà con leggi che niente hanno in comune con quelle della creazione riflessa e non si potrà più tornare indietro. L’uomo che pretendesse di costruire una lingua immutabile che la posterità dovrebbe accettare tale e quale, rassomiglierebbe alla gallina che cova un uovo d’anatra: la lingua da lui creata sarebbe trasportata, volere o no, dalla corrente che trascina tutte le lingue» [CLG: 95].
Perciò, se ad Hagège consigliamo un ripasso di Saussure, alle prove addotte da Del Vecchio rispondiamo che la madre dei cretini è sempre in cinta: il fatto che ci siano degli invasati, vuoi perché ignoranti vuoi perché frustrati, che pianificano programmi di dominazione linguistica non significa che questi abbiano qualche fondamento e quindi reali possibilità di “vittoria”. La loro realizzazione sarebbe una contraddizione in termini della ragione profonda delle lingue stesse, anche dell’unica lingua, che, per quanto imposta, cesserebbe di essere tale.
2. Incongruenze sulla lingua in ordine sparso
§ 2.1. Ci avviamo alla conclusione segnalando alcune gravi incongruenze sulla lingua rilevabili nella replica di Del Vecchio. La prima riguarda il caso del latino, in merito al quale, infatti, Del Vecchio scrive: «A dimostrazione che l’uso della lingua degli stati dominanti provoca la scomparsa delle lingue dei dominati si è soliti portare a esempio la lingua latina come lingua imperiale». Ebbene, a dare il colpo di grazia ai sostenitori della presunta egemonia dell’inglese è sufficiente la cosiddetta teoria del sostrato elaborata dagli studiosi di linguistica storica già nella seconda metà dell’Ottocento grazie soprattutto ai contributi di Graziadio Isaia Ascoli, il quale mise in evidenza l’influenza esercitata dalla lingua di un popolo sconfitto o dominato sulla lingua parlata dai vincitori e importata in seguito alla loro dominazione. Ed è il caso proprio delle lingue romanze derivate dal latino sulla base dei rispettivi sostrati linguistici particolari. Per cui, pensare che l’inglese possa dominare unico e omologato sull’intero pianeta senza venire a sua volta modificato e deformato nel corso dei secoli non è solo scientificamente infondato ma anche molto ingenuo.
§ 2.2. La seconda incongruenza, pure questa grossolana, risiede nell’idea che l’imperialismo linguistico dell’inglese determini «la rovinosa e ineluttabile declassazione della lingua a dialetto». Niente di più scorretto perché tra lingua e dialetto non esiste alcun rapporto gerarchico: i dialetti, al pari delle lingue di minoranza e di altri casi ancora, sono a tutti gli effetti delle lingue dotate di un proprio sistema linguistico. Ciò che li distingue dalle lingue propriamente dette sono semmai ragioni paradossalmente non strettamente linguistiche, come il prestigio culturale di queste ultime, il fatto di essere riconosciute quali lingue ufficiali di una nazione, il carattere transnazionale del loro uso, ecc.
§ 2.3. Infine, Del Vecchio scrive: «Fonologia e grammatica, le parti più strutturate e più resistenti nel tempo all’influenza della lingua straniera, nella maggior parte dei casi, si conservano più del lessico. Ma quando questo nocciolo duro viene colpito, è la grammatica a scomparire per prima: si perdono le opposizioni essenziali che costituiscono gli aspetti più specifici della fonologia. In campo morfologico si riducono fortemente le variazioni tra una forma e un’altra. I glottocolonizzati non sempre sono consapevoli del ritmo vertiginoso al quale la lingua madre si disgrega». Di fronte a tante perle in così poche righe, confesso di sentirmi disarmato ma, si sa, il parlare per sentenze fa di questi effetti. Mi resta solo la forza di chiedere a Del Vecchio su quali basi snocciola queste granitiche certezze, che ovviamente sostiene senza alcun dato, e, soprattutto, se può citarne le fonti.
3. Conclusione
Mi sia concesso di chiudere con un invito alla responsabilità: la libertà di espressione è sacra, tanto più su un tema cruciale come la questione della lingua. La libertà, però, va onorata e l’unica maniera per onorarla è la responsabilità. Tra la libertà di esprimirsi responsabilmente, vale a dire dopo essersi preparati seriamente e aver sottoposto a dura autocritica le proprie argomentazioni, e il parlare approssimativo, tanto più apocalittico quanto più infondato, ci passa in mezzo un oceano. Cerchiamo di attraversarlo. Nella giusta direzione possibilmente.
D.D.R.
Continuo a non capire il senso della polemica.
Da un lato si sottolinea che, considerata la massa parlante, la lingua non può subire significative modificazioni per decisione autoritaria di chicchesia.
Credo che questa osservazione di Domenico sia sotto gli occhi di tutti. Se considero i luoghi che frequento prendo atto: 1) che le persone che vengono nel mio studio, cittadini di una provincia italiana, parlano un po'italiano (senza inglese) un po' dialetto; 2) che le persone che frequentano il mio bar parlano un bel po' il dialetto e un po' l'Italiano; 3) che in Tribunale e in genere nei Tribunali si parla l'Italiano senza l'aggiunta di termini inglesi; 4) che amici e parenti, laureati almeno 15-20 anni fa, parlano l'italiano senza l'uso di termini inglesi.
Ciò che Luciano osserva e ciò che può forse costituire oggetto di un piano strategico della potenza dominante non è la lingua parlata dal popolo (figuratevi cosa può interessare a uno stratega statunitense che lingua parli il pubblico), bensì la lingua delle elite o lingua dei colti e semicolti. Vogliamo usare il termine linguaggio? Bene allora diciamo che l'eventuale problema è il linguaggio della classe dirigente nazionale eprovinciale, colta e semicolta.
Personalmente posso osservare alcune cose.
Nel mio dipartimento (di economia e impresa) la lingua inglese prima era una delle lingue straniere studiate. Ora è l'unica: la lingua straniera obbligatoria. In secondo luogo, quest'anno non trovavo due ore per far svolgere i gruppi di studio. Oltre le lezioni di inglese, gli studenti del primo anno avevano 6 ore di non so che di inglese e 6 di esercitazione di inglese! Fino ad ora l'esame più difficile era il mio (diritto privato) ora è l'esame di inglese. In sede di discussione della tesi di laurea, gli studenti (esclusi i miei) utilizzano moltissimi termini inglesi.
L'uso delle parole o delle frasi inglesi è frequentissimo nella lingua di parecchi miei colleghi (economisti, aziendalisti, matematici, giuristi).
I figli di tutti coloro che hanno svolto assieme a me gli studi post-universitari in diritto privato, e che ora insegnano in varie università italiane, seguono tutti "lezioni di inglese" molti dall'età di un anno.
Insomma, per la lingua il problema non si pone. Ma la lingua parlata dai pastori o da contadini di montagna non ha mai interessato la potenza dominante, né oggi può interessare il linguaggio del "pubblico". Il linguaggio della elite e dei ceti medi semicolti, ossia di coloro che oltre ad essere pubblico talvolta parlano al pubblico, può essere utile conformarlo. E a me sembra che in questo limitato ambito sociale la contaminazione sia indiscutibile.
Quindi non è un problema di lingua parlata (a parte che non si può modificare, come ha dimostrato Domenico; ma chi è quell'imbecille che vuole tentare di cambiarla? che gli frega del popolo-pubblico?) ma di valori, modi di pensare, modi di vedere, prospettive che vengono assorbiti dalle elite nazionali e provinciali attraverso la diffusione della lingua della nazione dominante.
Mi trovo d'accrodo con D'Andrea , personalmente come semi-semi-colto non sono in grado di seguire un dibattito a base di Chomsky e Saussurre e me ne dispiaccio voglio comunque tentare di aggiungere qualcosina terra-terra ( tanto sto a casa in ferie…).
Non credo neanch'io che esista un complotto per imporre una lingua ma sicuramente esiste un disegno per imporre una serie di valori guida e questi valori guida camminano essenzialmente sulle gambe della lingua inglese.
E bisogna dire che essendo la cultura anglosassone la cultura vincente sulla piazza oggi esprimersi con una infarcitura di termini anglofoni è anche il segno distintivo di una appartenenza, come in altri tempi poteva esserlo l'eskimo o il monclear, e non si "indossa" un inglese qualsiasi , non l'inglese di Milton e di Shakespeare o Keats, ma l'inglese della City e di Wall Street , niente a che fare con il meraviglioso inglese di un Wordsworth
Ma visto che non siamo in un sito di linguistica possiamo porci un problema più vicino al tema della sovranità , quello della "difesa" della lingua , e vi propongo di riflettere e rispondere su alcune "quistioni" :
1) la lingua italiana va difesa dall'inglese ? Oppure va difesa solo dal liberismo che "viaggia" insieme allo schifosissimo "inglese da powerpoint "?
2) La scuola italiana è tesa alla valorizzazione della nostra lingua ?
3) qualsiasi uso di una lingua straniera è deteriore ? Oppure in certi campi specialistici è giusto assumere una lingua-guida come prevalente , come per esempio l'inglese nell'informatica e l'italiano nella terminologia musicale ?
4) qual'è il confine tra amore per la propria lingua e lo sciovinismo linguistico ?
ciao ciao
Anch'io, essendo piuttosto ignorante, non provo neppure a inoltrarmi in sottili disquisizioni linguistiche. Pero' sono abbastanza d'accordo con D'Andrea e con Ottaviani. Che ci sia un complotto o no, perche' e' ormai obbligatorio studiare l'Inglese, mentre le altre lingue sono quasi sempre ignorate? L'"obbligatorieta" dovrebbe essere sempre ridotta al minimo. Poi, ormai per la gente comune e' quasi impossibile seguire i discorsi su temi politici o economici perche' pieni di termini inglesi anche tecnici, che al corso di inglese a livello popolare da me seguito anni fa non venivano certo insegnati.
Caro Stefano,
il senso della polemica è abbastanza chiaro: non io ma l'insieme delle conoscenze fin qui acquisite sulla natura del sistema linguistico e sulla questione della lingua, che rappresentano due dei pochissimi temi sui quali la gran parte dei linguisti delle diverse scuole grosso modo concordano, dimostrano che qualsiasi piano di imperialismo linguistito escogitato a tavolino e imposto artificialmente dall'alto è di fatto destinato a sfracellarsi contro il carattere radicalmente arbitrario del segno linguistico, che rende la lingua al tempo stesso immutabile e mutabile e sempre a prescindere dalla volontà dei singoli, per quanto coalizzati in raffinate organizzazioni politico-intellettuali.
Per cui, che esistano progetti di imperialismo linguistico all'interno di piani più generali di dominazione militare è possibile perché gli imbecilli si riproducono a un tasso di fertilità molto maggiore degli intelligenti ma che questi progetti si stiano di fatto concretizzando e siano sul punto di trionfare è semplicemente demenziale. Il loro destino comune è il fallimento. Sfido chiunque sostenga il contrario a riparlarne fra quaranta o cinquant'anni, sempre ammesso che ci saremo ancora.
Pensare di poter modificare la lingua dall'alto o sostituirla ex abrupto è come pensare di poter modificare a tavolino la natura dell'essere umano in tutta la sua complessità, di cui la lingua peraltro è la cifra più caratterizzante. Si potrebbe perfino pensare di modificare le orbite dei pianeti del Sistema solare attraverso un complicatissimo modello matematico ma per la modifica artificiale della lingua non si potrebbe elaborare neppure quello giacché la lingua non è riducibile al solo dato biologico, anzi lo è in minima parte. La lingua è un sistema storico-sociale in cui si intrecciano variabili assai complesse che affondano le loro radici nell'eredità della tradizione, la quale è data così com'è e, per definizione, non può essere modificata. Per poter modificare una lingua bisognerebbe mettere in conto di intervenire sulle due coordinate fondamentali sulle quali si colloca: tempo e massa parlante. Quando Del Vecchio, Fusaro & co. mi dimostreranno come sia possibile modificare il tempo e la massa parlante nella sua totalità allora prenderò in considerazione la loro tesi. Fino ad allora, mi riservo di derubricarla tra le sciocchezze.
Spero di essere stato ancora più chiaro.
A presto,
Domenico
Domenico ma ciò che hai scritto lo avevamo capito e credo sia inoppugnabile.
Soltanto che mi sembrava semplicemente da correggere la prospettiva di Luciano e da ammettere che l'uso mimetico, cosmetico e ingannatore della lingua della nazione dominante c'è e si va rafforzando tra le elite e le future elite e ciò comporta l'acquisizione di visioni, prospettive, criteri, punti di vista precisi dai parte dei ceti (sub)dominanti italiani.
Mi sembra che tu ti ostini a trascurare e ignorare o forse addirittura negare (o almeno a rimuovere) questo problema che è il cuore degli articoli di Luciano e ti soffermi su un profilo che tutto sommato era secondario: l'errore per cui ci sarebbe un attacco alla lingua (l'attacco è sempre alle menti!), quando l'attacco alla lingua se ci fosse sarebbe destinato a fallire per gli argomenti che hai addotto.
Insomma, tu non hai voluto minimamente esprimerti su quella parte di verità contenuta nell'articolo di Luciano e lui ha negato le tue considerazioni nonostante l'oggettiva forza degli argomenti da te addotti.
Caro Stefano,
sugli aspetti non squisitamente linguistici della questione mi sono espreso molto chiaramente quando, nell'articolo precedente, ho descritto, con analisi e dati, il provincialismo e l'arretratezza culturale della classe dirigente italiana nel suo insieme, del ceto intellettuale e delle classi medio-elevate. Se vai a rileggere il paragrafo che ho dedicato a questo punto, puoi ricavare con precisione quali siano i termini della questione.
A presto
Domenico
Rispondo ad Adrian Ottaviani.
Alle questioni che lei pone, le quali, pur investendo la cultura nella sua globalità, necessitano comunque di una riflessione linguistica, ho risposto più o meno direttamente e nella maniera più dettagliata possibile nel mio penultimo articolo: https://www.appelloalpopolo.it/?p=10455. Perciò evito di ripetermi. Aggiungo solo che dalla sua lettura dovrebbe anche intuire per quali ragioni alcune delle sue domande, in particolare la prima e la terza, sono mal formulate.
A presto
D.D.R.
Rispondo a Durga.
Non si tratta di sottili disquisizioni linguistiche, tutt'altro. Primo perché i dibattiti scientifici sono animati da controparti scientificamente qualificate altrimenti non sono tali e non mi pare questo il caso dal momento che, fra coloro fin qui intervenuti, mi pare di essere l'unico linguista. Secondo perché le questioni in gioco, come quella che ho ribadito nella mia risposta al commento di Stefano D'Andrea, sono colossali non sottili. Riguardano il fondamento del sistema linguistico non la lana caprina. Ad ogni modo, potrà farsi un'idea di cosa intendo dando un'occhiata al mio penultimo articolo: https://www.appelloalpopolo.it/?p=10455.
A presto
D.D.R.
Qiuindi Lei forse potra' gentilmente spiegarmi perche' in alcune facolta' del Politecnico di Torino, e ora mi sembra anche di Milano, le tesi vanno date in inglese. Grazie.
Caro Durga,
non so spiegarglielo perché non conosco le motivazioni addotte dai laureandi e dai loro relatori.
Tuttavia, possono esserci delle buone ragioni: per esempio, il fatto che il laureando abbia lavorato alla redazione della tesi durante un soggiorno all’estero, cosa non infrequente in realtà come quelle dei Politecnici, lo mette nelle condizioni di omaggiare il paese nel quale è stato ospitato redigendo la tesi nella lingua ufficiale di quel paese o, nel caso delle facoltà che rientrano nel dominio delle scienze esatte, naturali o che dir si voglia, in inglese. In altri casi, come in quello delle facoltà di lingue e letterature straniere, trovo personalmente scandaloso che le tesi, anche di commento a opere straniere, siano redatte in italiano o soltanto in italiano: mi pare una contraddizione in termini.
Insomma, la cosa non mi scandalizza, a patto che sia scientificamente fondata, che sia cioè motivata da ragioni metodologiche e teoriche funzionali alla tesi. Al contrario, redigere la propria tesi in un’altra lingua per semplice vezzo intellettualistico m’infastidisce e, nei panni del relatore, sconsiglierei vivamente un simile azzardo, frutto di provincialismo più che di interesse culturale.
A presto
D.D.R.
Ho l'impressione che Domenico sottovaluti, o non voglia valutare, il ruolo prepotente dei media nell'operare trasformazioni di linguaggio e di pensiero (intimamente collegati tra loro, mi pare) molto più rapidamente ed efficacemente di quanto non succedeva in tempi più remoti e meno tecnologici.
Caro Poggi,
ho l’impressione che lei non comprenda il punto di fondo della questione, quello dell’arbitrarietà radicale del segno linguistico.
Anche la più sofisticata loggia massonica intenta all’elaborazione di un piano di dominio anglosassone sull’intero pianeta e alla sua realizzazione attraverso la più implacabile macchina mediatica mai vista prima è destinata a un clamoroso fallimento per via del carattere intrinseco del sistema linguistico che si esplica in tutte le lingue parlate e scritte. Il ruolo prepotente dei media nell’operare trasformazioni di linguaggio e di pensiero, come lo chiama lei, incide nelle trasformazioni lessicali ma non sulla natura profonda del linguaggio, non sull’arbitrarietà radicale del segno, che rende la lingua, che è un fatto storico-sociale non biologico, ingovernabile a tavolino e artificialmente.
Prima di impartire consigli a un linguista, per quanto precario, su come condurre l’analisi linguistica e interpretarne i dati, invito lei e tutti gli altri “non addetti ai lavori” a studiare un po’ meglio la materia. Se volete, posso preparare una bibliografia che indichi un programma minimo di studi linguistici. Mi pare ce ne sia bisogno visto che, da un lato, si continua a non cogliere il punto fondamentale e, dall’altro, non so più come e in quale lingua spiegarvelo.
A presto
D.D.R.
Caro Di Russo, non era mia intenzione di impartire consigli a un linguista, per quanto precario.
Esprimevo solo un'impressione, che se permette rimane.
Non al linguista, ma all'uomo, consiglierei un pochino di spocchia in meno: serve a non radicalizzare il dibattito, che fin qui ho trovato interessante.
Mi stia bene.
Caro Poggi,
accetto il consiglio. Preciso solo che non si tratta di spocchia ma di rammarico. Rammarico nel constatare, non tanto e non solo da parte sua, che si gira attorno alla reale sostanza della questione senza volerla assumere, cosa che, oltre a mettere il dibattito sui giusti binari, di fatto lo chiuderebbe anche. Rammarico nel vedere riproposti, come nell’articolo di Del Vecchio pubblicato l’altro ieri, tesi e argomenti praticamente identici a quelli dei suoi articoli precedenti dopo che li avevo oggettivamente smontati, senza che le mie argomentazioni siano state peraltro comprese pienamente e verificate nella loro portata. Se il giocatore A muove incautamente una pedina e il giocatore B la mangia, non è che A possa portare avanti di nuovo la stessa pedina, quella ormai è bella che andata.
Insomma, più ancora che di rammarico si tratta, se preferisce, di amarezza. Amarezza per non essere capiti e, molto probabilmente, per non riuscire a farsi comprendere.
Tutto qua. Sia indulgente.
A presto
D.D.R.
Caro Domenico,
ripeto che mi hai convinto sulla lingua in ragione della massa parlante. Le mie esperienze, come ho giàscritto, vanno nella direzione che segnali: il 98% delle persone che conosco non usa termini inglesi. Ma una volta fissato questo concetto, il problema diventa quello segnalato da Luciano, sia pure ristretto al linguaggio delle elite anziché allargato alla lingua. Il tema politico importante è questo. I provvedimenti politici e amministrativi possono incidere sulla soluzione del problema. Magari la pensi come Luciano e allora nel tuo primo articolo, dopo una precisazione in cui spiegavi perché per la lingua non c'è problema (fino a quando l'Italia resta una nazione unita), potevi dare un tuo contributo. Invece sebbene l'articolo sia stato interessantissimo e apprezzato, hai preferito concentrare 9 pagine su 10 sulla precisazione. Il tono poi, già del tuo secondo articolo, quindi prima della prima replica di Luciano, non era dialogante e pacato, anzi era professorale, altezzoso e infatidito. Il tono del discorso incide sulla potenza persuasiva del medesimo.
Caro Stefano,
accetto le critiche personali, alle quali non rispondo perché è sempre antipatico parlare di sé e in generale non credo che sia un bene personalizzare i dibattiti e le polemiche, ancor più in un caso tanto particolare quanto cruciale come quello della questione della lingua.
Preciso soltanto, ancora una volta, che nel primo articolo sull’argomento, quello del 23 gennaio scorso, ho ragionato sui dati statistici più recenti riguardo ai livelli di scolarizzazione e alla cultura della popolazione italiana, con riferimento alle politiche nazionali su scuola e cultura degli ultimi vent’anni. È lì il cuore, tutto politico naturalmente, della questione. Mi sembrava e mi sembra tuttora di averlo detto chiaramente.
Quanto al tono del mio secondo articolo, quello del 23 febbraio, ti sbagli: la replica di Del Vecchio è antecedente alla mia controreplica e risale infatti al 2 febbraio. Dunque la durezza della mia controreplica va letta alla luce della replica di Del Vecchio ed è confermata dal suo ultimo articolo del 2 marzo. Un dibattito, almeno per me, è tale solo se leale, altrimenti diventa qualcos’altro. Per leale intendo per esempio che, se rispondo agli argomenti di Del Vecchio confutandoli uno a uno con dati, esempi e riferimenti teorici, Del Vecchio non può replicare riproponendo gli stessi argomenti come se nulla fosse. Dovrebbe semmai assumere i miei dati, i miei esempi e i miei riferimenti teorici mostrando come questi possano essere diversamente argomentati oppure, se è ancora convinto della bontà della sua posizione, per quanto debolissima e sostenuta dagli unici due libri letti sull’argomento, dovrebbe confutare i dati, gli esempi e i riferimenti teorici che ho fornito mostrandone la fallacia attraverso altri dati, altri esempi e altri riferimenti teorici, i quali però non si risolvono in un paio di citazioni prive di riferimento concreto alle dinamiche delle lingue e al sistema linguistico. Ecco, questo mi infastidisce molto, soprattutto perché nei due articoli che ho dedicato alla questione ho cercato di offrire all’ARS i riferimenti più alti della linguistica contemporanea.
Tengo a precisare che la mia non è una polemica personale: ho speso le mie energie affinché l’ARS non sostenga, proprio nel mio campo di studi, le posizioni più grette, becere e infondate che furono già sbugiardate almeno un secolo fa. Il mio contributo è tutto volto a far si che l’ARS non si azzoppi su una questione tanto delicata ma al contrario si elevi.
Tutto qua.
A presto
Domenico