Natalino Irti: Storicismo e nichilismo giuridico in un’orazione di Ugo Foscolo (1)
da “Historia et ius”, rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna (www.historiaetius.eu – 2/2012 – paper 15)
1. “Tutto quello che è, deve essere; e, se non dovesse essere, non sarebbe”: questa proposizione – che un critico letterario di grande nome definisce ‘aforisma di tipo hegeliano’ (2) – raccoglie il senso dell’orazione Sull’origine e i limiti della giustizia, pronunciata da Ugo Foscolo a Pavia, il giugno 1809, nella cerimonia solenne di conferimento di lauree in leggi (3). A ciò che accade, a ciò che si mostra nell’effettuale realtà, non può contrapporsi ciò che deve essere: essere e dover essere perfettamente coincidono. I fatti sono in quanto debbono essere, sicché ricusano ogni raffronto con fatti che non sono accaduti, ma sarebbero già dovuti accadere in passato o dovrebbero accadere in futuro. Tutto quello che accade porta dentro di sé la propria intrinseca ragione, il proprio dover essere, e non è giudicabile alla stregua di un diverso e superiore criterio.
Foscolo si confessa “uno di quei tanti mortali a cui l’ingegno e la fortuna avendo negato la via alla verità del diritto, devono se non altro attenersi alla certezza del fatto”. La ‘verità del diritto’ è il diritto provvisto di un contenuto perenne e incontrovertibile, che sta sopra alle leggi positive, e, a volta a volta, le approva o disapprova, le pronuncia conformi o difformi. Le leggi difformi, opponendosi alla verità, cadono nell’errore, offendono la giustizia, sono rifiutabili dai destinatarî. La verità è il dover essere del diritto, il criterio, onde è dato di distinguere tra ciò che deve essere e ciò che non deve essere. L’essere non basta, il nudo accadere non esprime di per sé alcuna ragione: la ragione dell’essere consiste soltanto nel suo adeguarsi alla verità, nel suo adempiere l’istanza del dover essere. Non c’è forma o tipo di giusnaturalismo, religioso o laico che sia, il quale non si risolva e concluda in questo raffronto e nel correlativo giudizio di adeguatezza o inadeguatezza. Se il diritto che è, deve essere, allora non si dà luogo né a raffronti né a giudizî, poiché l’essere esprime la realtà del dover essere, e ambedue coincidono nell’effettualità storica.
Al Foscolo è negata la “via alla verità del diritto”; a lui “non fu dato mai di vederla, e di ravvisarla”. La verità si manifesta come meta di un cammino, punto d’arrivo di una ‘via’: o di un messaggio divino, che la riveli e trasmetta agli uomini; o di una scoperta fatta da costoro nell’intimo della coscienza o nel corso della storia. Come poi si vedrà, l’una e l’altra strada al Foscolo sono precluse.
Ed allora non rimane che la ‘certezza del fatto’, la ‘esperienza del fatto’. “M’attenni dunque al metodo delle altre umane cognizioni, e decretai di esaminare la giustizia coll’esperienza dei fatti …”. La ‘scienza della giustizia’ è anch’essa una scienza sperimentale, non diversa dalle scienze fisiche, ma il fatto è qui la storia dell’uomo, e non l’inerte e oggettiva natura. L’esperienza del fatto è l’esperienza storica, che diviene nel tempo, e giunge fino a noi dalla più lontana antichità, la quale ci mostra, con l’assassinio di Abele, già “ferita al suo nascere”, la legge dell’amore reciproco e della fraternità. E codesta legge non poté più “né rinvigorirsi, né crescere, perché appunto dopo quel duello, gli uomini nacquero, vissero e morirono guerreggiando perpetuamente tra loro, ora per avarizia, or per ambizione, or per invidia, ed or senza perché, e sempre di terra in terra, e di anno in anno fino a’ miei giorni”.
2. Il guerreggiare di popoli contro popoli sospinge gli uomini, proprio per difendersi da aggressioni esterne, a riunirsi in società e a sottomettersi ad un comune potere. Ma è forse giustizia la legge, che vincola, all’interno di una società, cittadino a cittadino, governanti e governati? Sul principio della storia romana si trova l’uccisione di Remo, e Foscolo vede “quella spada del fratricidio tramandarsi di mano in mano per lungo ordine di re, di consoli, di dittatori, di imperatori; conquistare la terra, e scrivere col sangue dei vinti le leggi più venerate di ogni nazione, e celebrarsi la civilis equitas de’ Romani”. La giustizia di ogni paese, delle particolari società in cui si divide il genere umano, è così legge garantita dalla forza, vincolo tenuto fermo dalla costrizione fisica. “Dunque – conclude Foscolo – sulla terra senza forza non vi è giustizia; e se una città non avesse forza contro le usurpazioni esterne ed interne, non sarebbe giusta, perché non avrebbe leggi; perché le leggi senza la protezione della forza sono nulle” (4).
L’equazione si presenta in lucida perentorietà: la legge tiene salde le singole città; essa, e soltanto essa, è giustizia nelle umane convivenze; la legge-giustizia, la legge che è giusta per il fatto solo di esser legge, ha bisogno della forza, che reprima e soffochi le “usurpazioni esterne ed interne”. Nulle, cioè il niente di efficacia vincolante e di capacità costrittiva, sono le “leggi senza la protezione della forza”. La forza assume, nel fastoso stile del Foscolo, la grandezza di una potenza storica: non è la miserabile soverchieria o l’arroganza sopraffattrice, ma l’energia degli uomini, la volontà che istituisce o destituisce le città terrene. E’ netta l’eco di Machiavelli, di Hobbes, di Vico.
3. Proprio dal filosofo napoletano il Foscolo trae la sentenza, onde la ragion di stato – cioè, la ragione che determina l’uso della forza – non è naturalmente conosciuta da ogni uomo, ma da pochi pratici di governo, che “sappiano vedere ciò che appartiensi alla conservazione del genere umano”. E, poiché il genere umano non è retto da un solo governo, e sempre si divide e dilacera nelle guerre, la ragion di stato non è che “conservazione del solo popolo governato”. “Dunque – argomenta il Foscolo – il giusto non emana se non dalla ragione di stato, non si propaga fuori della ragione di stato e si riconcentra fermamente nella ragione di stato”. Ancora una volta (cfr., supra, § 2) la forza ci appare come energia creatrice e conservatrice della città, forza che trova nella legge la propria giustizia. Al lume di questo criterio, cadono immaginazioni e astrazioni: jus divinum, jus naturale, jus gentium, jus civile; e trionfa l’evidenza dei fatti. I quali attestano soltanto schiavitù e assassinii, e ruberie, e mostrano, nella civilissima Inghilterra, “navi cariche d’uomini negri incatenati, flagellati, e condotti da’ loro tugurj dell’Affrica alle glebe dell’America”.
Anche cade lo jus naturale, ossia la pretesa di scoprire la verità del diritto nella natura dell’uomo, cade perché questa natura è la stessa socialità e storicità dell’uomo. La quale si presenta unitaria e indivisibile, e non permette distinzione di natura usi istituzioni. Qui si coglie l’antitesi fra il naturalismo illuministico, che dissolve i concreti individui nella specie biologica dell’uomo, e lo storicismo foscoliano, per il quale natura dell’uomo è il suo agire nel tempo, il fondare Stati, e, insomma, le vicende della pace e della guerra, del vivere e del convivere. E l’antitesi si fa più cruda, dove il Foscolo passa dalla natura sociale alla natura individuale, e anche qui s’imbatte nello “istinto della propria conservazione”, nell’ineguaglianza di bisogni piaceri dolori, nella disparità di forze.
C’è nell’uomo – osserva Foscolo – una dolorosa ‘incontentabilità’, che accresce i bisogni e sospinge a un incessante fare: “… io non posso agire che per me solo, e non arrestarmi se non quando l’altrui forza mi oppone una insormontabile necessità; ma frattanto tutto quello che è in me, che partì da me, che ritorna in me, che può venire in me, forma sempre parte essenziale di me medesimo. Afflitta una parte di me, l’altrui felicità non può compensarmi, e perduto questo mio io, cos’è il mondo per me?”.
Lo storicismo foscoliano è tutto nel rapporto tra il singolo e la città, tra l’individuo e la patria. Né l’uno né l’altra appartengono alla natura, a una sfera che sia oggettivamente accertabile e governabile. La loro natura è il loro agire e farsi nel tempo, obbedendo, e l’uno e l’altra, all’istinto di conservazione. Il quale, come comanda all’individuo di uscire dall’anarchia originaria e di entrare in società, così impone a quest’ultima di difendersi con la severità delle leggi e la crudezza della forza: “… ne viene che ogni legge debba essere scritta dalla forza, e mantenuta dalla forza”.
Si spiega così che il Foscolo, il quale non fa conto né del diritto divino (sempre congiunto alla ragion di stato) né del jus gentium, e con Lucano ci ridice : ‘Victrix causa diis placuit’, si levi in un elogio del diritto civile. Che, pur diverso in ciascuna società, è sempre simile nello “scopo di mantenere l’equilibrio tra il principe ed i soggetti, tra le passioni dell’uomo e gli obblighi del cittadino, tra gl’infiniti bisogni e le forze limitate degli individui …”. Il diritto civile, inteso come diritto dei cives, oppone una forza generale alla forza degli individui, e così li salva dall’anarchia, li tutela nell’esercizio di arti industrie commerci, e dunque nel fecondo e continuo incivilimento.
Mentre jus divinum, jus naturale e jus gentium si perdono nell’astrazione dei principî, e sono ognora confutati dall’evidenza dei fatti, il jus civile riposa sull’istinto di conservazione, sulla necessità di uscire dall’anarchia originaria e di stringersi in società. La forza della legge concilia i bisogni, raffrena le passioni, ed anzi le trasforma in fruttuose virtù. La legge civile è costitutiva, appunto, della città, di quella città, che, essendo in noi e per noi, diviene la patria. “Dopo questo esame dei fatti – conclude Foscolo – le parole giustizia, patria e ragione di stato suonano per me una medesima cosa”.
Il Foscolo raccoglie in sei punti i risultati del discorso: ai popoli “non si può parlare che per mezzo di leggi positive”; non ci sono “norme positive di giusto se non da cittadino a cittadino, e da governo a popolo; ma non mai da uomo a uomo, e da governo a governo”. La forza, che assicura le leggi, costituisce la ragion di stato; giusta è la ragion di stato che più concilia gli interessi reciproci dei cittadini e dei governi; l’unica equità possibile consiste “nella eguaglianza universale, religiosa, severissima dell’applicazione”; e, infine, “però praticamente tutti i diritti, naturale, divino, pubblico e civile devono emanare da una sola legge, e riconcentrarsi in una sola: ‘Suprema lex, pupuli salus esto’ ”. I punti conclusivi salgono così fino a una Grundnorm, che tutti li spiega e raccorda: la ‘populi salus’, il bene della città, è legge sovrana. Non l’eterna e immobile verità del diritto, ma il bene della città, che è tale soltanto per ciascuna città, e si determina in mutevole e imprevedibile storicità. Nessuno può accertarlo una volta per tutte, ma, di tempo in tempo, si farà manifesto ai ‘pochi pratici di governo’, solleciti nel conservare e difendere la città.
4. Qua e là nella dissacrante analisi della giustizia, ma più nelle ultime pagine, si discopre la schietta visione del Foscolo, che si direbbe di un acerbo e poetico nichilismo (5). L’uomo vive nelle tenebre dell’ignoranza; ogni suo sforzo di conoscenza è vano; egli non riesce a dar senso al proprio essere e al proprio agire. “Io non so né perché venni al mondo, né cosa sia il mondo, né che cosa io stesso mi sia …”; “… e questa stessa parte di me che pensa ciò che io scrivo, e che medita sopra di tutto, e sopra se stessa, non può conoscersi mai”; “… mi trovo come attaccato ad un piccolo angolo delle spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove …”; “Io non vedo da tutte le parti che infinità che mi assorbono come un atomo”.
Questa impossibilità di un qualsiasi sapere, che giunge fino alla mancanza di autocoscienza; questo agitarsi, senza significato alcuno, di passioni e piaceri, di risorgenti bisogni e di strenue volontà; non trova altro rifugio che lo stringente vincolo della propria città, della “terra che mi è assegnata per patria”. “Vedo – scrive Foscolo – che l’eterna guerra degli individui e la disparità delle loro forze produce un’alleanza, per cui l’amore de’ miei, della mia famiglia, della mia città: e tutti uniscono con me i bisogni e i piaceri e le sorti della loro vita contro i desiderj insaziabili degli altri mortali”. Dove non è l’alleanza leopardiana de La ginestra, l’unirsi solidale degli uomini contro la natura e lo stringersi dei ‘mortali in social catena’, ma l’alleanza di uomini avverso altri uomini, che insaziati minacciano le mura della città. La patria, in difesa della quale Foscolo chiama gli uomini, non è la patria comune del ‘genere umano’ ma questa concreta e storica patria, la “terra che mi è assegnata per patria”. Non il conflitto tra uomo e natura, ma i terribili e spaventosi conflitti, che, opponendo uomini ad altri uomini, e patrie ad altre patrie, costruiscono nel tempo la nostra storia.
5. Si è sopra discorso di storicismo e nichilismo del Foscolo, ed ora se ne vorrebbero segnare i tratti riassuntivi. Il ‘dolente storicismo’ (per usare una formula definitoria di Luigi Russo) (6) è nella nuda considerazione dell’agire umano, che egli viene ricostruendo dalla più remota antichità fino ai suoi giorni, i quali anche potremmo dire nostri. Ignaro della ‘verità del diritto’, per la quale gli è negata ogni via, Foscolo si restringe all’accaduto, alla certezza esperienza evidenza dei fatti. E questi sono assunti in certa estrinseca oggettività, quasi dimenticando che i fatti sono sempre tali per la mente umana, onde sono accertati, esperiti, giudicati evidenti. Il debole e mortale io è l’io, che pure li pensa, li trae dentro di sé, e, interpretandoli, giunge a negarli come puri e semplici fatti. Il nichilismo, che dicemmo acerbo e poetico (cfr., supra, §4), non travolge il piccolo io smarrito nell’universo, incapace di trovare un senso al nascere e al vivere, ma capace di esperienza storica, di unirsi con altri nel vincolo della città, di avvertire bisogni e passioni(7).
Al Foscolo non si può né deve chiedere un sistema filosofico, poiché il pensiero si fa sentimento, sicché la prosa accademica congiunge insieme meditazione e lirica, ansia speculativa e abbandono del cuore. Si potrebbe dire, adattando parole profonde di Giovanni Gentile (8), che in Foscolo “materia del suo canto è la sua filosofia”. C’è la serietà e onestà del pensiero, che non svaga in sofismi né azzarda lontani orizzonti, ma sta alle cose, alla lezione crudele della storia. Foscolo non può né vuole nascondere ciò che gli sembra di aver appreso dalle istorie: verso i giovani sente, ineludibile e vincolante, un dovere di impietosa sincerità.
L’orazione si chiude con un intenso e caldo appello: “… rivolgiamo tutti i nostri studi, i nostri pensieri, i nostri sudori, i nostri piaceri, e la nostra gloria alla patria, per illuminarla coraggiosamente ne’ traviamenti e soccorrerla con generosità ne’ pericoli”. Questa patria non è, come pure si è detto (9), lo Stato-potenza, che ha di contro lo Stato-giustizia, a quel modo che l’ideologia storicistica avversa l’ideologia illuministica e democratica. La patria foscoliana è la terra che ci è assegnata per patria, la terra che è nostro dovere di invigorire all’interno mercè la severità delle leggi e di difendere da ‘usurpazioni’ straniere. La forza, esercitata per invigorirla e difenderla, nulla ha da vedere con la volontà di potenza, con la volontà di stabilire e accrescere il dominio di uno Stato sugli altri: è piuttosto volontà di unirsi insieme, di raffrenare le individuali passioni in un vincolo comune, di uscire dall’originaria anarchia. C’è Hobbes; non c’è ancora Nietzsche. La contemplazione del divenire non approda al nulla, ma trova rimedio, e quasi si appoggia e sostiene, nel culto della patria.
6. Invano, mi pare, si cercherebbe il nome di Foscolo nelle storie, anche le più erudite e sicure, di filosofia del diritto o di filosofia politica. Eppure il giurista può scorgere nell’orazione pavese un documento di grande rilievo, un testo che parla di noi stessi e dei nostri tempi. L’argomentare del Foscolo, liberato di certo ingenuo sensismo e oggettivismo, riesce fermo e persuasivo. Il diritto gli si presenta incondizionato, cioè sciolto da ogni presupposto metafisico e religioso, e tutto risolto nella positiva storicità. Positiva è la legge posta, posta dall’uomo per altri uomini, e garantita dall’esercizio della forza: così la legge è in grado di stringere e conservare i popoli nel vincolo della città. Dove il Foscolo scrive che “le leggi senza la protezione della forza sono nulle”, non ha riguardo alla nullità come formale invalidità, ma alla concreta incapacità di governare l’agire degli uomini. La nullità è qui impotenza storica.
E ancora la legge è creatrice e conservatrice della città: poiché non si dà un dover essere, che si stagli al di fuori e al di sopra delle norme positive, la legge fa tutt’uno con la giustizia e la ragion di stato. Così l’individuo esce dall’originaria anarchia, dalla solitudine e dal terrore, da quella che Hobbes definì la ‘miserabile condizione di guerra’ (10), e trova pace e difesa. L’appartenenza alla città non è uno stare pigro e inoperoso, ma esige l’impegno totale dell’individuo, l’esercizio di tutte le sue energie. Lo storicismo foscoliano, che talora rasenta l’abisso del nichilismo e l’atroce vanità del divenire, ha un punto fermo nella città, nella patria in cui ci riuniamo e ripariamo. Che non è la patria cosmopolitica del secolo XVIII, l’indistinto e generico mondo dell’uomo, ma questa mia e determinata patria.
Qui si rivela il rigoroso anti-illuminismo del Foscolo (11), il rifiuto di un’astratta e comune ragione, che stabilisca ordinamenti e costumi degli uomini. I quali, per ciò che fatti millenarî attestano con ogni evidenza, sempre si trovano in situazioni mutevoli e diverse; e ciascun popolo ha la propria storia, ed è conformato e definito da essa. Lezione giuridica, che anche è lezione di alta moralità, poiché disvela l’inerme ingenuità del cosmopolitismo umanitario, e riversa sull’individuo la responsabilità della sua propria vita, il dovere di tutto e solo impegnarsi per la conservazione della patria.
Anti-illuminismo, che anche è, e non poteva non essere, anti-naturalismo: la natura dell’uomo non è un dato estrinseco ed oggettivo, non l’appartenere al medesimo genere biologico, ma la sua stessa socialità, quale si costituisce e svolge nel tempo e nella diversità dei luoghi (12). Foscolo condanna il “funestissimo errore di distinguere la natura dalla società”: “L’uomo tal quale è in società, con ciò che gli uni chiamano vizj, gli altri passioni, gli uni scienza, gli altri ignoranza, è pur l’uomo tal quale fu creato dalla natura …”. La natura dell’uomo non è indagabile e definibile per astrazione dal suo concreto agire, dal suo operoso cammino nel tempo: e dunque fa tutt’uno con la sua socialità e la sua storia. Codesta socialità si esprime in varietà di forme e modi, in arti industrie costumi usi istituzioni, e attinge il grado più alto e sicuro nel vincolo della città. Non è l’odierna socialità, identificata con il mondo del produrre e dello scambiare, ma la socialità dell’uomo intero, raccolta e difesa nei confini delle ‘società particolari’. Le storie porgono a Foscolo gli esempî dell’antichità: dei giovani ateniesi, che solennemente giuravano “sotto pena d’essere consecrati dalle Furie, di riguardare come confini della patria tutte le terre che producessero frumento, orzo, viti ed ulivi”; dei Romani “da’ quali derivano tutti i codici de’ popoli inciviliti”, che sui confini della repubblica scrissero “ ‘Parcere subjectis’; ma soltanto subjectis”. Il confine, onde le singole patrie sono determinate e istituite nella loro identità, assume così un rilievo decisivo. Le ‘usurpazioni’ straniere violano i confini; la difesa della città è difesa dei confini (sono ‘le mal vietate Alpi’ dei Sepolcri, onde “armi e sostanze t’invadeano ed are / e patria e, tranne la memoria, tutto”).
La lunga e vivace disputa circa l’unità dei Sepolcri (13) non può certo rinnovarsi con riguardo all’orazione accademica, la quale presenta un organico e serrato sviluppo di pensiero. Il rischio di conflitti e contraddizioni interne, di ondeggiamenti e perplessità, è già tutto risolto nel criterio filosofico, da cui queste pagine hanno preso l’avvio. Poiché essere e dover essere coincidono appieno, e la natura dell’uomo risiede nella sua socialità e storicità, non c’è luogo per contrasti fra ideale e reale, o fra ragione e sentimento. Foscolo dichiara di ignorare ciò che è fuori dalla storia, e perciò potrebbe confutare o indebolire l’evidenza dei fatti. “Così nella mia ignoranza de’ principj, e soltanto colla conoscenza de’ fatti pervenni ad avere assegnati i limiti della giustizia”. L’ignoranza, la confessione di nulla sapere circa principî meta-storici, esclude il conflitto e garantisce l’unità del discorso.
Note
1 Il saggio è già apparso in Sergio Cotta (1920-2007). Scritti in memoria, a cura di B. Romano, Milano 2010, pp. 467-476.
2 L. Russo, Il tramonto del letterato, Bari 1960, pag. 150. Nel memorabile saggio su Ugo Foscolo – Pensatore, Critico, Poeta, 1910, III ed., Firenze 1964, p. 44, Eugenio Donadoni osserva che “qui è il concetto ultimo ed irriducibile della concezione filosofica foscoliana”. Cfr. F. Flora, Foscolo, Milano 1940, p. 27, che vede nell’orazione giuridica “la più compiuta professione di fede che mai il Foscolo facesse”.
3 U. Foscolo, Sull’origine e i limiti della giustizia, in Saggi critici, vol. II delle Opere, Torino 1949, pp. 75-93.
4 Per inattesa consonanza, cfr. I. Lenin, Stato e rivoluzione (1917), trad. it., Mosca, 1949, p. 110: “… il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere all’osservanza delle regole giuridiche”.
5 Non coglie nel segno V. Cian, Ugo Foscolo all’Università di Pavia (1909), in Scritti minori, I, Torino 1936, p. 255, dove insiste “nel ritenere che il tono dominante in questa Orazione sia d’ironica protesta d’un poeta e sognatore votato all’ideale della pura giustizia e ferito in cuor suo dallo spettacolo d’una realtà che sembra smentirlo e contro la quale egli tenta invano di ribellarsi”.
6 L. Russo, Il tramonto del letterato, cit., pp. 105 ss. e 149.
7 Col riguardo ai Sepolcri diceva benissimo F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, II, Milano 1930, p. 331: “Ci è qui fuso inferno e paradiso, la vasta ombra gotica del nulla e dell’infinito, e i sentimenti terreni e delicati di un cuore d’uomo …”.
8 G. Gentile, Introduzione a Leopardi (1927), in Manzoni e Leopardi – Saggi critici, Milano 1928, p. 100.
9 L. Russo, Il tramonto del letterato, cit., p. 148.
10 T. Hobbes, Leviathan, XVII; trad. it. Leviatano, Firenze 1987, p. 163. Il tema è già nei Sepolcri, dove il culto delle tombe segna l’uscita dallo stato ferino ed il ‘primo incivilimento dei popoli’. Sull’hobbesianismo del poeta è spec. da vedere E. Donadoni, Ugo Foscolo, cit., pp. 57 ss.
11 Bene avvertito da L. Russo, Il tramonto del letterato, cit., pp. 161 ss.
12 Sul punto è da vedere il finissimo A. Pagliaro, L’unità dei ‘Sepolcri’, in Nuovi saggi di critica semantica, Firenze 1956, pp. 309, 339 (“L’uomo non è più soltanto natura, ma è anche storia (a cui però la sua natura lo chiama), e la tomba è quindi un particolare aspetto di quel durare che, al di sopra della natura …, l’uomo vorrebbe assicurato per sé e per coloro ai quali è legato da vincoli di sangue e di affetto. Il culto dei morti entra come una realtà nella vita degli uomini e, affermatosi con modi e riti diversi nel corso delle generazioni, diventa un aspetto della loro determinazione storica”.
13 I termini della disputa sono limpidamente enunciati da A. Pagliaro, L’unità dei ‘Sepolcri’, cit., pp. 309-321.
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