Corpi politici in cerca di rappresentanza
Almeno trecentomila dollari sono stati stanziati dal Pentagono per il progetto “Body Leads”, che studia i movimenti del corpo di Putin e dei principali leader mondiali con l’obiettivo di svelarne le intenzioni recondite, mentre più di un miliardo ne ha investiti l’agenzia federale preposta alla sicurezza dei voli (Tfa) per insegnare al personale come riconoscere un terrorista dall’espressione del viso e dai gesti.
Queste notizie, rimbalzate pochi mesi fa dagli Stati Uniti, confermano, se mai fosse necessario, la rilevanza assunta oggi dal corpo, che sembra sul punto di tornare in auge dopo aver patito un’emarginazione più che millenaria. Su tale fenomeno Roberto Esposito riflette, con la consueta autorevolezza, nel suo Le persone e le cose (Einaudi, 2014, pp. 115, 10 euro). Il filosofo legge la realtà contemporanea in controtendenza rispetto a chi vuole vedervi unicamente il regno di monadi autistiche, sperdute nel “deserto del reale” e votate a un destino ineluttabile di schiavi-consumatori.
Secondo Esposito, il nostro tempo è attraversato in profondità da un’esigenza di rinnovamento che non investe soltanto la vita quotidiana ma anche la politica, sempre più segnata sia dalla crisi di rappresentatività delle istituzioni (governi, parlamenti, partiti) sia, come in tutto il mondo dimostrano le manifestazioni di piazza degli ultimi anni, dal bisogno di esprimere forme inedite di partecipazione e di passione comunitaria.
E in effetti una delle proteste più massicce e controverse, la cosiddetta “primavera araba”, era appunto cominciata all’insegna del corpo, con il gesto drammatico e clamoroso di un giovane tunisino che si era dato fuoco per strada. A questo proposito Esposito osserva: “Ancora sprovvisti di forme organizzative adeguate, corpi di donne e di uomini premono ai bordi dei nostri sistemi politici, chiedendo di trasformarli in una forma irriducibile alle dicotomie che hanno a lungo prodotto l’ordine politico moderno”.
La più importante di tali dicotomie è quella che separa le persone e le cose: “per un tempo incalcolabile, e non ancora concluso, abbiamo attribuito alle persone la stessa sovrabbondante qualità che che abbiamo sottratto alle cose”. Lo sviluppo ipertrofico del soggetto e dell’individuo, del quale Esposito ricostruisce genealogicamente il percorso dall’antichità classica ai nostri giorni, va contrastato ricorrendo alla mediazione indispensabile del corpo e delle sue eventuali protesi tecnologiche. Solo il corpo permette di riprendere contatto con gli oggetti che, come ben sanno i poeti (nel libro il filosofo ne cita diversi, da Montale a Pasolini), non sono affatto inerti e passivi: “le cose”, scrive Esposito, “hanno un cuore. Sepolto nella loro fissità. O nel loro movimento muto. Un cuore, come si dice, di pietra. Ma di una pietra che non ricorda il freddo della morte. Una pietra viva e pulsante, in cui si concentra un’esperienza antica, o anche contemporanea, ancora palpabile, visibile, riconoscibile”.
Se “per un tempo incalcolabile, e non ancora concluso, abbiamo attribuito alle persone la stessa sovrabbondante qualità che abbiamo sottratto alle cose”, qualche motivo dovrà pur esserci: la distinzione tra persona e cosa è la base del diritto – la persona è la prima forma di esistenza della libertà; la cosa (cfr. § 42 dei “Lineamenti” di Hegel) è il diverso dallo spirito libero, l’esteriore, ciò che è privo di diritto. E la riduzione della persona a cosa, nelle sue varie forme, è la negazione del diritto, la soppressione della libertà – il male. Qui sembra che il signor Esposito, per un’ansia di originalità, non si accorga di rovesciare, senza una chiara prospettiva, una delle distinzioni più elementari dell’etica. Feuerbach volle ridurre la teologia ad antropologia; fu un’operazione abbastanza mediocre ma perlomeno voleva riportare in terra i tesori dilapidati in cielo, restituire all’uomo corporeo i significati alienati nello spirituale; qui si vuole riportare l’etica alla meccanica, ma per cosa? Vorrei disfarmi dell’impressione di un inconsapevole feticismo.
Paolo, secondo me Esposito pensa alla filosofia italiana rinascimentale con l’idea che tutta la natura sia animata. E forse anche alla poesia delle origini di cui parla Vico: nell’Iliade, ad es., leggiamo di fiumi che combattono come eroi e di cavalli che parlano. Qui la distanza fra le persone e le cose si riduce all’osso.