Organizzazione e centralismo democratico
Viviamo in un momento storico in cui la retorica democratica si fa sempre più pressante e solcata da venature propagandistiche, proprio perché in concomitanza con un restringimento drammatico degli spazi di partecipazione e di controllo democratico. D’altra parte, quando si schiavizza qualcuno non glielo si può certo dire in faccia, ma, al contrario, gli si fa credere di renderlo libero.
Il discorso relativo alla democrazia e alla sua reale fattibilità in un mondo dominato dall’ideologia globalista tocca una molteplicità di aspetti inscritti in sfere della vita associata estremamente differenti tra loro. In questa sede, vorremmo concentrarci su un aspetto più specifico, chiedendoci quale sia il nesso tra la forma partito e i suoi meccanismi interni di funzionamento. In altre parole, quanto un’applicazione integrale del metodo democratico può davvero contribuire a migliorare la resa di un’organizzazione politica, o quanto, al contrario, può rischiare di frenarne il corretto funzionamento?
Sgomberando subito il campo da possibili equivoci, l’intento non è certo quello di affermare la non utilità della dialettica interna per un partito, ci mancherebbe, ma è quello di concentrarsi sulla fase che conduce al prodotto finale di una tale dialettica, il momento decisionale. Per cercare di rispondere a questo quesito, dobbiamo chiederci in primo luogo quale sia la reale natura dell’organizzazione e quali fini essa si prefigga di raggiungere.
Questo tema non è affatto nuovo ed è stato spesso dibattuto nell’ambito della letteratura politologica. Ora, sembra chiaro come il fine di qualsiasi organizzazione correttamente strutturata debba essere senza dubbio l’efficienza. Ne consegue che l’applicazione di un approccio “eccessivamente” democratico al suo interno potrebbe condurla allo stallo e all’immobilismo. Detto altrimenti, occorre prestare attenzione ad un punto fondamentale: il fine intrinseco dell’organizzazione non è la democrazia, ma l’efficacia.
Lo stesso Giovanni Sartori ha ribadito nei suoi studi la necessità di separare i due piani differenti della democrazia nei partiti e della democrazia interpartitica. Seguendo tale logica, relativamente al primo dei due piani in questione, la strutturazione verticale di un partito non deve destare preoccupazione se il suo vertice è costituito da una leadership affidabile e responsabile, la quale accetta pienamente gli ideali democratici. In questo senso, il centralismo di un partito è persino auspicabile; in effetti, la centralizzazione di un’organizzazione risponde ad un’esigenza funzionale. In breve quindi, l’organizzazione presenta delle finalità funzionali, non prioritariamente democratiche. Quel che dovrebbe essere chiaro è che non si sta affatto ipotizzando una gestione autoritaria dell’organizzazione, ma una sua disciplina, presupposto essenziale per avere compattezza nell’esposizione delle sue posizioni verso l’esterno, senza distinguo che ne possano minare l’immagine e l’autorità. Occorre cogliere l’essenza del discorso, la quale ci porta ad affermare che, per poter definire un sistema come democratico, non è tanto all’interno dei partiti che dobbiamo cercare la democrazia, ma nella dialettica tra essi.
Da questo punto di vista, il ben noto concetto di centralismo democratico, marchio di fabbrica di quel moloch chiamato Partito Comunista che si dissolse poi con una rapidità disarmante, meriterebbe di essere rivalutato perché, ad essere superato, dalla Storia, fu il Partito Comunista, non il centralismo democratico medesimo.
Gli esempi dei danni causati dal “liberi tutti”, parola d’ordine che contraddistingue il modo disordinato e individualista di concepire e condurre i dibattiti all’interno dei moderni partiti, sono sotto gli occhi di tutti. Partiti divisi in fazioni, faide interne, dissidi, paralisi decisionali.
Non può essere questo il modello di un partito che aspiri con autorevolezza a rappresentare un nuovo punto di riferimento e di aggregazione civile. I cittadini hanno bisogno di ancorarsi ad un blocco di pensiero e di azione solido e univoco; si discute, anche aspramente, all’interno delle mura domestiche, si vagliano tutte le proposte e le alternative, ma poi ci si presenta all’esterno uniti e con una sola, ben comprensibile linea programmatica.
L’attuale frammentazione riscontrabile nelle formazioni politiche nostrane, minate da eserciti più o meno numerosi di dissidenti e scissionisti, è paradigmatica in tal senso. Il risultato è di veicolare l’idea di un’organizzazione divisa e litigiosa, cui fa non a caso da unico collante la figura di un leader carismatico. Ma la politica leaderistica non ha una visione a lungo termine e, generalmente, non sopravvive al leader stesso.
Un partito che non sia solo posticcio deve aspirare a forgiare un’anima comunitaria che trascenda i singoli componenti, così da poter costituire un valido polo aggregativo, un nucleo identitario che funga da porto sicuro per quanti vogliano essere rappresentati senza ambiguità. Questo è il compito che dovrebbe assumersi un partito, edificare una piattaforma chiara, presentarla con compattezza e convinzione, dirimere eventuali contrapposizioni senza urlarle all’opinione pubblica; in conclusione, costituire una salda e granitica certezza per il suo Paese.
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