Dall’homo sapiens all’homo reiterans
La post-modernità come epoca della fine delle ideologie. Questo cliché retorico nasconde a nostro avviso una verità differente. L’epoca che si vorrebbe depurata da tutte le vetuste ideologie novecentesche si sta in realtà potentemente delineando come l’epoca forse più ideologica della storia, pervasa da un’ideologia neutra, quasi impalpabile, sotterranea, la quale tuttavia sta penetrando in profondità nel tessuto sociale e culturale dell’umanità, generando un uomo ormai soggiacente al volere e alla meccanica della sua stessa creatura: la Tecnica.
La soggezione di fronte allo strapotere di questo moderno Leviatano è la cifra di un uomo irriconoscibile, che ha rinunciato a se stesso e che appare profondamente assorbito da dinamiche dominate da meccanismi autoregolativi e autoperpetuantesi. La post-modernità si presenta come l’epoca dell’automatizzazione dell’uomo, della sua alienazione completa, dell’abdicazione totale del suo pensiero e del suo pensare. Le conseguenze pratiche di questo mutamento, che è al tempo stesso filosofico ed antropologico, sono di notevole portata e investono evidentemente tutte le principali dimensioni che caratterizzano il vivere umano, sia esso inteso nel più ampio spettro delle relazioni sociali e comunitarie come in quello più ristretto e privato dell’ambito prettamente individuale. Lo scivolamento di status ontologico dell’uomo da creatore a suddito della propria creatura produce ripercussioni rilevanti sulla vita associata delle società contemporanee, determinando un asservimento totale della vita umana a logiche economicistiche pervase da una sorta di tecnicismo razionalistico di per sé sussistente che si sgancia dalla realtà delle cose per assurgere a unica e assiomatica verità, la quale pretende di non conformarsi più al divenire, ma, al contrario, di imbrigliare quest’ultimo entro le sue ferree ed asettiche costruzioni iper-razionalistiche.
Spostando l’attenzione dal piano più squisitamente filosofico alle sfere della politica e dell’economia, non possiamo fare a meno di notare come il crescente peso acquisito dal tecnicismo in tutte le dimensioni della vita contemporanea abbia comportato il rovesciamento decisivo del rapporto gerarchico intercorrente tra politica ed economia, con la prima divenuta ormai mera ancella della seconda. Le ricadute più visibili si hanno sulla qualità e sull’effettività del processo democratico-partecipativo, andando ad intaccare la natura stessa di quella sovranità popolare che è il fondamento di qualsiasi società che aspiri a definirsi democratica. I poteri economico-finanziari operano secondo logiche avulse dal ricorso alla trasparenza, al controllo e alla partecipazione della cittadinanza e, come si può ben comprendere, il ribaltamento gerarchico di cui sopra porta con sé l’ovvia conseguenza di una traslazione dei processi decisionali dai luoghi classici della “localizzazione della sovranità”, ossia i parlamenti, a clubs ristretti i cui membri costituiscono élites impenetrabili e operanti secondo logiche autoreferenziali. In questo senso, i parlamenti sono divenuti ormai luoghi di semplice ratifica formale di decisioni assunte altrove, venendo dunque svuotati del loro significato più autentico.
L’emblema più concreto di questo processo di tecnicizzazione della politica e di estinzione della prassi trasformativa è quello fornito dall’attuale costruzione europea, poggiante su irrazionali criteri economicistici e contabili, assurti tuttavia ad intoccabili ed irriformabili Moloch ideologici. Essa appare, senza alcun dubbio, come l’inveramento storico di quel dogma dell’irreversibilità che rischia di far pericolosamente regredire l’umanità verso un unico modello: quello dell’homo reiterans.
Prendendo in prestito un termine proprio dell’economia industriale, si potrebbe definire il nostro attuale sistema democratico come un sistema a “obsolescenza programmata”; la democrazia è garantita quanto basta per far credere alla cittadinanza di essere davvero un soggetto partecipativo, sebbene inserire una scheda in un’urna una volta ogni cinque anni appaia ben poca cosa. Ma ad essere sottoposta ad un regime di obsolescenza programmata non è solo la democrazia, bensì l’uomo stesso. Siamo di fronte ad un vero e proprio svuotamento di ogni progetto umanistico cui fa da contraltare una drammatica automatizzazione dell’umano che è l’anticamera di quella logica dell’irreversibilità che sembra costituire l’unico possibile orizzonte imposto da una sorta di finalismo storico dal quale non poter in alcun modo sfuggire e che, in ultima istanza, rappresenta l’irreversibilità stessa dell’accettazione dell’attuale strutturazione del mondo, espressione di quella religione globalista e iperliberista che ne connota in profondità l’essenza.
Tale religione detta senza mezzi termini l’agenda di una politica totalmente eterodiretta, la quale appare aver rinunciato a delineare nuove visioni della società che non siano diretta espressione di quel sostrato economicistico che informa l’azione di tutti i soggetti coinvolti nei processi decisionali. Ad esso si devono tutti quei meccanismi psicologici innervati dal potere che sono la cifra della sua possibilità scientemente pianificata di creare biopoliticamente una soggettività anestetizzata e addomesticata. Questo punto è di fondamentale importanza, in quanto il sistema si adopera nella creazione di vere e proprie procedure di controllo delle stesse formazioni discorsive che strutturano la realtà anziché rispecchiarla, mirando a disciplinare totalmente la soggettività individuale e a farle accettare quella prigione senza sbarre che è ormai divenuta la società a noi contemporanea. La rilevanza del livello psicologico è estrema perché dall’accettazione psicologica del sistema di potere ne scaturisce direttamente quella culturale. Siamo cioè di fronte ad un cambiamento di grande portata: il potere riesce subdolamente a farsi accettare, a creare consenso, a convincere della giustezza dei suoi fini e dei mezzi atti a raggiungerli, estirpando psicologicamente, ancor prima che culturalmente, ogni reale forma di resistenza al suo dominio. Il potere e la strada da esso imposta all’umanità stanno diventando, pertanto, culturalmente irreversibili.
Resta da capire quanti e quali spazi possa ancora avere la politica per ripristinare il suo ruolo e per liberarsi dalla sua riduzione a mero epifenomeno dell’economia. Nel momento più florido dell’antipolitica, occorre rendersi conto che proprio la politica può e deve essere lo strumento per poter nuovamente concepire la possibilità di pensare la libertà dal determinismo della tecnica. Solo la politica e solo attraverso essa, in definitiva, sarà possibile innescare un nuovo umanesimo grazie al quale l’uomo potrà tornare a farsi nuovamente misura di tutte le cose.
Condivido in pieno, anche se appellarsi “semplicemente” alla politica può apparire generico, se non abbiamo consapevolezza che l’economicismo che ha sottomesso la politica, ha potuto farlo anche perchè la cultura moderna ha sempre più dimenticato l’uomo. Ne ha dimenticato la sua dignità, specificità e varietà culturale. Il materialismo e lo scientismo imperanti stanno alla base di ciò che l’articolo lamenta. Ecco profilarsi una società imbalsamata culturalmente, moralmente, e in cui il controllo farmacologico e di altri tipi sarà sempre più avanzato. Materialismo e scientismo.
In America Colombo non e’ certo potuto andare per pura curiosita’ umanistica della regina.
E anche gli affreschi della Cappella Sistina sono stati commissionati come un grande manifesto di propaganda: la Chiesa aveva ed ha interessi politico-economici nel farsi propaganda come qualsiasi forza politica ed economica.
Ad ogni modo, e’ pur vero che oggi non si muove paglia se non in una direzione economico-consumistica. E’ cosi’ anche in ambito scientifico, dove la ricerca e’ sempre piu’ vincolata e tenuta in ostaggio da promesse di profitto e sbocchi applicativi, in aperta antitesi con il concetto stesso di conoscenza.
Cio’ che e’ cambiato nel mondo credo sia l’enorme aumento della potenzialita’ di condividere e di comunicare, sebbene a livelli estremamente superficiali. Tale “condivisione” globale ha reso necessario un comune denominatore, a tutti i livelli sociali. Il desiderio o interesse di tutti e’ oggi superficialmente sparso su tutti i campi, a tutti i livelli.
L’unico denominatore, inevitabilmente, e’ il denaro. Una cosa che comprendono tutti.
Ma appunto questa non credo sia la vera novita’. La novita’ e’ che tale comune denominatore ha oggi disarmato e messo in vendita gli intellettuali. Sono state cioe’ attaccate quelle nicchie della societa’ che si occupavano di segmenti specifici della vita culturale, che prima venivano salvaguardate in quanto tali, perche’ relativamente esoteriche: ricercatori, magistrati, filosofi, artisti.
Si e’ voluto condividere l’incondivisibile, dare una voce a chiunque, far partecipare ognuno alla globale cacofonia essoterica, usando (inevitabilmente) il comune denominatore. Gli intellettuali, abbandonati i salotti, sono stati messi in vetrina, con tanto di etichetta con il prezzo. I compratori? Non piu’ dotti mecenati, ma chiunque abbia un account Amazon. La parola d’ordine, l’unita’ di misura, la valuta adottata, e’: “quanto”, e non “cosa/chi”, o “come”. Quanti clicks, quanti likes, quante impressions, quanti soldi. Il risultato e’ desolante.
Le universita’ divengono “scuole” massificanti, la barbarie e l’ignoranza dilagano, gli studenti non leggono piu’ libri, l’edonismo piu’ deteriore e l’economicismo imperano, gli scontri culturali fra mondi diversi determinano atteggiamenti reazionari e retrogradi.
Caro Davide,
bisognerebbe domandarci se ciò che è scrivi è totalmente vero o è vero soltanto in una parte del mondo, l’Europa.
Infatti in Russia si è verificata nell’ultimo decennio una rinascita del senso di indipedenza, sia politica sia culturale, dal potere imperiale.
In medio oriente, al risveglio teorico dell’islamismo radicale, è seguito per errori e a causa della volontà di potenza degli Stati Uniti, un risveglio politico che, essendo estraneo alle monarchie e ai gruppi politici che detengono il potere, ha assunto la forma necessaria di “risveglio politico-militare”, il quale si è diffuso anche al di fuori del medio oriente.
In Cina abbiamo ancora un partito unico che controlla e dirige la vita economica, pur avendo da tempo ammesso l’iniziativa economica privata. L’iran sciita resiste e ha cercato di approfittare del disastro iracheno provocato dagli Stati Uniti.
Molti paesi, sia in Asia che in America Latina, hanno abbandonato, in misura maggiore o minore, alcuni dogmi neoliberisti.
Perciò, se a livello filosofico e antropologico la verità che enunci è totale, a livello politico ed economico, la malata è l’Europa. O meglio i malati sono gli Stati europei. Se la mia precisazione ha almeno un fondo di verità, allora abbiamo anche speranze, che però, per ora, sono soltanto speranze di risveglio. L’ubris che caratterizza la costruzione europea genererà il collasso. I fatti, insomma, andranno verso di noi e apriranno nuovi scenari. Agli uomini di buona volontà spetta di impgnarsi per poter giocare la partita quando il sistema europeo collasserà.
Gentile Gianluca Polgar,
condivido ciò che scrivi ma nutro anche qualche speranza.
Io, per esempio, ho trovato più stimoli a lavorare a questo blog e a dialogare con i diversi autori, che ho cercato e trovato in rete (il blog nasce come personale ma fin da principio lo scopo era quello di farlo diventare collettivo), anziché nel dialogo con i miei colleghi, sia del mio settore disciplinare (dialogo tecnico), sia della mia facoltà (dialogo culturale).
Alla resa dei conti, la possibilità di costruire minoranze che organizzino il pensiero e l’azione esiste ancora, sebbene si esplichi in forme diverse. Tuttavia, essendo stati scaraventati a terra sette volte, bisogna ricominciare da capo (ma noi lavoriamo da tre anni e una certa strada l’abbiamo già percorsa). Perciò bisogna avere pazienza e pensare e militare con intelligenza per un decennio: i risultati arriveranno.