Euro, Unione Europea o socialismo?
Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’ARS non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea.
L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia”, ed infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il TUB (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il TUF (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati ed intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali. Nel 1992 Carli formalizzò la separazione della banca centrale dal Tesoro e consentì il processo di costituzione della BCE, banca centrale di uno “stato che non c’è”.
Questa rivoluzione è avvenuta, ed è fondamentale ricordarlo, non a causa dell’euro, ma ancor prima per responsabilità dei trattati dell’UE: dagli anni ‘80, e poi definitivamente con Maastricht, i princìpi fondamentali delle costituzioni europee sono diventati feticci, la Costituzione Italiana è stata presa di mira poiché in contrasto coi trattati, e conseguentemente disinnescata. Questo meccanismo perpetrato di disinnesto delle sovranità nazionali ci ha condotti verso l’impossibilità giuridica di disciplinare numerose materie di interesse pubblico.
Un paese liberista, come l’UE impone ai propri membri, è per forza globalista. Un paese che viceversa pianifica la propria economia, come ci imporrebbe il dettato costituzionale, è un paese dove il popolo, la legge e lo Stato controllano, disciplinano e dirigono la res publica in modo più o meno socialista.
Una norma fondamentale contenuta nella nostra Costituzione, l’articolo 41, enuncia: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La parte più nobile del trattato costituzionale è dunque la parte che disciplina i rapporti economici: ristabilire la legalità costituzionale significa pertanto prevedere partecipazioni statali ed aiuti di Stato ad imprese in settori strategici (misura che portò la nostra industria pubblica ad essere avanguardia nel mondo). Oggi, all’interno dell’Unione Europea, tutto questo risulta essere inapplicabile.
Inoltre, per imporre di nuovo un sistema progressivo di imposizione bisognerebbe limitare la circolazione dei capitali: non esiste nessun esperienza socialista o socialdemocratica che non abbia applicato questo principio come era applicato da noi prima della distruzione economica, ma soprattutto sociale, di questo nostro intero continente.
L’unico internazionalismo (parola tanto abusata quanto ostica) accettabile è quello in cui si ha un rapporto di pace tra stati socialisti. E sovrani.
Internazionalismo puo’ anche essere il progetto di sostituire i lavoratori italiani con stranieri, tramite un’immigrazione incontrollata.
Assolutamente si. E l’immigrazione incontrollata è conseguenza dei trattati europei, conseguenza del mercato “unico ed aperto, senza frontiere”, tipicamente neoliberista, che è stato volutamente creato (aperto anche verso terzi paesi).
Attenzione, non confondere Globalizzazione con Internazionalismo.
Ottima osservazione, Mauro.
In questa sede si intende un internazionalismo così come configurato dalle elites economiche: disegno falso-pacifista e che pertanto prevede lo smantellamento degli Stati democratici.