Priapo, la mimetica, i cosmetici e le pecore: ovvero, la questione della lingua
A poco più di tre settimane dall’articolo di Luciano Del Vecchio, La lingua mimetica e cosmetica (https://www.appelloalpopolo.it/?p=10267), rispondo alla sua tesi di fondo e ai problemi sollevati nei commenti all’articolo: tesi e commenti che possiamo ascrivere più in generale alla secolare «questione della lingua». Nel farlo, saluto con sincero piacere l’acceso interesse che il dibattito sembra aver suscitato, soprattutto perché, come amava ricordare Ferdinand de Saussure, «il linguaggio è una cosa troppo importante perché se ne occupino solo i linguisti», categoria alla quale appartengo e che mi sforzo di non disonorare. Proprio per onorare la memoria di chi ci ha insegnato tanto e la dignità di quanti tuttora proseguono con passione in questa disciplina su una strada, quella della ricerca, che si fa sempre più difficile, al piacere con cui saluto l’interesse per il dibattito non posso che accompagnare la preoccupazione per un difetto di fondo per il quale mi pare necessaria una premessa di ordine metodologico.
Premessa metodologica
0. Ciò che mi ha colpito fin da subito tanto dell’articolo di Del Vecchio quanto dei commenti che lo hanno corredato è stata la totale mancanza di metodo e di analisi. Nemmeno una delle tesi sostenute è stata argomentata sulla base di una delle tante indagini lessicali disponibili, né opportunamente verificata con gli strumenti delle scienze del linguaggio, né interpretata sul piano teorico tenendo conto degli orientamenti e delle scuole di pensiero in cui la linguistica contemporanea si è parcellizzata, né è stata presa in considerazione l’elaborazione teorica di uno solo dei non pochi linguisti e storici della lingua che hanno affrontato con perizia e intelligenza i problemi sui quali è stata richiamata l’attenzione. Le sole due citazioni non letterarie alle quali s’aggrappa l’intero discorso di Del Vecchio sono tratte da un articolo di Diego Fusaro, La dittatura dell’inglese (http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/la-dittatura-dell%E2%80%99inglese-11009.html), vale a dire di uno studioso giovane e prolifico, il quale però, a quel che ne so, si occupa di storia della filosofia non di filosofia del linguaggio e neanche di linguistica, e men che meno di lessicologia. Non a caso, lo stesso articolo di Fusaro, al quale lo scorso 10 gennaio ha fatto seguito un video dello stesso tenore (http://www.youtube.com/watch?v=07zf8_aFgO0&sns=fb), risente di quella totale mancanza di metodo e d’analisi che descrivevo poco fa: nessuna indagine statistica, nessun dato, nessuna analisi linguistica e precisamente lessicale, nessuno studio comparativo, nessun quadro teorico di riferimento. Insomma, niente di niente.
Ora, lasciando da parte la “fusarite”, ovvero l’attuale tendenza epidemica a rinunciare alla propria elaborazione personale fondando qualunque asserzione, in qualsiasi campo dello scibile umano, su quanto detto o scritto da Fusaro, la mancanza di metodo e d’analisi stupisce ancora di più alla luce della storia, seppur breve, che accomuna la gran parte dei militanti e dei simpatizzanti dell’ARS. Non si capisce, infatti, per quale motivo alcuni di questi stessi cittadini – ma temo che ciò valga per una buona maggioranza – non sentano alcun bisogno di affrontare seriamente la questione della lingua e, anziché rimboccarsi le maniche e mettersi umilmente a studiare, come hanno fatto lodevolmente con l’economia politica piuttosto che con il diritto costituzionale, si sentano pienamente sicuri di sé nell’affermare, senza alcuna dimostrazione scientifica, quelle che anche agli occhi dei più giovani studiosi della storia della lingua e del lessico appaiono come le solite castronerie che tanta eco suscitano presso i maggiori organi d’informazione.
Mi pare, quindi, che il dibattito sia stato complessivamente condotto all’insegna del profluvio di opinioni disinvolte quanto infondate e pertanto malamente argomentate. Del resto, uno degli animatori più focosi del dibattito, certo Matauitatau, nel tentativo d’insegnarmi come si sta al mondo, ha scritto: «si viene per “dialogare” e non per “giudicare”, si “confrontano” le opinioni e non si “danno lezioni”». Ecco, affrontare la questione della lingua confrontando le proprie opinioni, cioè congetturando sulla base di impressioni soggettive, piuttosto che partendo dai fatti, vale a dire dai fenomeni concreti, rischiarati dai contributi analitici, rappresenta esattamente l’errore peggiore che si possa commettere, quello che ci porta dritti dritti verso un discorso asfittico e caricaturale, lontani anni luce da una reale compresione, scientifica e aperta, della questione. Permettete allora che vi mostri alcuni fatti sui quali fior di studiosi hanno richiamato l’attenzione e la cui conoscenza costituisce una premessa imprescindibile per chiunque intenda studiare seriamente il lessico di una lingua e, nel nostro caso particolare, dell’italiano.
L’egemonia dell’inglese presunta da Del Vecchio
1. Sulla scorta di Fusaro, il quale denuncia «la nostra incapacità di intendere e di parlare un’altra lingua che non sia quella dell’economia», incapacità dovuta alla «rinuncia alla propria lingua nazionale (nel nostro caso, la lingua di Dante e di Leopardi) e nella convergente adesione irriflessa all’inglese operazionale dei mercati finanziari, non certo a quello di Shakespeare o di Wilde», Del Vecchio sostiene che «l’uso mimetico e cosmetico dell’inglese ha invaso ogni attività ed è soltanto un aspetto di un fenomeno più generale che è il progressivo abbandono della lingua nazionale» e che «il germe di una gonfiata egemonia dell’inglese […] sta lentamente e tragicamente infettando il nostro vocabolario». Ma davvero si può rinunciare a tavolino o sotto la spinta di chicchessia alla propria lingua? Anche ammesso che sia possibile, ci stiamo davvero rinunciando tutti? Stiamo davvero abbandonando la lingua italiana a favore di un uso ormai irriflesso dell’inglese economico? È davvero così?
La parola egemonia, usata da Del Vecchio, rimanda inevitabilmente all’elaborazione teorica di Antonio Gramsci, di cui in parte mi sono già occupato nell’ultimo articolo (https://www.appelloalpopolo.it/?p=10226), e designa quel particolare «rapporto pedagogico» che porta alla formazione di un «consenso attivo e volontario (libero)» attraverso la persuasione culturale (cfr. Quaderno 6: § 10; Quaderno 10, II: § 44). Breve inciso: nell’essere citata a proposito della questione della lingua, per uno di quegli strani scherzi che solo la storia è capace di giocare, la nozione di egemonia torna, per dir così, nella sua casa natale giacché, come ha mostrato Franco Lo Piparo nel bellissimo Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci (1976), questa nozione affonda le sue radici nel concetto linguistico di prestigio, ben noto al linguista Gramsci. Già, perché giova ricordare che Gramsci, all’Università di Torino, fu allievo del grande linguista Matteo Bartoli, sotto la direzione del quale stava preparando la sua tesi di laurea in glottologia sulla storia della lingua e aveva deciso di dedicare proprio alla linguistica le sue energie future prima di essere rapito del tutto dal turbinio degli sconvolgimenti politici. Ma torniamo a noi: sostenere che l’inglese, per di più quello dell’uso specialistico dell’economia, abbia conquistato l’egemonia significa dunque sostenere che l’inglese abbia raggiunto un ampio consenso, libero e consapevole, presso la popolazione italiana, ovvero che si sia imposto, o sia in procinto d’imporsi, negli usi dell’attività linguistica quotidiana degli italiani. Vediamo se è così.
Noi tutti possiamo verificare se quanto sostengono Fusaro e Del Vecchio sia vero consultando il Grande Dizionario Italiano dell’Uso (Gradit), ideato e diretto da Tullio De Mauro con la collaborazione di Giulio Ciro Lepschy ed Edoardo Sanguineti, uscito in 7 volumi per la UTET tra il 1999 e il 2003 e provvisto di un utilissimo cd-rom, per quanto non privo di difetti. Il Gradit raccoglie complessivamente quasi 250000 lemmi, ai quali si aggiungono circa 140000 polirematiche, vale a dire quelle locuzioni complesse composte di due o più parole il cui significato non è desumibile dalla somma dei singoli significati dei suoi componenti ma costituisce un unicum radicalmente nuovo, come per esempio le comunissime cuore di ghiaccio e cuore d’oro o le più specialistiche cuore adiposo e cuore fibroso, fino alle più discorsive di tutto cuore e mettersi una mano sul cuore. Per completezza, è bene precisare che per lemma s’intende la forma di citazione con cui le parole sono registrate nei dizionari, i quali, per ragioni di spazio, non riportano tutte le forme della flessione di una parola: in un dizionario, per esempio, non troveremo parole come vado, andavi, andò, andrete, ecc., vale a dire le voci del verbo andare che ne costituiscono la coniugazione, ma solo la sua forma all’infinito, andare appunto. Nessun dizionario, cioè, nemmeno il più monumentale, contiene tutte le parole di una lingua. Detto ciò, accanto a quel fondamentale strumento di consultazione che è il Gradit, che costituisce di fatto il dizionario più esteso e completo della lingua italiana, abbiamo poi gli studi lessicologici condotti da De Mauro proprio sul Gradit e raccolti nell’altrettanto preziosa La fabbrica delle parole (2005).
Ora, sulla base delle analisi promosse dai grandi passi in avanti della statistica linguistica in merito alle liste di frequenza e di dispersione delle diverse occorrenze di ogni parola tanto nei testi della tradizione scritta italiana (letteraria e non) quanto nelle raccolte dell’italiano parlato, il Gradit ci mostra quale sia l’uso di ciascuna parola del lessico italiano, come pure delle sue accezioni, e ci permette in definitiva di sapere quali siano le parole più usate (De Mauro 2005: 59-64). Scopriamo così che esistono 2075 parole di altissima frequenza che costituiscono circa il 90% delle parole di tutti i testi scritti e dei discorsi parlati, con un’oscillazione che va da un minimo dell’80% per i testi scientifici e specialistici a un massimo del 96% per quelli più semplici, e che sono note a chiunque sia in possesso di un livello di istruzione almeno elementare, vale a dire al 95% circa della popolazione italiana: queste parole, come amare, libertà, rivoluzione, scuola, costituiscono il vocabolario fondamentale, ovvero il nucleo essenziale della lingua italiana. Ci sono poi 2663 parole di alta frequenza che rappresentano mediamente il 6% delle parole dei testi scritti e dei discorsi parlati e che sono conosciute da quanti abbiano un livello medio d’istruzione, cioè abbiano completato il ciclo di otto anni della scuola di base (elementari e medie), ossia al 90% circa popolazione italiana: queste parole, per esempio eccitare, ingegno, nevicare, piuma, formano il cosiddetto vocabolario di alto uso. Le 1988 parole come compatriota, fiaba, palpebra, zero, le quali, benché rare nell’uso quotidiano poiché troppo “banali” sia per essere scritte che parlate, risultano invece, alla luce delle indagini psicolinguistiche e sociolinguistiche, assai rilevanti nella vita di tutti i giorni, compongono quello che viene definito il vocabolario di alta disponibilità. Questi tre lessici costituiscono a loro volta il vocabolario di base dell’italiano, vale a dire un insieme di non più di 7000 parole essenziali per poter adempiere ai bisogni e ai doveri di una vita attiva e civile nel nostro Paese, dunque il cuore della lingua italiana.
Tutto intorno, sparse come in una splendida e coloratissima nebulosa, stanno le oltre 50000 parole, come Babele, dannazione, generare, offeso, usate indipendentemente dalla professione o dal mestiere che si esercitano da chiunque possieda un livello d’istruzione medio-superiore, vale a dire da una buona metà della popolazione italiana: si tratta dal vocabolario comune del lessico italiano. Attorno a questa densa nebulosa gravitano le oltre 120000 parole, come hegeliano, labirintite, quinconce, reticolare, che compongono i vocabolari tecnico-specialistici delle scienze, dei saperi, delle professioni e dei mestieri e che pertanto sono note per lo più a coloro che svolgono questi lavori e a quanti coltivino queste discipline. Accanto a questi lessici speciali, troviamo le oltre 8000 parole di uso letterario, attestate soprattutto nei testi canonici della tradizione letteraria italiana, come balausto, educere, raggiare, terrifico; a seguire, le oltre 6000 parole di uso regionale, come accallare, gagno, musina, quaiozza, usate più raramente in italiano ma più frequentemente nei diversi italiani regionali, questi ultimi da non confondere coi dialetti, di cui registriamo tuttavia la presenza nel lessico italiano tramite le oltre 400 parole, come ciciniello, lenzara, osel, ruera, dette appunto di uso dialettale. Contiamo poi oltre 6000 parole prestate da altre lingue e non adattate alla fonologia e alla morfologia della lingua italiana e perciò facilmente avvertite come straniere, per esempio default, holding, nécessaire, sacher, le quali sono classificate come esotismi o prestiti non adattati: su queste torneremo fra poco. Incontriamo oltre 20000 parole di basso uso, rare e attestate in particolare nei testi e nei discorsi del secolo scorso, come faccenderia, imbalordire, pacchettaggio, umanottero, e oltre 10000 parole obsolete, molto rare ma presenti comunque nei dizionari, come eiulato, napoleoniano, smantarsi, veggiare. Ammontano infine a diverse migliaia le parole dei vocabolari tecnico-specialistici conosciute però anche al di là dei confini dei loro campi di applicazione secondo livelli di frequenza tali da avere parole tecnico-specialistiche di alto uso, di alta disponibilità, comuni, letterarie, regionali, dialettali, esotiche, di basso uso e obsolete.
Se osserviamo un po’ più da vicino gli esotismi presenti nel lessico italiano, in tutto 6719, possiamo rilevare che 4208 di questi sono presi in prestito dall’inglese (di cui 135 dall’inglese americano), 1427 dal francese, 281 dallo spagnolo, 278 dal tedesco, 203 dall’arabo, 125 dal giapponese, 86 dal russo, 45 dal turco, 36 dall’ebraico, 18 dal cinese e 12 dal greco. Pertengono a un uso tecnico-specialistico 2567 esotismi tratti dall’inglese, 910 dal francese, 211 dal tedesco, 177 dall’arabo, 152 dallo spagnolo, 69 dal giapponese, 55 dal russo, 32 dal sanscrito, 20 dal turco, 13 dall’ebraico, 12 dal cinese. Dei 6719 esotismi complessivi perciò, 4218, sarebbe a dire quasi due terzi, risultano di uso tecnico-specialistico. Tuttavia, per quanto riguarda l’inglese, solo una piccola parte di questi può essere ricondotta al lessico speciale dell’economia, il quale rappresenta quindi una nicchia molto ristretta sia in valore assoluto che in termini d’uso.
Sappiamo quindi statisticamente che il 90% e oltre delle parole dei discorsi che ascoltiamo o pronunciamo nelle occasioni più solenni e formali, come a una seduta di laurea, a un convegno scientifico, alla presentazione di un libro o a teatro – per chi ama ancora la buona prosa – come pure delle parole dei discorsi che ascoltiamo o pronunciamo quotidianamente nel bar che frequentiamo, chiacchierando con il giornalaio, col fruttivendolo, dal pizzicagnolo, dal barbiere o più semplicemente a casa coi nostri cari oppure sul posto di lavoro – per chi ha ancora la fortuna di averne uno – sono parole che appartengono al vocabolario fondamentale della lingua italiana; e che il 6% delle parole di questi stessi discorsi che ascoltiamo o pronunciamo rientra nel vocabolario di alto uso della lingua italiana. Il restante 2-3% delle parole di questi discorsi che ascoltiamo o pronunciamo sono costituite da parole del vocabolario comune mentre nell’1-2% di parole che rimangono si concentrano quelle d’uso tecnico-specialistico, magari quelle d’uso regionale, e più raramente quelle dialettali, ma soprattutto gli esotismi, di cui solo una parte è riconducibile all’inglese, il cui uso, perciò, si attesta ampiamente al di sotto dell’1% (parliamo cioè di un ordine di grandezza quanto meno dello 0,…, che nel caso dell’inglese economico diventa ancora più piccolo). E questo è un fatto, non un’opinione.
Chi sostiene che l’inglese abbia ormai conquistato l’egemonia linguistica è come se, per il semplice fatto di aver avvistato in un gregge di mille pecore tre pecore nere, che saltano agli occhi proprio come saltano all’evidenza quei due o tre esotismi che s’incontrano ogni mille parole, sostenesse che ormai i pastori preferiscono le pecore nere alle care vecchie pecorelle bianche d’un tempo e che le scaltre pecore nere, mimetizzandosi nell’oscurità, corrotti gli avidi pastori e raggirate le sciocche pecore bianche, abbiamo ormai egemonizzato il gregge. Che però resta bianco al 99,7%. Ma si sa, non ci sono più le pecore di una volta…
2. Quel che abbiamo appena detto basterebbe, e di molto, a spegnere sul nascere gli impeti puristi contro il cosiddetto imperialismo linguistico. È però opportuno disegnare un quadro di riferimento che, entro i limiti di un articolo, sia il più esauriente possibile. In tal senso, un altro vizio di fondo della tesi di Del Vecchio, per cui «ogni anno scompaiono dall’uso scritto e parlato decine di parole, non sostituite da altri neologismi italiani o dialettali, ma da vocaboli di altre lingue straniere, soprattutto anglo-americani», sta nell’implicita concezione monolitica della lingua come di un’architettura rigida e normativa che sta sotto una campana di vetro e non interagisce con l’ambiente circostante, men che meno con le altre lingue, restando sempre fissa e uguale a se stessa e la cui evoluzione è improntata tutt’al più all’autarchia. Ma è davvero così? Vediamo un po’.
Per prima cosa, grazie a quanto abbiamo appena imparato, siamo ormai perfettamente in grado di sgombrare il campo, con metodo e argomenti scientifici, dalla grossolaneria secondo la quale gli anglicismi, e ancor più gli americanismi, starebbero “infettando” e soggiogando il lessico della lingua italiana. Tuttavia, parlando della scomparsa «dall’uso scritto e parlato decine di parole» non sostituite da altre parole italiane, Del Vecchio tocca in una sola volta due nodi molto delicati. Sul primo, che riguarda la sostanziale equiparazione tra usi scritti e usi parlati, ci può aiutare sempre De Mauro, il quale, in quel libro tanto piccolo quanto micidiale che è Linguistica elementare (1998), ricorda come gli usi linguistici sia fondamentalmente di due tipi: gli usi endofasici, vale a dire la produzione linguistica interna, quella dei nostri discorsi interiori e dei nostri pensieri, e gli usi esofasici, cioè l’attività linguistica esteriore, sia parlata che scritta. Ebbene, dal punto di vista statistico, è chiaro, per non dire intuitivo, che produzione endofasica sovrasti di gran lunga quella esofasica; così come è evidente che l’attività parlata, per ragioni storiche, filogenetiche, culturali nonché pratiche, sia nettamente predominante rispetto a quella scritta. Di qui l’impossibilità di equiparare gli usi scritti a quelli parlati, anche perché i processi mentali di percezione, interpretazione ed enunciazione coinvolti dalle due attività sono estremamente diversi. Sul secondo problema, quello della formazione del lessico di una lingua, e nel nostro caso particolare dell’italiano, conviene che ci soffermiamo attentamente.
In linea di massima, le parole del lessico di una lingua possono essere distinte essenzialmente in tre grandi categorie, la prima delle quali è data dalle parole patrimoniali, cioè quelle parole che fanno parte di una lingua fin dalle sue origini.
La seconda categoria è costituita dalle parole che una lingua prende in prestito dalle altre lingue con cui è entrata in contatto per le ragioni le più varie (economiche, diplomatiche, politiche, belliche, culturali, artistiche, religiose e infinite altre ancora) e che possono essere adattate alla sua fonologia e alla sua morfologia, e sono dette pertanto prestiti adattati, oppure assimilate senza essere adattate, e si dicono appunto esotismi o prestiti non adattati, di cui abbiamo già detto poco fa. In entrambi i casi parliamo di fonti esogene, le quali, pur importanti, non esauriscono il continuo lavorio lessicale intrinseco alle lingue.
Il grosso del rinnovamento lessicale di una lingua è dato infatti dalle sue fonti endogene (De Mauro 2005: 146-56; De Mauro 1998: 65-69), le quali agiscono sia sul patrimonio lessicale d’origine che sulle fonti esogene e rappresentano la terza grande categoria. Sono endogeni processi quali la derivazione, che consiste nella formazione di parole attraverso l’aggiunta di prefissi, infissi o suffissi a parole-base; la composizione, molto fertile nelle lingue indoeuropee, che è data dalla combinazione di semplici morfi lessicali, come portare e ombrelli, in morfi composti, come portaombrelli, attingendo anche qui a un importante bagaglio di confissi; l’abbreviazione, che accorcia le parole particolarmente lunghe, specie quelle di uso più frequente, come bicicletta che diventa bici; la transcategorizzazione, che “fa passare” una parola dall’uso secondo una certa categoria grammaticale, come il participio passato di passare, passato appunto, all’uso secondo un’altra categoria grammaticale, ossia il sostantivo il passato; la grammaticalizzazione, cioè il progressivo svuotamento semantico di una parola piena o morfo lessicale, trasformato così in una parola vuota o morfo grammaticale; e, dulcis in fundo, la polirematizzazione, della quale abbiamo già parlato più sopra, e che, in virtù delle quasi 140000 lemmatizzazioni attestate nel Gradit, come d’amore e d’accordo, maniglie dell’amore, lotta per le investiture, lotta senza quartiere e tantissime altre, rappresenta una miniera inesauribile e sempre operativa che garantisce la vitalità di tutte le lingue. A metà strada tra le fonti esogene e quelle endogene sta il fenomeno dei calchi semantici, ovvero la costruzione di una locuzione complessa secondo il modello di una straniera: è il caso della polirematica italiana lotta di classe tradotta sulla falsariga della tedesca Klassenkampf. Esistono poi processi più irregolari ma comunque interessanti, anche se di incidenza di gran lunga minore in termini statistici, come per esempio la formazione delle onomatopee.
Detto questo, non solo non dobbiamo illuderci che la separazione tra le fonti esogene e le fonti endogene sia così netta, visto che queste intervengono anche su quelle, ma dobbiamo anzi approfittarne per abituarci all’idea che nelle lingue tutto sia mescolato in un intreccio non più dissolubile. Ecco allora che nel materiale linguistico essenziale all’endogenissima derivazione troviamo non pochi prefissi di natura esogena, come quelli di origine greca filtrati in parte anche dalla cultura latina, per esempio ana-, anfi-, arche-, dis-, endo-, epi-, eso-, exo-, iper-, ipo-, meta-, pari-, peri-, pro-, pros-, ecc., o quelli di origine latina ma non patrimoniali, ossia immessi nell’italiano per via dotta e non popolare, per esempio ante-, anti-, archi-, circum-, co-, contra-, de-, des-, ecc.; ma incontriamo anche suffissi di natura esogena, come quelli latini di origine dotta, per esempio -aggine, -ale, -ario, -bile, -iano, -torio, ecc., piuttosto che quelli di origine francese, per esempio -aggio, -eria, -iere, o ancora quelli germanici, su tutti -esco. Persino la polirematizzazione non si sottrae “all’incrocio”: più di 500 polirematiche sono importate da altre lingue, come day hospital e pop art dall’inglese, cordon bleu ed esprit de finesse dal francese, cuba libre dallo spagnolo, ecc.; oltre 200 polirematiche infine, come aut aut, Ave Maria, ecce homo, homo sapiens, in loco, status quo, ecc., sono prese direttamente dal latino. Ma, anche qui, si tratta di una percentuale abbondantemente trascurabile rispetto alle 140000 polirematiche registrate nel Gradit.
Ora, come ci mostra De Mauro in modo incontrovertibile (De Mauro 2005: 126-35), nel caso dell’italiano, più ancora che per le altre lingue romanze, la questione è un po’ più complessa: queste tre grandi categorie s’intrecciano continuamente e non sempre è possibile stabilire a quale di queste una parola appartenga. Il 14,07% dei quasi 250000 lemmi del lessico italiano registrati nel Gradit, infatti, è rappresentato da 35186 parole di origine latina. La latinità, però, è una sorgente imponente che non ha agito solo come base patrimoniale del lessico italiano. La latinità, infatti, abbraccia più di un millennio di storia e non è racchiusa unicamente dalla sua fase classica, quella cioè degli autori aurei della tradizione letteraria latina: abbiamo un latino tardo-antico ricostruito dagli studiosi, un latino tardo ecclesiastico, un latino medievale, un latino moderno e un latino scientifico, parlato in alcune accademie e università europee fino alla fine dell’Ottocento e largamente impiegato nelle tassonomie scientifiche valide tutt’oggi. A questa latinità colta, il lessico della lingua italiana ha attinto a man bassa in epoche anche lontane fra loro e in ambiti molto diversi prendendo in prestito parole che poi ha adattato, allo stesso modo in cui ha preso in prestito parole dalle altre lingue. Di qui la distinzione tra le parole di origine latina vera e propria, quelle cioè patrimoniali, in tutto 4574 (l’1,83% del totale dei lemmi del Gradit), dette anche di trafila popolare perché giunte fino a noi modellate dagli usi linguistici concreti secondo i mutamenti descritti dalla grammatica storica, e, dall’altra parte, le parole prese in prestito dal latino, complessivamente 30612 (il 12,25%), chiamate pertanto di origine dotta, immesse originariamente negli usi scritti per ragioni puramente culturali. In tal senso, la latinità dotta costituisce pertanto una fonte esogena al pari di tutte le altre lingue dalle quali il lessico italiano ha preso in prestito delle parole.
Venendo proprio a queste ultime, abbiamo già visto che l’italiano annovera 6719 esotismi o prestiti non adattati, pari al 2,69% del totale. Se spostiamo però l’attenzione sui prestiti adattati, cioè quelli “in incognito” che sfuggono alla battute di caccia dei puristi, per lo meno ai non addetti ai lavori (anche se spesso e volentieri, come nel caso di Del Vecchio, Fusaro e compagnia cantante, i due gruppi tendono a coincidere), troviamo: 8342 prestiti dal greco (3891 dei quali sono entrati in italiano direttamente dal greco mentre gli altri sono stati filtrati dal latino durante le diverse fasi della latinità), 2943 dal francese, 1302 dall’inglese (di molto staccato dunque), 775 dallo spagnolo, 326 dal tedesco, 266 dall’arabo, 240 dal provenzale, 168 dal portoghese, 148 dal russo, 114 dal longobardo, 92 dal sanscrito, 88 dal turco, 68 dal persiano, 54 dall’hindi, 48 dal giapponese, 40 dal cinese e 32 dall’ebraico (De Mauro 2005: 136-46). Con buona pace dei bracconieri dell’inglese “operazionale”, tanto più difficile da scovare perché statisticamente inconsistente, troviamo così delle belle sorprese. Ci accorgiamo per esempio che una parola come banconota è stata in realtà introdotta nel 1849 dall’inglese bank-note e successivamente adattata; che una parola come limone è stata importata dall’arabo laymîun nella prima metà del Cinquecento, analogamente alla parola zucchero, immessa dall’arabo sukkar agli inizi del Trecento e in seguito adattata. E così via lungo il bellissimo percorso della storia delle parole. D’altra parte, proprio agli apporti stranieri al lessico italiano e agli italianismi nelle altre lingue, il grande Bruno Migliorini ha dedicato alcune delle pagine più belle della sua monumentale Storia della lingua italiana (1960). Perciò sbaglia chi si illude di poter rinvenire e isolare il nocciolo puro e incontaminato della lingua italiana. Sarebbe come sostenere che il nostro gregge – perdonate il mio insistere sulla metafora ovina ma sono abruzzese e per noi abruzzesi la pecora è sacra – sia composto da 997 pecore bianche al 100%, insidiate da tre pecore nere al 100% che però hanno il vezzo di truccarsi per dare meno nell’occhio. A ben guardare, infatti, è molto probabile che le nostre pecorelle bianche non siano poi così bianche e che qualche chiazza di grigio, o magari anche più scura, ce l’abbiano anche loro, così pure le tre agguerritissime pecore nere, che così nere poi non sono ma che anzi presentano delle chiazze un po’ più chiare.
Ciononostante, se andiamo a fare un resoconto dei contributi totali delle altre lingue al lessico dell’italiano, a prescindere tanto dal fatto che siano stati più o meno adattati quanto dalle fasi della loro storia, scopriamo che il greco, compreso quello filtrato dalla tradizione latina, rappresenta l’origine del 3,34% circa del lessico italiano, mentre il 2,2% deriva dall’inglese, l’1,75% dal francese, lo 0,42% dallo spagnolo, lo 0,24% dal tedesco, lo 0,19% dall’arabo, lo 0,1% dal provenzale, lo 0,09% dal russo, lo 0,07% dal giapponese, lo 0,07% dal portoghese, lo 0,05% dal turco, lo 0,05% dal longobardo, lo 0,04% dal sanscrito, lo 0,03% dall’ebraico, lo 0,03% dal persiano, lo 0,02% dal cinese, lo 0,02% dall’hindi, per un totale dell’8,71%. Il tutto senza tener conto delle oltre 250 lingue presenti ciascuna mediamente nell’etimologia di non più di due o tre parole, per un totale di non più di altri 700 apporti esogeni eterogenei. Il che vuol dire che, all’interno di quell’1% delle parole dei discorsi che ascoltiamo o pronunciamo quotidianamente, la probabilità, già molto bassa, di ascoltare o pronunciare una parola inglese o di origine inglese è notevolmente inferiore a quella di ascoltare o pronunciare una parola di origine greca e di poco superiore a quella di ascoltare o pronunciare una parola francese o di origine francese. E questo è un fatto, non un’opinione. Per non parlare poi della latinità che trabocca dalla gran parte delle parole che ascoltiamo o pronunciamo quotidianamente: il vocabolario di base, che mediamente copre da solo il 96-98% dei testi e dei discorsi, è per il 52,2% di origine latina. Il che significa che la metà delle parole dei testi e dei discorsi che leggiamo o scriviamo e che ascoltiamo o diciamo è di origine latina. E questo è un altro fatto, non un’opinione.
Chi crede che la lingua italiana non sia più capace di rinnovarsi e stia dunque morendo deve dimostrare, dati alla mano, che nell’arco almeno degli ultimi quarant’anni, ossia in un intervallo minimo per poter parlare seriamente degli sviluppi effettivi di una lingua, il lessico italiano si sia poco o per niente arricchito attraverso l’opera delle sue fonti endogene, soprattutto in rapporto ai contributi di quelle esogene, e deve perciò dimostrare quanto e perché ciascuno dei processi di formazione endogena delle parole sia stato inoperativo o per lo meno improduttivo. A lui spetta l’onere della prova e, possiamo ora dirlo con ragionevole certezza, la figuraccia.
Tornando a noi, per il momento possiamo dire di aver capito, con metodo e argomenti scientifici, che le lingue interagiscono fra di loro influenzandosi reciprocamente, arricchendosi a vicenda e – mi permetto di aggiungere – non soltanto sul piano puramente lessicale, come troppo spesso, come in questo caso, siamo costretti a considerare. Nessuna lingua è pura, nessuna lingua è autarchica, le lingue sono tutte meticcie: sta proprio in questo la loro ricchezza e, crediamo, la loro bellezza. A questo punto, però, forse è il caso di aprire una parentesi.
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Intermezzo: che cos’è una lingua?
3. Il più grande filosofo del linguaggio del Novecento, e a detta di alcuni non solo del Novecento, Ludwig Wittgenstein, nelle sue Ricerche filosofiche (1953) – alle quali dobbiamo tra le tante cose l’intuizione per cui «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» [RF, I: § 43] oltre che la nozione di gioco linguistico [RF, I: § 7, passim] – ha provato a rispondere così alla domanda che qui ci poniamo tra parentesi:
«La nostra lingua può essere considerata come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi» [RF, I: § 18]
«Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più» [RF, I: § 203]
L’immagine, in tutta la sua carica suggestiva, ha il pregio di toccare corde diverse e tutte importanti. A spiegarla ci aiuta Gramsci, il che non deve stupirci dato il dialogo a distanza che Wittgenstein e Gramsci hanno intrattenuto più o meno consapevolmente per il tramite di Sraffa e che Lo Piparo ha messo in luce nell’interessante Gramsci and Wittegenstein: An intriguing connection (2010). Ebbene, il 24 gennaio 1918 fu pubblicata sulle pagine dell’Avanti!, diretto allora proprio da Gramsci, una lettera alla redazione di un giovane operaio, Vezio Cassinelli, che poneva la questione della necessità di favorire l’affermazione dell’esperanto, una lingua artificiale, quale lingua internazionale del proletariato. Su quelle stesse pagine gli rispose Gramsci con l’articolo Contro un pregiudizio, che evidentemente deve essere sfuggito a quell’estimatore di Gramsci che Fusaro dichiara d’essere. Ne propongo alcuni passaggi:
«Le lingue sono organismi molto complessi e sfumati, che non possono essere suscitate artificialmente. Esse non hanno mai determinato le formazioni nazionali. Le nazioni si sono formate per le necessità economiche e politiche di una classe»
«È invece l’unità nazionale che ha determinato sempre e ovunque la diffusione della lingua letteraria tradizionale nei ceti colti di una determinata regione. L’unificazione degli staterelli italiani ha, per esempio, diffuso la lingua letteraria italiana prima in tutta la nuova borghesia italiana e più lentamente, attraverso la scuola e gli accresciuti contatti tra regione e regione dovuti alle nuove vie formatesi per i traffici, per le necessità di lavoro, per necessità militari, ecc., anche nei ceti proletari che prima sono affiorati alla vita pubblica»
«Le trasformazioni linguistiche sono lente e avvengono solo per i contatti nuovi che i bisogni della complessa vita civile creano; essi sono spontanei, non possono essere determinati intellettualisticamente»
Il dibattito proseguì su Il Grido del Popolo, dove il 16 febbraio dello stesso anno Gramsci pubblicò l’articolo La lingua unica e l’Esperanto, in cui riprendeva le celebri tesi presentate nel Proemio all’Archivio Glottologico Italiano (1873) dal primo grande “vero” linguista italiano Graziadio Isaia Ascoli. Quest’ultimo, alla soluzione centralista della questione della lingua proposta da Manzoni sul modello del francese e basata sull’identificazione dell’italiano con il fiorentino parlato, opponeva la presa d’atto del carattere tardo e a intermittenza del processo di unificazione linguistica italiana, improntata a un forte policentrismo in virtù del quale il ruolo del toscano e di Firenze veniva ridimensionato; al rigido modello linguistico artificiale stabilito a priori dalla classe dirigente e che derubricava i dialetti a elementi di disturbo dell’unificazione linguistica forzata, Ascoli contrapponeva la diffusione della lingua italiana attraverso l’intensificarsi degli scambi culturali ed economici all’interno della società italiana unitaria, cercando in particolare di porre rimedio alla storica assenza di una classe media con buoni livelli d’istruzione e, più in generale, investendo di più e meglio nel rafforzamento del sistema educativo nazionale. Ecco dunque, alla luce delle osservazioni di Ascoli, un paio di brani dell’articolo di Gramsci:
«Le spinte linguistiche avvengono solo dal basso in alto; i libri poco influiscono sui cambiamenti delle parlate: i libri fanno opera di regolarizzazione, di conservazione delle forme linguistiche più diffuse e più antiche»
«Non c’è nella storia, nella vita sociale, niente di fisso, d’irrigidito, di definitivo. E non ci sarà mai. Nuove verità accrescono il patrimonio della sapienza, nuovi bisogni, sempre superiori, vengono suscitati dalle condizioni nuove di vita, nuove curiosità intellettuali e morali pungono lo spirito e lo obbligano a rinnovarsi, a migliorarsi, a mutare le forme linguistiche di espressione, prendendone da lingue straniere, facendo rivivere forme trapassate, cambiando significato e funzioni grammaticali»
Ciò che Gramsci cercava di far capire agli operai e alle forze della sinistra Saussure lo aveva spiegato ai suoi allievi dei corsi ginevrini giusto qualche anno prima e, appena due anni prima degli articoli di Gramsci, all’intera comunità dei linguisti in alcune delle pagine più belle e preziose del postumo e ancora oggi imprescindibile Corso di linguistica generale (1916), quelle dedicate all’«immutabilità e mutabilità» del segno linguistico (CLG: 89-97). In queste pagine, infatti, Saussure giungeva a una conclusione lucidissima:
«ciò che ci vieta di guardare alla lingua come a una semplice convenzione, modificabile a piacere dagli interessati […] è […] l’azione del tempo che si combina con l’azione della forza sociale» [CLG: 96]
Tempo e massa parlante costituiscono pertanto le coordinate essenziali sulle quali poggia il carattere arbitrario del segno linguistico: «Proprio perché arbitrario il segno non conosce altra legge che quella della tradizione, e proprio perché si fonda sulla tradizione può essere arbitrario» [CLG: 92]. Ed è esattamente il «carattere arbitrario del segno», vale a dire ciò che dovrebbe garantirne la possibilità di trasformazione, a determinare la prima ragione fondamentale dell’immutabilità del segno linguistico, infatti:
«proprio l’arbitrarietà del segno mette la lingua al riparo da ogni tentativo tendente a modificarla. La massa […] non potrebbe discuterne. Perché, per mettere in questione una cosa, è necessario che questa sia fondata su una norma ragionevole […] ma per la lingua, sistema di segni arbitrari, questa base fa difetto e con essa ci è sottratto ogni terreno solido di discussione; non c’è nessun motivo per preferire souer a sister, Ochs a boeuf» [CLG: 91]
Ma, se «il segno linguistico sfugge alla nostra volontà» [CLG: 89], dal momento infatti che non solo «un individuo sarebbe incapace, se lo volesse, di modificare in qualche cosa la scelta che è stata fatta, ma la massa stessa non può esercitare la sua sovranità neppure su una sola parola: essa è legata alla lingua come è» [CLG: 89], dipende per Saussure anche da altre tre ragioni importanti: (a) la «moltitudine dei segni necessari a costituire qualsiasi lingua» [CLG: 91]; (b) il «carattere troppo complesso del sistema» [CLG: 91]; (c) la «resistenza dell’inerzia collettiva a ogni innovazione linguistica» [CLG: 92]. Tuttavia, come dicevamo poco fa, «Se la lingua ha un carattere di fissità, ciò accade non solo perché è ancorata al peso della collettività, ma anche perché è situata nel tempo» [CLG: 92], il quale, d’altra parte, è proprio ciò che rende visibile la «mutabilità» del segno linguistico, giacché «Questa evoluzione è fatale: non vi sono esempi di lingua che vi resista. Al termine d’un certo tempo si possono sempre constatare spostamenti sensibili» [CLG: 94].
Ecco allora che le ragioni profonde dell’immutabilità e della mutabilità del segno linguistico sono radicate proprio nel suo essere parte integrante di un sistema, la lingua, che è insieme sociale, cioè in funzione della massa parlante e dunque trascendente l’individuo, che non può modificare scientemente e a tavolino alcunché, e storica, vale a dire in funzione del tempo e quindi soggetta alla «legge universale» di alterazione, anche se in grado minore rispetto a tutte le altre istituzioni sociali:
«il segno è in condizione d’alterarsi in quanto si continua. Ciò che domina in ogni alterazione è la persistenza della materia antica; l’infedeltà al passato non è che relativa. Ecco perché il principio di alterazione si fonda sul principio di continuità» [CLG: 93]
Se Saussure ce lo spiega, De Mauro ce lo mostra (De Mauro 2005: 119-26). Per restare infatti agli aspetti lessicali dell’analisi linguistica e in particolare alle fasce lessicali di maggiore frequenza scritta e parlata, questa volta osservate però dal punto di vista diacronico, cioè della loro storia, il 50,4% del vocabolario fondamentale risale al Duecento, il 24,9% al Trecento, il 5% al XII sec., il 4,3% al Cinquecento, il 2,7% al Quattrocento, il 2,6% al Seicento, l’1,9% all’Ottocento, l’1,2% al Settecento, lo 0,8% al X sec., lo 0,4% all’XI sec., lo 0,4% al Novecento, mentre il 5,4% non è datato.
Il 34,3% del vocabolario di alto uso ha origine nel Trecento, il 27,6% nel Duecento, il 10,6% nel Cinquecento, il 5,9% nell’Ottocento, il 5,6% nel Seicento, il 4,4% nel Settecento, il 3,8% nel Quattrocento, l’1,6% nel Novecento, l’1,3% nel XII sec., lo 0,1% nell’XI sec., lo 0,03% nel X sec., mentre il 4,7% non è datatto.
Il 32,4% del vocabolario di alta disponibilità deriva dal Trecento, il 15,1% dal Duecento, il 9,3% dall’Ottocento, il 9,1% dal Cinquecento, il 5,5% dal Seicento, il 5,3% dal Quattrocento, il 5,2% dal Settecento, lo 0,8% dal XII sec., lo 0,1% dall’XI sec., mentre il 12% circa non è datato.
Il 38,4% del vocabolario comune risale al Novecento, il 13,1% all’Ottocento, l’11,6% al Trecento, il 6,4% al Cinquecento, il 4,9% al Seicento, il 4,7% al Settecento, il 2,6% al Quattrocento, lo 0,3% al Duecento, lo 0,3% al XII sec., lo 0,02% all’XI sec., lo 0,01 al X sec., mentre il 12,1% non è datato.
Ciò significa che la metà del vocabolario fondamentale, cioè di delle parole che costituiscono mediamente il 90% dei testi e dei discorsi che leggiamo o scriviamo e ascoltiamo o diciamo quotidianamente, risale al Duecento, a ben prima dunque che Dante cominciasse a lavorare sulla Commedia; un quarto di queste stesse parole, invece, al Trecento di Dante, Petrarca e Boccaccio. I tre quarti del vocabolario di alto uso, vale a dire di quelle parole che coprono mediamente il 6-8% dei testi e dei discorsi che leggiamo o scriviamo e ascoltiamo o diciamo quotidianamente, si sono affermate tra il Duecento e il Cinquecento. Come pure quasi la metà del vocabolario di alta disponibilità, ovvero di quelle parole talmente importanti da non essere nemmeno scritte o dette eppure ben presenti nell’attività linguistica endofasica, ha origine tra il Duecento e il Trecento. Mentre poco più della metà del vocabolario comune, ossia di quelle oltre 50000 parole a oggi note almeno a una buona metà della popolazione italiana, si è formata tra l’Ottocento e il Novecento, cioè l’altro ieri. Il che ci mostra quanto l’italiano, al pari di tutte le altre lingue, sia al tempo stesso conservativo ma aperto all’innovazione, tradizionale ma sempre in divenire. E questo è un fatto, non un’opinione.
Le lingue dunque, e con loro i mutamenti linguistici, non possono essere imposte o modificate dall’alto e nel breve volgere di pochi decenni secondo il disegno artificiale di un gruppo dirigente o per le rivendicazioni infondate e autoreferenziali di ristretti circoli intellettuali; le lingue sono sempre radicalmente e spontaneamente determinate dalle diverse masse parlanti che le ereditano e le rielaborano nel corso dei secoli; le lingue non sono sistemi chiusi e isolati che vivono di vita propria; le lingue sono tali proprio in quanto sistemi aperti che comunicano tra loro, ora prendendo in prestito parole ora prestandole; le lingue non sono né mimetiche né cosmetiche, come Del Vecchio paventa dell’inglese; le lingue sono sistemi storico-sociali la cui vita e i cui limiti trascendono la vita e i limiti dei singoli individui; niente nelle lingue, come in qualsiasi altro fenomeno o istituzione dell’essere umano, è puro; tutto nelle lingue è miscuglio. Per cui l’italiano che Fusaro e Del Vecchio rimpiangono non è solo quello di Dante e Leopardi ma quello che Dante aveva trovato già pronto alla fine del Duecento e ha contribuito a cristallizzare nella sua Commedia, e che si è via via sedimentato grazie alle tradizione letteraria italiana e alla sua diffusione nell’uso quotidiano, di cui diremo più oltre. Cosa che vale anche per l’inglese, che non è né mai è stato solo l’inglese di Shakespeare e Wilde ma è anche l’inglese che Shakespeare e Wilde hanno contribuito a fissare, allo stesso modo in cui gli usi linguistici concreti popolari lo hanno fissato a mano a mano. E anche questo è un fatto, non un’opinione. A questo punto possiamo anche chiudere la nostra parentesi e riprendere il filo del discorso.
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4. Appurato che la situazione è ben diversa da quella denunciata da Del Vecchio, sarebbe però imprudente, oltre che irresponsabile, liquidare le loro posizioni come semplici recrudescenze di quel purismo tra l’apocalittico e il nazionalistico di cui abbiamo già avuto una sciagurata esperienza nel ventennio fascista. Come Gramsci aveva infatti intuito nei Quaderni del carcere occupandosi dei «Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali» [Quaderno 29: § 3], il dibattito sulla questione della lingua è sempre la spia di qualche sommovimento più profondo:
«Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale» [Quaderno 29: § 3]
L’allarme lanciato da Del Vecchio e Fusaro e che Giovanni Muzii ha tanto “solleticato” nel suo divertente articolo Noio vulevòn savuàr (https://www.appelloalpopolo.it/?p=10388) non è quindi campato in aria. C’è davvero qualcosa che non va. Il problema, però, è che né Del Vecchio né Fusaro capiscono cosa sia. Quanto a noi, se non altro, sappiamo ormai con che cosa non dobbiamo prendercela. Alla luce delle riflessioni che abbiamo svolto nei primi due punti con metodo e argomenti scientifici e sulla base di dati verificabili, sappiamo bene infatti che non c’è alcuna dittatura dell’inglese, il quale non ha niente affatto egemonizzato gli usi linguistici della popolazione italiana; conosciamo inoltre un po’ meglio quale sia la stratificazione del lessico italiano dal punto di vista sia dell’uso che dell’apporto delle sue fonti esogene; grazie ai contributi esaminati al terzo punto, poi, sappiamo anche per quale ragione una lingua non possa essere imposta secondo un modello studiato a priori né modificata scientemente da nessuna élite secondo alcuna strategia, come invece sostiene certo Le Baron de Cantel in uno dei commenti all’articolo di Muzii, ma soprattutto abbiamo forse capito un po’ meglio cosa sia una lingua. Allora cos’è che non va? O forse sarebbe meglio dire: chi è che non va?
È qui che la questione si fa più delicata, cioè più propriamente politica. Il paragone di Del Vecchio tra l’inglese dei giorni nostri e il latinorum dell’Azzeccagarbugli nel Seicento de I promessi sposi rivela molto più di quanto non fosse nelle sue intenzioni. Come il latinorum dell’Azzeccagarbugli, che peraltro anche don Abbondio biascicava, era un latino un po’ “maccheronico” pensato male e parlato peggio non già dalle ristrettissime élite culturali vere e proprie bensì dalle classi medio-alte italiane, tradizionalmente ignoranti, per riconoscersi fra loro e distinguersi dalle masse popolari analfabete e non scolarizzate, per soggiogarle e all’occorrenza abusare del proprio potere, così oggi l’inglese, non quello “operazionale” del campo economico né quello mimetico e cosmetico, che non esiste, ma quello specialistico-superfluo, parlato mediamente molto male dagli italiani, e pertanto maccheronico, rappresenta uno degli elementi della semiotica generale con la quale le classi medio-alte italiane, tuttora culturalmente arretrate e quindi più predisposte alla prevaricazione, soddisfano il proprio narcisismo, “marcano il territorio” e, nell’esercizio della propria professione o nella solennità dell’attività politica, mettono in soggezione le masse popolari, pure queste arretrate e dunque più facili da soverchiare, rafforzando quindi i propri privilegi. Il problema dunque non sta nella lingua inglese in sé e tanto meno nella lingua italiana; non esistono condizioni per le quali una lingua sia più bella o migliore di un’altra, tali da favorirne l’egemonia. Il problema risiede nel carattere arretrato e provinciale delle classi italiane medio-elevate e nella mancanza di una classe dirigente nazionale colta e aperta che s’impegni sinceramente in un’opera di sostegno incondizionato e di investimenti continui e crescenti a favore del sistema dell’istruzione pubblica, della cultura, della conservazione del patrimonio artistico e della ricerca nelle scienze e nei saperi. Con un’aggravante: lo scadimento culturale del ceto intellettuale, che comprende la classe docente, soprattutto quella accademico-universitaria, la quale fa da cinghia di trasmissione tra le classi medio-elevate e la classe dirigente. Alla accademia ormai decadente aggiungiamo poi gli operatori dei diversi ambiti della cosiddetta “industria culturale”, oltre che, naturalmente, i quadri e i dirigenti dei grandi mezzi di comunicazione di massa. Si tratta cioè di un fenomeno che riguarda l’arretratezza, il provincialismo e lo scadimento di non meno del 5% e non oltre il 10% della popolazione nazionale, non gli usi linguistici degli italiani e men che meno la “salute” del lessico italiano. E bene fa Fusaro, che è parte integrante del ceto intellettuale, a prendersela coi suoi colleghi che nei convegni italiani, anche in quelli in cui partecipano solo italiani, espongono le proprie relazioni in inglese. E benissimo fa Muzii a ironizzare sulla schizofrenia anglofila che lobotomizza i dipartimenti e le facoltà di alcune università italiane. Ma, appunto, si tratta di una delle forme di provincialismo e di arretratezza di una parte molto minoritaria della popolazione italiana.
Le lingue, però, sono diaboliche, o angeliche se preferite, perché significano molto più di quanto non dicano. Il malcostume che abbiamo appena descritto, infatti, corrompe anche i più insospettabili, persino i puristi più ardenti che alzano le barricate in difesa dell’italiano. Prendiamo per esempio, non ce ne voglia, Matauitatau, il quale, proprio in uno dei suoi commenti più infiammati di patriottismo purista, scrive: «L’italiano viene soppiantato dall’inglese in parte per motivi “coloniali” ma soprattutto perché ha perso da tempo il contatto con le capacità di plasmarlo del suo proprio popolo. È una lingua ridicolmente ingessata mentre l’inglese, per una serie di motivi anche interessanti, è in continuo work in progress». E ancora: «Una questione quindi di conflitto fra cultura alta, sclerotizzata, “imposta” e cultura viva rinnegata al fine di mantenere saldamente sotto controllo i tentativi di sviluppi culturali fuori dal mainstream delle classi subalterne». Infine, in un commento all’articolo di Alessandro Bolzonello (https://www.appelloalpopolo.it/?p=10307), citandomi, anche se male, Matauitatau risponde: «Aspettiamo il post di Domenico Russo che è legato a doppio filo all’argomento di questo thread e speriamo che nasca questo “discorso” di cui parlo». Ebbene, converrete che denunciare da un lato la dittatura dell’inglese e dall’altro l’impotenza dell’italiano usando, su un totale di 104 parole, ben 6 parole inglesi, di cui 3 compongono una polirematica, work in progress appunto, quando si potrebbe dire senza alcun problema lavori in corso, corrente principale, articolo, filone, è un po’ contraddittorio, per non dire ridicolo, no? Come si sa, però, il diavolo, ma secondo altri anche Dio, è nei dettagli e, in questo ristrettissimo ma significativo campione scritto, registriamo che l’italiano di Matauitatau attinge per il 5,8% all’inglese, ben al di sopra di quel trascurabile 0,… che abbiamo verificato al punto 2. Non c’è peggior difensore della lingua, ammesso che le lingue abbiano davvero bisogno di essere difese, di un purista in piena estasi da resistenza a un imperialismo linguistico che, per la verità, riguarda lui, non l’intera popolazione. I puristi, per un strano transfert che uno psichiatra spiegherebbe molto meglio di me, proiettano sulla collettività una patologia che in realtà riguarda in primo luogo loro e il ceto intellettuale cui appartengono, cercando così di esorcizzarla. Senza successo però, perché il segno linguistico, come ci ha insegnato Saussure, sfugge alla nostra volontà dal momento che le lingue sono determinate dalla massa parlante nel corso del tempo e non c’è purista o congrega di puristi che possa “raddrizzarle”, ammesso e non concesso che le lingue possano “storcersi”.
Del Vecchio, Fusaro e quanti condividono le loro tesi farebbero meglio a interessarsi ai veri termini della questione, vale a dire al provincialismo del ceto intellettuale italiano, all’arretratezza delle classi medio-elevate italiane e al calo dei tassi di scolarizzazione delle masse popolari. Per inquadrare meglio ciò di cui stiamo parlando, osserviamo qualche dato.
Una fonte molto preziosa è il Rapporto sulla coesione sociale pubblicato dall’ISTAT nel dicembre scorso (http://www.istat.it/it/archivio/108637), dal quale, analizzando la percentuale dei diplomati sul totale della popolazione giovanile italiana fino ai 19 anni, apprendiamo che, nell’anno scolastico 2011/12, ha conseguito il diploma il 76,2%; dal punto di vista geografico, poi, al Nord è diplomato il 70,5% della relativa popolazione giovanile, al Centro l’80,1%, al Sud l’80%; il che basta a sfatare il mito dell’arretratezza culturale del Sud rispetto al Nord. Questi dati, però, diventano davvero interessanti e, ahinoi, allarmanti se confrontati rispetto all’anno scolastico 2006/07. Cinque anni prima, infatti, avevamo una percentuale di diplomati superiore, il 79,9%, e avevamo percentuali ben maggiori in relazione alle diverse aree: il 75,5% di diplomati sul totale della popolazione giovanile del Nord; l’87,3% al Centro e l’80,9% al Sud. Ciò vuol dire che nell’arco degli ultimi 5 anni la percentuale dei giovani fino ai 19 anni che ha conseguito il diploma si è ridotta del 3,7%, in particolare del 5% al Nord, del 7,2% al Centro e dello 0,9% al Sud.
Se esaminiamo la percentuale dei diplomati che si è iscritta all’università, notiamo che nel 2012 si attesta al 58,2%, precisamente il 59,3% dei diplomati al Nord, il 63,8% al Centro e il 54,9% al Sud. Anche qui, il confronto rispetto a 5 anni prima è scoraggiante: nel 2007 si era iscritto all’università il 66,3% dei diplomati italiani, nello specifico il 66,1% di quelli del Nord, il 69,7% al Centro e il 64,9% al Sud. Ciò significa che negli ultimi 5 anni abbiamo l’8,1% in meno di giovani diplomati iscritti all’università, i quali, dal punto di vista geografico, risultano il 6,8% in meno al Nord, il 5,9% in meno al Centro e addirittura il 10% in meno al Sud.
Un altro dato sul quale bisogna pur riflettere è quello relativo alla percentuale dei giovani compresi fra i 20 e i 24 anni che possiedono almeno un titolo di istruzione secondaria superiore, vale a dire almeno il diploma, misurata sul totale dei paesi dell’Unione Europea a 15. Al 2012, la situazione è tale per cui l’Italia, col il 77,6%, risulta di poco al di sotto della media europea del 78,2%, come pure rispetto all’80,3% dell’UE a 27. Nella graduatoria dei paesi dell’UE a 15, l’Italia è decima, superata da Irlanda (87,2%), Austria (86,6%), Svezia (86,4%), Finlandia (86,3%), Grecia (85,4%), Francia (84,4%), Belgio (82,8%), Gran Bretagna (81,8%) e Olanda (79%); mentre è seguita, guarda un po’, dalla civilissima Germania (75,6%), Danimarca (72%), Lussemburgo (71,5%), Portogallo (67,5%) e Spagna (62,8%).
Già questi dati una prima considerazione ce la permettono: in Italia sta diminuendo sensibilmente il tasso di scolarizzazione media-superiore della popolazione giovanile e segnatamente il numero dei diplomati e di quanti fra questi decidono di iscriversi all’università, dal che deriva un minor livello di istruzione, quanto meno secondaria superiore, rispetto ai due terzi degli altri paesi europei. I giovani italiani cioè stanno smettendo di credere nel valore educativo e di promozione sociale della scuola e dell’università. Infatti, stando alla Banca dati di Indicatori territoriali per le politiche di sviluppo (http://www.istat.it/it/archivio/16777), la percentuale dei giovani che abbandona prematuramente gli studi senza conseguire il diploma rappresenta nel 2012 il 17,6% della popolazione italiana tra i 18 e i 24 anni che abbia raggiunto per lo meno la licenza media, una percentuale certo in calo rispetto al 22,9% del 2004 ma comunque alta. Di fronte al livello di istruzione della popolazione adulta compresa fra i 25 e i 64 anni, poi, cadono le braccia: la percentuale di quanti, al 2012, abbiano conseguito almeno la licenza media è pari al 43,1%, vale a dire l’8,8% in meno il rispetto al 51,9% del 2004. Un dato rilevante ma spesso trascurato è inoltre quello della percentuale degli adulti italiani che partecipano all’apprendimento permanente, il quale, pur salendo rispetto al 5,5% del 2000, si ferma però al 6,6% del 2012, molto indietro cioè rispetto ai livelli degli altri paesi europei e occidentali.
A ciò dobbiamo poi aggiungere i dati relativi alle competenze alfabetico-numeriche misurate dall’OCSE nel 2012 sul totale della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni. Stando ai risultati dell’indagine, pure questa racchiusa nel già citato Rapporto sulla coesione sociale, l’Italia è all’ultimo posto dei paesi OCSE. Per quanto riguarda le capacità di lettura, infatti, l’Italia è il paese con la più alta percentuale di persone (5,5%) al di sotto del livello 1, cioè della soglia minima di comprensione di un testo elementare, su un totale di 5 livelli, a fronte della media OCSE del 3,3%; ed è anche il paese con la più alta percentuale nei due livelli più bassi, vale a dire il primo (22,2%) e il secondo (42%), laddove la media OCSE si attesta rispettivamente al 12,2% e al 33,3%. Ciò vuol dire che statisticamente il 69,7% degli italiani non è in grado di leggere e comprendere interamente un testo elementare composto per lo più di proposizioni semplici e al massimo coordinate tra loro. Per quanto attiene alle competenze numeriche, vale a dire al cosiddetto “far di conto”, l’Italia vanta anche qui il primato nei livelli più bassi, non solo al livello 1, che rappresenta il 23,7% della popolazione considerata, rispetto alla media OCSE del 13,7%, ma anche al di sotto del primo livello, con un 8% che è quasi il doppio della media OCSE del 4,7%.
E tutto questo perché? Per due ragioni essenzialmente. La prima, gravissima anche se ci scagiona un po’, dipende naturalmente dalla fortissima riduzione degli investimenti nella pubblica istruzione, per la quale, dal 2001 a oggi, sono stati tagliati, secondo una media tra le diverse stime del Ministero, dei sindacati e delle associazioni degli insegnanti, all’incirca 17 miliardi di euro. Una vera e propria espoliazione a causa della quale è come se la scuola italiana fosse mantenuta in vita artificialmente, in attesa di staccare le macchine.
La seconda ragione, però, ci chiama in causa tutti. L’indagine ISTAT su La produzione e la lettura di libri in Italia (http://www.istat.it/it/archivio/108662), relativa al biennio 2012-13, mostra che, nel corso dell’ultimo anno, sul totale della popolazione italiana di età superiore ai 6 anni, il 57% non ha letto nemmeno un libro mentre il 43% dichiara di averne letto almeno per ragioni non strettamente scolastiche o professionali, il 3% in meno rispetto all’anno precedente. Di questi, il 20% ha letto tra 1 e 3 libri, il 10,5% tra 4 e 6, il 6,5% tra 7 e 11, il 6% almeno 12. Nell’ultimo anno, poi, ha letto almeno un libro il 77,1% dei laureati, il 53% dei diplomati, il 33,3% di coloro che hanno la licenza media e il 27% di quanti hanno la licenza elementare.
Dal punto di vista della classe sociale di appartenenza, tenuto conto del totale della popolazione italiana di età superiore ai 15 anni, nel corso dell’ultimo anno ha letto almeno un libro il 49% degli occupati. Tra questi: il 61,1% dei dirigenti, degli imprenditori e dei liberi professionisti; il 65,3% dei direttivi, dei quadri e degli impiegati; il 30% di operai e apprendisti; il 39% dei lavoratori in proprio e dei coadiuvanti; il 36,7% di coloro che sono in cerca di nuova occupazione; il 35,7% di quelli che sono in cerca di prima occupazione; il 32% delle casalinghe; il 59,8% degli studenti; il 33,8% dei ritirati dal lavoro; il 22,4% di quanti si trovano in un’altra condizione.
Questi dati acquistano ancor più valore alla luce del fatto che, come sottolinea l’indagine, «la propensione alla lettura dipende dalla scuola, ma anche dall’ambiente familiare». Il dato sul numero di libri posseduti dalle famiglie italiane, infatti, ci permette di apprezzare la proporzione dell’arretratezza culturale che abbiamo richiamato in più punti: il 10,3% delle famiglie non possiede nemmeno un libro. Tra le altre: il 18,6% possiede tra 26 e 50 libri, il 16,5% da 51 a 100, il 15,1% da 1 a 10, il 13,8% da 11 a 25, l’11,7% da 101 a 200, il 7,2% da 201 a 400, il 6,2% oltre 400. Ciò vuol dire che il 47,5% delle famiglie italiane, quasi la metà dunque, possiede meno di 50 libri. Il che incide notevolmente sulla propensione alla lettura dei bambini e degli adolescenti: «leggono libri il 75% dei ragazzi tra i 6 e i 14 anni con entrambi i genitori lettori, contro il 35,4% di quelli con genitori che non leggono». Se osserviamo la situazione dal punto di vista geografico, scopriamo che al Nord-ovest il 6,2% delle famiglie non possiede nemmeno un libro, al Nord-est il 6,1%, al Centro l’8,8%, al Sud il 18,3%, alle Isole il 15,8%.
Per carità di patria, sorvoliamo sui dati relativi alla qualità culturale della vita degli italiani, come per esempio quelli che riguardano i livelli di finanziamento delle biblioteche pubbliche, la diffusione delle sale di lettura nei quartieri delle nostre città e nei paesi più piccoli, la frequentazione dei musei, quella dei teatri, lirici e di prosa, e i fondi stanziati per questi ultimi, come anche quelli destinati all’attività delle orchestre, delle accademie musicali e dei conservatori, e altre voci importanti della cultura nazionale. Sono questi i problemi più urgenti e d’interesse collettivo ai quali noi tutti dovremmo interessarci per proporre delle soluzioni che non si limitino a tamponare l’emorragia ma puntino a rivitalizzare l’intero sistema. La storia mostra che quando uno Stato investe massicciamente e intelligentemente nella cultura, nelle scienze e nei saperi, è il tenore di vita complessivo della popolazione che migliora, compresa la conoscenza più matura e profonda della propria lingua.
5. Concludiamo questa parte con una pillola di storia della lingua italiana. Del Vecchio, infatti, sentenzia: «“La seconda morte della Patria” cominciò quando gli italiani si arresero alla americanizzazione degli stili di vita in politica, economia, cultura, lingua e diritto». Matauitatau, però, ritorna sulla «disastrosa decadenza della lingua italiana» puntualizzando «che non è cominciata con la predominanza degli anglosassoni, ovviamente». Se Del Vecchio, almeno per quel che concerne la lingua, ha torto, e sappiamo ormai bene perché, Matauitatau invece si spinge troppo oltre. Perché? Ma è semplice: come si può sostenere che la lingua italiana abbia iniziato a decadere ben prima che fosse dominata dall’inglese, cioè prima del 1945-48, vale a dire dell’inizio della guerra fredda, se prima l’italiano non era nemmeno la lingua più parlata dagli italiani? Cerco di spiegarmi.
Nel 1861, all’unificazione dell’Italia sotto l’egida dei Savoia, come ha scritto De Mauro nell’ancora oggi insuperata Storia linguistica dell’Italia unita (1963), uno dei libri più importanti dell’intero panorama culturale del secondo Novecento, di quelli che non si può non conoscere, «Il primato dell’italiano era già allora un dato certo e sicuro, ma soltanto sul piano culturale e politico, non sull’effettivo piano linguistico» [SLIU: 14], il che faceva dell’italiano «una lingua celebrata ma non usata e, per dir così, straniera in patria» [SLIU: 14]. Infatti, sulla base dei calcoli effettuati da De Mauro, «negli anni dell’unificazione nazionale, gli italofoni, lungi dal rappresentare la totalità dei cittadini italiani, erano poco più di seicentomila su una popolazione che aveva superato i 25 milioni di individui: a mala pena, dunque, il 2,5% della popolazione» [SLIU: 43]. Se anche non si volesse prendere per buona la stima pur molto convicente e per certi versi inoppugnabile di De Mauro e si volesse piuttosto sposare la posizione di Arrigo Castellani, il quale ha svolto gli stessi calcoli contando tra gli italofoni anche la popolazione delle Marche, dell’Umbria e del Lazio alfabetizzata a livello elementare nonché la quasi interezza della popolazione della Toscana indipendentemente dal livello d’istruzione, sostenendo con ciò la forte identità tra l’italiano e il toscano parlato, il risultato finale non va oltre il 10% della popolazione italiana. Ciò significa che all’unità d’Italia, almeno il 90% della popolazione non conosceva né parlava la lingua italiana, il cui prestigio derivava dall’essere una lingua d’elezione, ma si esprimeva in uno degli oltre venti gruppi dialettali parlati allora e nei decenni a seguire in Italia.
Non solo: stando ai dati del censimento del 1951, cioè nell’immediato dopoguerra, sul totale della popolazione italiana che allora contava poco più di 42 milioni di abitanti, il 46,3% era parzialmente scolarizzato ma senza titolo di studio, il 30,6% aveva la licenza elementare, il 12,9% era analfabeta, il 5,9% aveva conseguito la licenza media, il 3,3% il diploma e l’1% la laurea. Mettendo assieme gli analfabeti e i senza titolo, ne deriva che, ancora sessant’anni fa, il 59,2% degli italiani non parlava affatto o parlava assai poco e assai male l’italiano. Il che spiegherebbe come mai secondo un sondaggio condotto nelle zone rurali e meno sviluppate del Paese, alla diffusione dei primi programmi televisivi nel 1954, una buona parte degli intervistati, interpellati su quale fosse la lingua che proveniva da quel mostro strano che era la televisione, rispondeva che si trattava dello spagnolo.
Perciò, sostenere che la decadenza della nostra lingua sarebbe cominciata ben prima dell’egemonia dell’inglese per mano di non si sa bene chi, è due volte sbagliato, anzi profondamente sbagliato. E questo è un fatto, non un’opinione. Un fatto che costituisce un’ovvietà presso l’intera comunità degli storici della lingua ma anche fra gli studenti di un qualsiasi corso di linguistica o di storia della lingua italiana.
Italiano vs. inglese secondo Matauitatau: un duello fallico
6. E veniamo finalmente alle domande che Matauitatau pone rispetto al confronto tra l’italiano e l’inglese. Sono domande interessanti perché rimandano a una concezione fallica dei rapporti tra le lingue, la quale, a uno sguardo più attento, non è che una riproposizione di quel purismo dogmatico che non ha niente a che vedere con la storia delle lingue e con gli usi linguistici concreti. Scrive infatti Matauitatau: «Nel frattempo le chiedo cortesemente di spiegarmi come mai l’italiano ha molti meno vocaboli dell’inglese; l’inglese sente il bisogno di creare vocaboli per ogni concetto mentre l’italiano no: lei ha una spiegazione per questo interessantissimo fenomeno? Io sì e credo che una lingua che sia letteralmente “in imbarazzo” nel creare nuove parole sia, come ho detto, in un disastroso stato di decadenza».
Vero, l’Oxford English Dictionary registra circa 500000 lemmi, il doppio rispetto ai 250000 del Gradit. Ma questo non spiega nulla perché anche il nostro Matauitatau dovrebbe aver capito a questo punto che le lingue non sono vetrine d’esposizione delle parole in cui vince chi ne ha di più, le lingue sono sistemi storico-sociali di segni radicalmente arbitrari di cui abbiamo bisogno, dannatamente e meravigliosamente bisogno, per poter vivere, per poter svolgere le nostre azioni più quotidiane e ripetitive come anche quelle più solenni. Non conta dunque quante parole ci sono in una lingua ma quante se ne usano, come e perché. Da questo punto di vista, la stratificazione del lessico italiano secondo l’uso, che abbiamo descritto al punto 1, vale anche per le altre lingue, per cui anche in inglese troviamo poche migliaia di parole che coprono la stragrande maggioranza dei testi scritti e dei discorsi parlati. Il fatto che l’inglese disponga di 500000 lemmi non significa, come sappiamo ormai fin troppo bene, che gli inglesi conoscano tutte le 500000 parole cristallizzate nel loro maggior dizionario, e meno che mai che le usino tutte. Il che vale per gli italiani e per tutti gli altri parlanti delle oltre 7000 lingue attualmente censite da Ethnologue (http://www.ethnologue.com/).
Quanto poi al fatto che l’inglese, contrariamente all’italiano, senta il “bisogno” «di creare vocaboli per ogni concetto», si tratta piuttosto di un’allucinazione di Matauitatau smentita da quanto abbiamo detto ai punti 1, 2 e 3. L’inglese, infatti, esattamente come tutte le altre lingue, ha un sistema linguistico estremamente conservativo ma aperto all’innovazione, che è sempre lenta e progressiva. L’idea per cui una lingua dovrebbe funzionare come una grande industria fordista che sforna centinaia di parole nuove ogni anno e che risponda alla legge generale della domanda e dell’offerta, semplicemente non sussiste. Le ragioni di tale «immutabilità» ce la ha spiegate Saussure, perciò invito Matauitatau a rileggere attentamente il punto 3. Dunque, l’italiano non è per niente «in imbarazzo» e il «disastroso stato di decadenza» che Matauitatau denuncia non è, come abbiamo visto sia al punto 1 che analizzando un campione scritto di Matauitatau, la condizione in cui versa la lingua scritta e parlata quotidianamente dagli italiani ma la condizione culturale, e aggiungerei anche etica e morale, di gran parte del ceto intellettuale, delle classi medio-elevate e della classe dirigente del nostro Paese. L’italiano, invece, come abbiamo appurato al punto 3 osservandone la stratificazione diacronica nel corso dei secoli fino ai giorni nostri, è molto più forte e sta molto meglio di quanto generalmente non si creda.
7. Ma Matauitatau non demorde e ritiene che gli italiani, a causa della cultura accademica tutta intenta a «impedire l’evoluzione spontanea delle forme linguistiche», abbiano perso la capacità di plasmare la propria lingua «ridicolmente ingessata», a differenza degli inglesi, che avrebbero il vantaggio di una lingua «in continuo work in progress».
Spiace ripetersi ma quel che abbiamo imparato al punto 1, dati alla mano, sulla stratificazione statistica degli usi linguistici del lessico italiano smonta completamente quella che, ancora una volta, è una forma di paranoia linguistico-complottista che compromette i nervi e la capacità di giudizio di chi ne è afflitto. Non solo, chi ne soffre dovrebbe rallegrarsi di quanto abbiamo appreso al punto 3, perché grazie a Saussure e ai contributi di Ascoli, Gramsci, De Mauro e altri ancora, sappiamo che così come nessuna classe dirigente, nessun circolo intellettuale, nessuna congrega di puristi hanno mai potuto né potranno mai imporre artificilamente una lingua costruita a tavolino o modificare gli usi linguistici correnti, così nessuna cerchia accademica ha mai davvero determinato né determinerà mai il farsi, il diffondersi, il conservarsi e allo stesso tempo l’evolversi di nessuna lingua, giacché le lingue rispondono solo a due grandi forze motrici: la massa parlante tutta, nessuno escluso, e il tempo. E questo è un fatto, non un’opinione.
Noi tutti però preghiamo la Madonna Nera di Częstochowa, e io personalmente prometto di recarmi in pellegrinaggio al santuario di Villalago del mio caro patrono san Domenico, affinché Matauitatau desista e non ci costringa a una singolar tenzone tra l’italiano e l’inglese. In tal caso, saremmo obbligati, naturalmente per legittima difesa, a traumatizzarlo perché gli mostreremmo quel che De Mauro ben riassume proprio a proposito della composizione lessicale dell’inglese (De Mauro 2005: 127), di cui Matauitatau sembra adorare le doti taumaturgiche. Sul totale dei lemmi registrati nel New Shorter Oxford English Dictionary, infatti, il 10% è costituito da parole che appartengono al fondo linguistico patrimoniale dell’inglese, mentre solo il 13,5% risale alle fonti endogene che abbiamo descritto al punto 2; il restante 76,5%, vale a dire più di tre quarti del lessico inglese, deriva da fonti esogene, cioè da parole prese in prestito dalle altre lingue e più o meno adattate alla fonologia e alla morfologia inglesi. Ma il meglio deve ancora venire: tra questo 76,5% di fonti esogene, il 42% risale al francese, il 25% al latino, il 4% allo spagnolo, il 4%, udite udite!, all’italiano e il restante 1,5% alle altre lingue. Il che fa dell’inglese «la più latinizzata e romanizzata delle lingue non neolatine». Non solo: ai fini del duello fallico tra l’italiano e l’inglese, il 4% di parole che il lessico inglese nel corso della sua storia ha preso in prestito dall’italiano è quasi il doppio del 2,2% di parole che il lessico italiano ha preso in prestito dall’inglese, cosa che ci costringe a decretare una maggiore italianizzazione dell’inglese di quanto l’italiano non sia anglicizzato. Nessun britannico, però, vuoi per orgoglio vuoi per attitudine imperiale, diametralmente opposta a quella provinciale delle nostre classi medio-alte e del nostro ceto intellettuale, ha mai sentito il bisogno, che io sappia, di condurre, né oggi né nei secoli passati, una crociata contro l’infliltrazione dell’italiano nel lessico inglese.
Il purismo, questo piccolo Priapo in tuta mimetica e in perenne défaillance, che tanto impreca contro le tre pecore nere truccate di tutto punto per mimetizzarsi nel gregge e che, in preda a uno degli inganni della sempre in agguato Giunone, finisce per subire il fascino delle pecore nere giacendo con loro, ricorda vagamente il surrealismo dell’opera cinematografica del maestro Bruno Bonomo, di cui non possiamo dimenticare lavori ancora oggi inesplorati che vanno dall’avveneristico Maciste contro Freud a Stivaloni porcelloni, da Mocassini assassini all’avanguardistico Violenza a Cosenza, fino al capolavoro indiscusso Cataratte (http://www.youtube.com/watch?v=7QX90cX-31Y).
L’italiano secondo Matauitatau: una lingua handicappata
8. Rispondo rapidamente alle altre questioni sollevate qua e là da Matauitatau circa quelli che lui definisce i «grossissimi problemi della nostra lingua», quando non addirittura i suoi «handicap».
Al monito sulla necessità d’imparare «a plasmare la nostra lingua» per non lasciare «il campo sguarnito alle invasioni straniere» possiamo rispondere rimandando ancora una volta ai punti 1, 2 e 3: Matauitatau può stare tranquillo, l’italiano, come tutte le altre lingue scritte e parlate in questo momento, continua a plasmarsi, anche se impercettibilmente. A proposito del problema della «scarsità di vocaboli», non crediamo di dover aggiungere altro a quanto abbiamo già detto diffusamente; in merito al “dramma” della «lunghezza eccessiva delle parole» italiane, rispondiamo che si tratta di un falso problema, dal momento che esistono lingue le cui parole sono composte da un numero medio di sillabe molto maggiore e per le quali nessuno si sognerebbe di sostenere che sono in pericolo di estinzione o in corso di decadenza: è il caso, per esempio, di lingue germaniche come il tedesco, lo svedese o l’islandese.
Un «handicap terribile» della nostra lingua sarebbe poi dovuto alla vocale in fine di parola, altro punto sul quale Matauitatau si espone al ridicolo quando scrive: «Avrà notato però che i poeti antichi erano costretti a elidere l’ultima vocale per far quadrare i versi… c’è tanto da dire se si riesce, poco accademicamente, a cambiare il punto di vista senza restare sullo stantio libresco». Che dire? C’è sempre un moto d’animo profondamente contraddittorio nei puristi, che anzi risultano i detrattori più accaniti della propria lingua: come si fa a rimproverare all’accademia, tenacemente ancorata allo «stantio libresco», di non avvertire il dramma delle vocali in finale di parola adducendo come prova i versi dei «poeti antichi», con una motivazione, cioè, che più letteraria e accademica non si può? Insomma, Matauitatau non ce ne voglia ma anche in questo caso non possiamo astenerci dal guardarlo con un misto d’incredulità e di rassegnazione. Diciamo però brevemente che tutte le lingue romanze sono caratterizzate da una presenza maggioritaria di parole che terminano con sillabe aperte ma non ci sembra che i francesi, gli spagnoli, i portoghesi, i rumeni, i ladini o i sardi si stiano strappando i capelli perché questo impedisce loro di parlare o di scrivere. Inoltre, anche il nostro Matauitatau dovrebbe ormai aver compreso che le lingue non sono fatte solo per i poeti e che non possiamo considerarle handicappate solo perché sembrerebbero non prestarsi alla versificazione; le lingue, lo ripetiamo ancora una volta, sono fatte dalla masse parlante nel corso del tempo; sono parlate da tutti e per tutti; lo stesso può dirsi dello scritto, ma solo da quando sono state promosse l’alfabetizzazione e la scolarizzazione di massa. Col riferimento ai «poeti antichi», poi, Matauitatau si dà due volte la zappa sui piedi: primo perché per «poeti antichi» s’intendono generalmente i poeti latini non certo quelli volgari, cioè coloro che dal Duecento in poi cominciarono a comporre in toscano; secondo perché, anche ammesso che si stia parlando dei poeti in lingua italiana, ci chiediamo se Matauitatau abbia mai almeno sfogliato le Rime di Cavalcanti, la Commedia di Dante, il Canzoniere di Petrarca, la Gerusalemme liberata di Tasso piuttosto che l’Orlando furioso di Ariosto: dia un po’ un’occhiata alle rime di quei versi, noterà che al 99,9% finiscono per vocale e che questo non è d’ostacolo alla loro bellezza, tutt’altro.
Infine, Matauitatau sostiene che «una lingua “viva” è capace di proporre vocaboli nuovi che siano funzionali e niente lo è di più delle parole onomatopeiche». Ora, posto che la vitalità di una lingua non dipende solo e in massima parte dalla capacità di coniare nuove parole, come sappiamo ormai fin troppo bene alla luce del punto 2 e delle riflessioni condotte sulla scia di Wittgenstein e Saussure, l’idea per cui tutto dipenda da quante onomatopee una lingua sia in grado di formare è semplicemente bislacca. Le onomatopee, sulle quali ho avuto modo di lavorare abbastanza in sede di analisi fonetica e prosodica prima ancora che lessicale, costituiscono uno dei diversi processi di formazione endogena del lessico di una lingua ma si tratta, come abbiamo visto al punto 2, di uno degli apporti più irregolari e statisticamente marginali, per quanto estremamente interessanti.
A guisa di conclusione
Per concludere, permettete che ringrazi quanti hanno avuto la bontà di leggere queste riflessioni come pure coloro che hanno partecipato in queste settimane a vario titolo al dibattito sulla questione della lingua. È stata un’utile occasione, almeno per me, per riprendere vecchi appunti di alcuni dei corsi più belli dei miei anni universitari e per rispolverare alcuni grandi libri sui quali mi sono formato come linguista e che da tempo avevo messo in programma di ripassare senza però trovarne l’occasione. È stato un bel modo di distrarsi in maniera costruttiva, che poi è il miglior modo per imparare. Perciò ringrazio tutti, nessuno escluso, anche quelli coi quali sono in assoluto disaccordo.
Spero che questo articolo contribuisca a illuminare con metodo e argomenti scientifici un dibattito che altrimenti corre il rischio d’impantanarsi in uno sterile confronto di opinioni incapace di elaborare una sintesi che comprenda bene il valore e le dimensioni della questione in gioco. Sarebbe un peccato che l’ARS s’irrigidisca su posizioni infondate e prive di consistenza che erano già tali un secolo fa. Invito pertanto i militanti e i simpatizzanti, e chiunque sia in qualche modo interessato a questo dibattito, a non cedere ai discorsi strampalati e agli anatemi apocalittici, ma a rimboccarsi le maniche, a studiare e approfondire temi e problemi sui quali sono state scritte e dette molte parole importanti. Concludo pertanto ripetendo, anche a me stesso, il monito di Gramsci, che oggi più di ieri mantiene tutto il suo valore: «Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza».
D.D.R.
Caro Domenico,
leggere il tuo articolo mi ha sottratto un sacco di tempo alla correzione della bozza del mio articolo che uscirà tra due giorni con tema Welfare e Terzo Settore. Non ho potuto sottrarmi alla lunga lettura perche reputo l'argomento molto interessante e intendo prenderlo e analizzarlo da punti di vista di chi, come te, ha speso molto tempo nello studio. Devo farti una domanda che resta sul tema, qualche anno fa mi capitò un articolo di giornale ( perdonami se ora non ricordo più quale ) dove veniva illustrato uno studio di settore che metteva in luce un dato agghiacciante: nel giro di 20 anni a partire dalla metà degli anni 80, i giovani studenti delle scuole superiori italiane avevano "perso" l'uso di circa 600 parole del nostro vocabolario.
Detta così, perdona se non sono più accurato nei dettagli, questa notizia darebbe manforte all'idea che la nostra lingua stia lentamente morendo anche se condivido l'idea che invece la nostra lingua invece stia mutando lentamente.
Tu che appunto studi e fai ricerca puoi confermarmi questo dato oppure è una delle solite ricerche strampalate ?
Ti ringrazio per il contributo
Aaron
Ringrazio Domenico dello splendido articolo e condivido in pieno la sua analisi: il problema non è la nostra lingua ovviamente ma "Il problema risiede nel carattere arretrato e provinciale delle classi italiane medio-elevate e nella mancanza di una classe dirigente nazionale colta e aperta che s’impegni sinceramente in un’opera di sostegno incondizionato e di investimenti continui e crescenti a favore del sistema dell’istruzione pubblica, della cultura, della conservazione del patrimonio artistico e della ricerca nelle scienze e nei saperi".
Più modestamente avevo notato la stessa cosa in occasione della decisione, provinciale appunto, del Politecnico di Milano di far svolgere in inglese tutte le lezioni di tutti i corsi delle lauree magistrali… http://www.lospaziodellapolitica.com/2013/06/vietare-litaliano-non-fa-bene-al-politecnico/
Molto bello . Ho imparato tante cose che non conoscevo . Grazie
La cosa sorprendente è che mi hai oreso per un purista della lingua italiana.
Capisci bene che se non hai caoito che non c’entro niente con un purista non hai caoito niente della mia posizione in generale.
Incidentalmente ho fatto un post sull’Accademia Fiorentina e i Salterelli dell’Abbrucia ma quello curiosamente non lo hai letto; se lo avessi fatto avresti (forse) capito cosa intendevo quando dicevo che la decadenza della lingua è cominciata prima della supremazia degli anglosassoni.
Tanto per dire hai letto come una contraddizione il fatto che io abbia usato i termini post, thread e work in progress il che, se ci riflettessi un secondo o magari due, dovrebbe farti venire dei dubbi sulla tua interpretazione del mio punto di vista.
La cosa sorprendente è che vieni a scrivere che non è la lingua italiana a versare in uno stato disastroso ma casomai la classe intellettuale e quella dirigente; non rendentotene conto hai fatto mezzo passettino nella direzione che ti avevo indicato.
Avevo cercato di aiutarti facendotene fare un altro paio in piú ma hai preferito difendere il tuo punto di vista
Piuttosto che interessarti alla possibilità che ne esistano altri diversi dal tuo, non in competizione col tuo.
D’altronde la difesa del proprio territorio può essere una questione vitale ed è già tanto che tu per marcarlo
ti sia limitato a spargere parole.
Fidati, se rileggi quello che ho scritto e quello che tu hai capito della mia trascurabilissima opinione ti accorgerai che stavo parlando d’altro; tanto per dire, e chiudo, considererei molto positivo il fatto di prendere parole inglesi e di storpiarle per formare neologismi italiani, cosa che succede in qualche modo nelle lingue iberiche in America Latina.
Non mi interessa minimamente la difesa della vecchia lingua (al contrario di quello che mistriosamente hai capito tu) e mi auspico piuttosto una rinnovata capacità di giocare con le parole a partire dal basso, dalla cultura popolare, da tutte le subculture in generale.
Ma io con queste cose non ci devo mangiare, tu sí e quindi è ovvio che tu ti metta sulla difensiva.
Cara Tania,
grazie a te.
Caro Aaron,
è difficile commentare un articolo che non si è letto. Così, a naso, per esperienza, mi sembra una delle solite uscite un po' strampalate tanto strombazzate dai grandi mezzi di comunicazione. Se riuscissi a ritrovare l'articolo, potrei esprimere un giudizio più serio.
Ciao
Domenico
Caro Matauitatau,
lei sosteneva delle tesi e poneva delle domande alle quali credo di aver risposto con metodo, dati e argomenti più che sufficienti. Non a caso, nel suo commento ha sorvolato su tutte le mie confutazioni, e bene ha fatto.
Chiunque legga attentamente ciò che lei ha scritto noterebbe una vena purista, la quale però, e qui ha ragione, non esaurisce la sua posizione. Ad ogni modo, a ogni sua tesi ho cercato di rispondere puntualmente offrendo le idee e le intuizioni dei più grandi linguisti che abbiamo avuto fin qui.
Quanto alla sua allusione neanche troppo velata al fatto che io stia difendendo le posizioni dell'accademia, e nella fattispecie la mia rendita di posizione, sappia che sono un precario lontano anni luce dall'essere strutturato, non ho nulla della spocchia accademica, che invece ho avuto la sventura di subire almeno in un paio di occasioni che magari un giorno le racconterò. Inoltre, tra gli studiosi che ho citato, compaiono non accademici, come Gramsci, e due gemme rare, come Saussure e Wittgenstein, i quali, anche se inseriti nell'accademia, non erano certo dei baroni ma anzi dei professori piuttosto sui generis.
Insomma, lei mi aveva rimproverato di non sostenere con prove e argomenti gli ammonimenti che avevo lanciato nei commenti all'articolo di Del Vecchio. Nel mio articolo l'ho fatto. Non mi pare serio dire che io mi sia trincerato nella difesa di ciò con cui mangio, anche perché, al momento, non percepisco un euro da nessuna università.
Saluti
Domenico
A) lei è riuscito a capire che sono un purista accanito nonostante io abbia detto tutt’altro. Primo punto e ci rifletta su.
B) uso termini stranieri quando scrivo e lei è riuscito a dedurne che cadevo in contraddizione con il mio purismo linguistico. Non è che le è venuto il dubbio che questo purismo da parte mia non esiste; no, ne ha dedotto che ero contraddittorio io. C’è un termine tecnico per quelli che considerano realtà di fatto le loro personali interpretazioni.
C) lei è perdutamente libresco e lo è per compensare a un deficit ermeneutico abbastanza pronunciato (proprio quello che le ha fatto intendere la mia posizione all’esatto contrario)
D) non solo. Lei se ne è uscito allegramente dicendo che non è la lingua a essere disastrata ma lo stato morale e etico degli intellettuali e della classe dirigente. La cosa buffa è che il mio discorso era esclusivamente su questo con delle conclusioni che vanno molto ma molto al di là di quella sua timida conclusione ma lei non ha visto nemmeno quello.
Per di più ho fatto tutto un post sull’Accademia Fiorentina, la polemica Annibal Caro, Bronzino versus Lodovico Castelvetro che si conclude non a caso con l’intervento indiretto di Cosimo I ma quello lei non l’ha letto, guarda un po’.
Se a questo punto io le facessi notare analogicamente che il percorso dell’attitudine verso la lingua popolare dei primi sostenitori del volgare segue precisamente quello di Firenze nel suo passaggio da Repubblica a Granducato, e ancora più sottilmente quello della famiglia De’Medici da ricchi e potenti banchieri borghesi a ricchi e impotenti granduchi in qualche modo segnando un destino per le future modalità di manipolazione della lingua italiana, lei fraintenderebbe a priori e si esibirebbe in una lunghissima e poco sostanziosa litania di citazioni che ovviamente non hanno alcuna attinenza col problema che ho sollevato.
Io ho detto alcune cose alle quali lei NON deve essere per forza interessato; se però vuole dialogare con me è necessariamente costretto a interessarsene se vuole risoondere sul merito.
Se poi deve parlare da solo o con i suoi aficionados (parola spagnola…strano per un purista…) non so che gusto ci prova ma faccia pure.
Ave atque vale (latino…endogeno?…ma no…esogeno…o forse no…mah…).
Caro Matauitatau,
nei suoi commenti lei toccava due punti fondamentali: 1) il fatto che l'inglese abbia molte più parole dell'italiano; 2) l'idea che gli italiani abbiano perso la capacità di plasmare la propria lingua.
Non solo, poneva anche alcune questioni: a) il rischio dell'invasione delle parole straniere; b) il "problema" della scarsità lessicale dell'italiano; c) il "problema" della lunghezza eccessiva delle nostre parole; d) l'handicap della vocale in finale di parola; e) l'idea che la vitalità di una lingua si misuri dalla sua capacità di produrre onomatopee.
A questi punti e questioni, che peraltro si era limitato a proclamare senza dimostrare alcunché, ho risposto prendendomi tutto lo spazio di cui avevo bisogno e offrendo quel poco di professionalità che ho. Ho confutato passo dopo passo tutti i suoi punti e le sue questioni portando dati, analisi e argomenti, all'insegna di un metodo.
Ora, lei non vede o non vuol vedere le mie risposte e si aggrappa ad altro, cercando di metterla sul personale. O forse, più semplicemente, elude le mie risposte perché non ha elementi da opporre alle mie argomentazioni.
Dovrebbe apprezzare il fatto che abbia dedicato tanto spazio e un po' di tempo a delle grossolanerie sparate senza rifletterci su. Dovrebbe apprezzare il fatto che il mio articolo non ha nulla di libresco ma si rifà al meglio della linguistica mondiale, perché Saussure è l'apice della storia delle idee linguistiche, e a seguire Wittegenstein e tutti gli altri.
Lei però glissa e non entra mai nel merito delle analisi linguistiche che le ho proposto e si rifugia in ciò che ha scritto in uno dei suoi commenti a uno dei tanti articoli qui pubblicati e che non ho avuto modo di leggere.
Quand'è così, io con lei non perderò un minuto di più. Quel che penso, benché non sia uno storico dello lingua e il mio campo di ricerche sia un altro, l'ho già scritto ma, a parte le righe nelle quali l'ho assimilata ai puristi, lei sembra ignorarlo, perciò non credo di doverle rispondere o aggiungere altro. Di carne al fuoco ne avevo messa tanta ma, se lei è vegetariano, alzo le mani.
Saluti
D.D.R.
Ma lascia perdere Domenico.
Non hai idea di cosa parli e basterebbe citare il problema della vocale finale che costituisce un problemaccio per tutti i parolieri di canzoni come solo tu non sai (chiunque abbia letto un minimo di poesia italiana -inclusi i lbretti d’opera – sa che l’ultima vocale viene spesso elisa. E sa l’estremo bisogno che avevano i vari poeti o librettisti di parole tronche che abbondano in francese e che sono la regola nell’inglese monosillabico).
Ma si può stare a perdere tempo con uno che continua a tirar fuori DeSaussure senza citare Lacan e Deleuze.
Temo che cosí raterai precario tanto tempo.
Saluti e svegliatevi un po’ che su ARS siete di un rigido da far ridere.
Caro Matauitatau,
a questa sua sciocchezza sulla vocale in finale di parola ho risposto nel mio articolo, risposta che lei continua a ignorare.
Ma ora capisco perché. Se lei pensa che per fare linguistica siano imprescindibili Lacan e Deleuze, allora non sa di cosa sta parlando. Chiunque abbia una qualche familiarità con l'analisi dei fatti linguistici, che lei evidentemente non ha, sa bene che cosa abbia significato, significhi e per certi versi dovrà ancora significare Saussure.
Il suo è l'atteggiamento di chi spara a zero contro una disciplina senza averla prima neanche studiata. Un atteggiamento ancor più irrispettoso nei confronti di coloro che tanto ci hanno dato e grazie ai quali sappiamo qualcosa di più, e che lei invece si ostina a derubricare come espressioni di un'accademia di cui evidentemente parla per sentito dire.
Pertanto la diffido dal rispondere ultreriormente a questo articolo e ai miei prossimi, a meno che lei non voglia uscire dall'anonimato dietro il quale pontifica e distrugge. E visto il modo in cui irride l'ARS, peraltro per delle idee che ho esposto io non l'ARS nel suo insieme, mi auguro che lei frequenti sempre meno Appello al Popolo.
In attesa dei suoi imminenti lavori d'importanza capitale per le sorti della linguistica, di fronte ai quali Saussure, Bally, Benveniste e Culioli sfigureranno, le rinnovo i miei saluti.
D.D.R.
Mi associo alla richiesta di Domenico.
Non abbiamo bisogno di persone che si dilettino a dare consigli e limitino ai consigli e agli insegnamenti il loro apporto alle discussioni. Dopo aver dato 10 consigli, una persona è moralmente e per costume obbligata a proporre 10 domande a ad esternare 10 apprezzamenti. Altrimenti questa persona è chiaramente un presuntuoso, quando non un narciso, in ogni caso un maleducato e comunque uno squilibrato.
Aggiungo che il nuovismo imperversa da almeno 20 anni e non ha portato nessun risultato positivo in uno o altro campo. Essere nuovisti oggi vuol dire soltanto difendere il proprio passato costellato da errori e limiti.
Purtroppo l'articolo online non si trova, credo a questo punto anchio che sia stata una uscita strampalata di qualche giornalista.
Un ottimo articolo pieno di informazioni preziose. Dovrò per forza leggermi qualcuno dei libri citati, almeno quelli di Di Mauro. Grazie.