Guerra e rivoluzione. Per la filosofia del patriottismo
di PAOLO DI REMIGIO (ARS Abruzzo)
In uno scritto giovanile Hegel chiarisce il punto di vista da cui interpretare i suoi successivi Lineamenti di filosofia del diritto: «Una moltitudine umana può chiamarsi “stato” solo se è legata per la difesa comune del complesso delle sue proprietà»[1]. Ossia, ciò che porta gli elementi di una moltitudine a voler negare il proprio arbitrio e a sottomettersi a un potere che impone la coordinazione in un collettivo, è la necessità di questa coordinazione per fronteggiare la guerra: poiché teme di perdere sotto un dominio estraneo la proprietà non solo delle cose in generale, ma anche di quella cosa particolare che è il proprio corpo, l’individuo considera l’indipendenza dello stato così importante da volerle sacrificare la propria indipendenza naturale, la vita e la proprietà in cambio della difesa collettiva della vita e della proprietà. In una parola: solo il timore di perdere tutto può convincere gli individui a sacrificare la loro individualità esclusiva e a diventare elementi di una moltitudine che proprio per questa solidarietà diventa stato.
Gli altri caratteri dello stato – se comandi uno o se comandino pochi o molti, se chi comanda sia stato eletto o abbia acquisito il potere per nascita, se gli individui abbiano uguaglianza giuridica, se le leggi e l’imposizione fiscale (proprio come i pesi, le misure e la moneta) siano uguali, se ci sia omogeneità di costumi, di educazione e di lingua, se ci sia differenza di religione – sono secondari: nessuna forma di governo, nessuna identità, né etnica, tanto meno razziale, né culturale, costituisce la determinazione necessaria dello stato; solo la volontà dell’individuo di sacrificare la sua sfera privata in vista della costituzione di una forza collettiva che difenda la stessa sfera privata (ciò che Hegel chiama “idealismo” dello stato) conferisce spessore solidale alla moltitudine, ne fa un’unità etica. L’essenza dello stato contiene dunque il paradosso inevitabile di difendere la sfera privata solo a costo della stessa sfera privata; e questo paradosso (Hegel lo chiama “speculativo”) è la libertà del cittadino: mentre l’arbitrio è l’esclusività propria dell’individuo, la libertà è l’esclusività che si conserva mediante la propria negazione.
La determinazione hegeliana dell’essenza dello stato ha un precedente nella “Repubblica” di Platone[2]. Questi, infatti, ha visto nella divisione del lavoro la causa della socialità degli uomini: il lavoro è più produttivo, il consumo più abbondante e la vita più felice, se gli uomini si specializzano nel produrre e si scambiano le eccedenze. Nella concezione platonica, a differenza, e forse più correttamente, che nella concezione marxiana, la divisione del lavoro non dà origine all’antagonismo di classe, ma alla collaborazione sociale. Benché faccia suo l’ideale di una società povera che limitando i consumi all’elementare si mantiene ugualitaria, Platone riconosce l’insopprimibilità della tendenza al lusso; essa, implicando maggiore bisogno di risorse naturali, rende rivali le diverse società; questa rivalità è la possibilità della guerra, e la possibilità della guerra genera il potere, ossia trasforma la divisione del lavoro interna alla società in una divisione di classe: sono necessari guerrieri di professione, i guardiani, che dovendo provvedere al rapporto tra la loro società e le altre si rapportano non ai singoli compatrioti, ma alla società come a un intero, cioè vi esercitano il potere. Solo a questo punto la società primitiva diventa stato.
Rispetto alle intuizioni platoniche le concezioni moderne fino a Rousseau perdono incisività. Tutte cercano di determinare lo stato a prescindere dal rapporto tra gli stati, quindi fanno fatica a concepire come l’individuo possa rinunciare al suo arbitrio, accettare la sottomissione e cercare la libertà entro questa sottomissione. Hobbes, per esempio, concepisce la minaccia della guerra come effetto del diritto di natura insito nell’individuo, che l’individuo stesso spegne una volta per tutte – a parte l’eccezione dell’illecito – unendosi agli altri e insieme sottomettendosi al potere statale. Egli è troppo condizionato dall’esperienza della guerra civile e dalla sicurezza esterna che la sua patria, l’Inghilterra, gode in virtù della sua insularità, per considerare la minaccia della guerra, anziché semplice istanza psicologica, realtà sempre attuale prodotta dall’esistenza di una pluralità di stati sovrani.
Ancora meno incisiva di quella di Hobbes la teoria dello stato di Locke. Per lui lo stato ha la funzione di difendere la proprietà nel senso ristretto del diritto sulle cose esterne; ma ciò che la minaccia non è la guerra, bensì l’illecito. Così Locke affronta il problema dello stato con la limitazione comune a tutte le teorie contrattualistiche, facendo cioè uso di un corredo concettuale tratto dal diritto privato per spiegare il diritto pubblico. Contro questa confusione Hegel osserva che il diritto pubblico è alla base del diritto privato e in caso di contrasto prevale. «Una minima riflessione permette di capire che il nesso tra principe e suddito, tra governo e popolo, ha a fondamento dei loro rapporti un’unità originaria e sostanziale, mentre nel contratto si inizia dal contrario, cioè dall’uguale indipendenza e indifferenza reciproca tra le due parti; un accordo che esse stringano su qualcosa è un rapporto casuale, che nasce dal bisogno e dall’arbitrio soggettivo di entrambi. Da tale contratto si differenzia essenzialmente il nesso nello stato, che è un rapporto oggettivo, necessario, indipendente dall’arbitrio e dal gradimento; è un dovere in sé e per sé, dal quale dipendono i diritti; nel contratto, invece, l’arbitrio concede reciprocamente diritti, dai quali poi scaturiscono doveri»[3].
Il diritto privato sembra legare due individui nella loro indipendenza, cioè nella loro esclusività reciproca; ma perché si osservino i doveri previsti dai contratti occorrono persone non semplicemente indipendenti, ma libere, tali cioè che siano indipendenti tramite negazione della loro indipendenza, così che riconoscano un potere da cui sono a loro volta riconosciute, un potere statale legittimo, che garantisca l’esecuzione delle clausole del contratto. Solo in quanto sono sudditi di un principe, in quanto sono popolo sotto un governo, gli individui acquisiscono esclusività rinunciando alla loro esclusività, accettano quindi di affermare la loro particolarità inchinandosi alla maestà della legge, cioè di ottemperare ai doveri che il contratto implica per goderne i diritti. Soltanto la presenza necessaria del diritto pubblico nel diritto privato, nessuna mistica totalitaria, conduce Hegel a parlare di unità originaria e sostanziale tra governo e popolo.
In questa determinazione Hegel sviluppa un pensiero di Rousseau, che così aveva enunciato il problema di cui il contratto sociale vuole essere la soluzione: «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la sua forza comune la persona e i beni di ogni associato, e tramite la quale ciascuno, pur unendosi a tutti, non obbedisca che a se stesso e resti così libero come in precedenza»[4]. Come si vede, il problema di Rousseau è articolato in due punti: da una parte il carattere difensivo dello stato, dall’altra l’esigenza della libertà dei suoi membri. Rousseau sembra non ricavare la seconda dalla prima; in effetti, però, solo il genere di contributo che un’associazione esige dagli associati ne determina la natura. Quell’associazione che per difendere e proteggere la persona e i beni degli associati arriva a esigere il sacrificio della persona e dei beni degli associati ha una carattere pubblico e nella sua forma normale è uno stato.
Proprio questa esigenza, che fa dello stato non solo un comunità di interesse, ma un’unità etica, è dunque quell’alienazione totale dell’arbitrio naturale dei singoli, il dovere assoluto cui tutti sono tenuti e da cui derivano i diritti di ciascuno, sul quale si basa il contratto sociale. Poiché invece nel pensiero di Rousseau la seconda esigenza appare indipendente dalla prima, vi diventa illegittima ogni forma di stato che non emani dalla volontà diretta e consapevole dei singoli cittadini – il che equivale al paradosso di fare della legittimità dello stato un’eccezione anziché la regola. Dal punto di vista della prima esigenza non è affatto la partecipazione consapevole dei cittadini all’attività legislativa ciò che determina la legittimità di uno stato, ma la loro volontà di versare “lacrime e sangue” per conservarlo sovrano. In sua assenza la partecipazione consapevole degli individui agli affari pubblici, esprimendo interessi essenzialmente particolari, potrebbe addirittura portare alla distruzione dello stato per la mancanza di una base su cui comporli.
Hegel valorizza la prima esigenza di Rousseau, tanto da considerare tutte le caratteristiche dello stato secondarie rispetto al compito di difendere i suoi membri, e così può ricavarne la seconda. È vero: produce differenza sul genere di libertà degli individui che il potere statale sia gestito da un’aristocrazia o da un monarca assoluto o da una democrazia; nondimeno, il potere statale è legittimo in quanto gli individui, più o meno liberi secondo la costituzione interna, si sottomettono spontaneamente agli obblighi per cui lo stato può conservarsi e difendere la totalità delle loro proprietà.
Viceversa, ignorare la minaccia della guerra comporta il rifiuto radicale del potere, non solo statale, ma in tutte le sue forme: del potere aristocratico, cioè della classe guerriera, sui produttori, del potere che organizza il complesso sociale, del potere che gestisce l’attività economica, di quello che determina la sfera familiare. Il rifiuto di considerare l’eterna attualità della guerra è cioè il fondamento dell’anarchismo: incapace di tollerare il paradosso della libertà, anziché concepire il potere statale come una difesa necessaria contro la naturalità della guerra, con uno stravolgimento analogo a quello operato da Rousseau rispetto alla cultura, esso ignora la natura esclusiva dell’individuo naturale, lo finge come traboccante simpatia nei confronti degli altri individui, così non può che concepire la guerra come un effetto degenerativo dell’artificialità del potere statale sugli individui naturali. D’altra parte la prassi degli anarchici consiste nella violenza contro l’artificialità dell’ordine garantito dal potere statale, in modo da ripristinare la benevolenza degli individui naturali; ma il ripristino della natura benevola, in quanto è mediato dalla violenza, fa della stessa natura ripristinata un ordine fondato sulla violenza. Che la volontà anarchica di restaurazione della benevolenza originaria abbia in mente soltanto la nobile meta e non il movimento che la raggiunge, tradisce la possibilità che con la nostalgia dell’armonicità originaria essa mascheri il bisogno naturale di devastazione; in questo secondo senso, quello per cui la negazione della negazione è comunque negazione, è il desiderio rimosso della devastazione a generare il rifiuto radicale del potere statale, di cui non si tollera la difesa dell’ordine. Quando questa intolleranza diventa consapevole e la devastazione è desiderata per sé l’anarchismo muta in fascismo.
La polemica anarchica nei confronti dello stato ha la sua forma più ingenua nella confusione tra stato e nazionalismo. Tra i due concetti c’è differenza, non solo perché lo stato per sé non implica omogeneità naturale o culturale, quale quella cui rinvia il termine nazione, ma soprattutto perché mentre lo stato organizza la guerra in vista del suo dovere di difesa da un impulso di devastazione, che gli preesiste essendo proprio dell’uomo in generale, il nazionalismo è aggressivo perché esprime proprio l’impulso di devastazione[5]. Ha dunque alcunché di folle che il comprensibile rifiuto dell’aggressività nazionalistica porti a trascurare l’eventualità che una moltitudine, per quanto pacifica e disposta a negoziati e a compromessi, possa essere aggredita dall’esterno, e a negare la necessità che debba avere i mezzi per difendere la propria sovranità e che possa farlo solo se accetta di unirsi sotto il potere statale. Da un punto di vista soggettivo: è impensabile non riconoscere come virtù il coraggio di contribuire alla difesa collettiva. Il destino degli ebrei europei, una nazione priva di stato, cioè indifesa, fino alla prima metà del Novecento, offre una triste controprova del principio che la rinuncia a difendersi non costituisce una garanzia contro l’impulso allo sterminio.
Marx ha considerato idealistica la filosofia hegeliana e ha dichiarato di aver fatto sua la dialettica dopo averla liberata dal misticismo. La difficoltà di comprensione dei testi hegeliani produce un’apparente conferma a questi giudizi. Una lettura più attenta mostra però che nella filosofia hegeliana non c’è proprio nulla di mistico, che la differenza profonda tra i due filosofi non ha niente a che fare con l’alternativa tra idealismo e materialismo, ma si radica nel loro atteggiamento verso il paradosso: Hegel fa ogni sforzo per valorizzarlo, Marx per mostrarne l’intollerabilità e il suo moto di dissoluzione verso una condizione che ne sia libera. Così per Hegel la storia nel suo nucleo filosofico è il progresso delle forme statali verso la generalizzazione del paradosso della libertà individuale – dal dispotismo orientale, in cui uno solo è libero, alla monarchia costituzionale moderna, in cui ognuno è libero in quanto soggetto non alla volontà particolare di chi esercita potere, ma alla legge; per Marx la storia è il progresso del dominio tecnico sulla natura nel contesto della lotta tra le classi sociali, rispetto alla quale l’evoluzione dello stato e della libertà è una semplice illusione che non solo non elimina, ma consolida l’esistenza delle classi, la scissione per cui una parte della società lavora, l’altra vive e gode parassitariamente del lavoro altrui. Il comunismo, verso cui l’evoluzione della storia è diretta, da una parte presuppone un aumento della produttività del lavoro tale da farne cessare il carattere tormentoso, dall’altra elimina le classi sociali, cioè lo sfruttamento, dissolvendo ogni illusione che le rinforzava, compresa quella dello stato. Non è troppo audace osservare che il pensiero di Marx congiunge fiducia nella tecnica e anarchismo per neutralizzare la dialettica.
Mentre Hegel riconosce la verità dello stato moderno nella sua forza di tenere insieme la società nella sua differenziazione, Marx concepisce lo stato come illusione in quanto nella differenziazione scorge la lotta mortale tra la borghesia e il proletariato. Non gli stati, dunque, ma la borghesia e il proletariato sono le unità ultime: solo in forza di un’illusione il proletario potrebbe combattere per difendere lo stato di cui è membro, solo perché non ne ha compreso la natura di strumento del dominio borghese; acquisita coscienza di classe egli diventa militante del partito comunista, disposto a sacrificare la vita per un mondo senza contraddizione. Il passaggio dalla concezione hegeliana a quella marxiana non è quindi un semplice cambiamento di costume dei medesimi attori: non è che l’antagonismo prima si travesta da lotta tra stati e poi da lotta tra classi; questo passaggio è un cambiamento completo di scena.
Gli stati hegeliani, mentre compongono i contrasti interni, nei rapporti reciproci oscillano tra pace e guerra, ed elaborano un diritto internazionale con cui si sforzano di realizzare il dover-essere della pace[6]; questo oscillare per Hegel è una realtà ineludibile, non solo di fatto, ma anche dal punto di vista logico: dipende dalla natura speculativa della libertà, dal fatto che, come abbiamo già visto, è la necessità della difesa dall’aggressione esterna che garantisce la base su cui l’esclusività degli interessi all’interno dello stato può essere composta – per quanto egli riconosca la progressività storica della limitazione della violenza. Resta il fatto che l’oggettività della contraddizione, l’ineludibilità del paradosso, conduce Hegel a riconoscere l’oscillare tra pace e guerra come condizione storica normale. A questa oscillazione Marx contrappone la continuità della lotta tra le classi che mediante l’annientamento del capitalismo termina in una società non più antagonistica: i proletari sono sempre in lotta, dunque devono unirsi in un partito e questo partito deve prendere il potere e gestirlo in forma dittatoriale fino all’estinzione della borghesia e dei presupposti sociali dei contrasti di classe. Rispetto a Hegel, Marx non solo non accetta la realtà dello stato e la possibilità che esso componga conservandola la contraddizione, gli interessi contrastanti, all’interno della società, ma promuove una lotta inesorabile tra classi che può estinguersi solo tramite il superamento messianico della contraddizione storica nell’identità di una pace perpetua finale.
Sebbene sia un tema da cui dipende la valutazione di quanto l’inesorabilità marxiana sia responsabile della portata sterminatrice del comunismo nel Novecento, non è questo il contesto per affrontare la consistenza logica della separazione tra contraddizione (la storia) e identità (il comunismo). Si deve constatare però che l’alternativa tra realtà e illusione non affligge solo lo stato ma anche la classe sociale: per questa come per quello ciò che decide della realtà è la disposizione dei suoi membri a sacrificarsi in suo favore. E questo significa che è un errore determinare a priori che lo stato sia illusorio e la classe sociale sia reale: spaventose tirannie in nome della lotta di classe come l’Unione Sovietica staliniana, che sarebbero dovute crollare al primo urto esterno, hanno saputo suscitare il patriottismo nel momento della verità, mostrando così la loro consistenza di stato; mentre l’unione della classe operaia non solo si è mostrata spesso una semplice illusione, ma ha acquisito la compattezza necessaria all’azione rivoluzionaria solo nella crisi di consenso dello stato e si è mostrata profondamente connessa con lo sforzo di ricostituirlo.
Che una rivoluzione puramente operaia non si sia mai verificata non è un caso, ma è implicato nel concetto di classe operaia. In sede di riflessione politica Marx sopravvaluta il potere del lavoro degli operai di vivificare il lavoro morto contenuto nei mezzi di produzione, e trascura che col progresso materiale del capitalismo la classe operaia diventa sempre più dipendente dal capitale, sempre meno in grado di costituire un associazionismo sovrano in grado di organizzare la rivoluzione. Questo spiega il fatto che di solito le rivoluzioni socialiste non sono avvenute in stati capitalisti evoluti e che sono state sempre connesse con la guerra. La Comune parigina fu innanzitutto volontà di non rassegnarsi alla pace vergognosa sottoscritta con la Prussia dal governo di Versailles: senza la guerra franco-prussiana e il patriottismo della città di Parigi essa non sarebbe pensabile.
La stessa rivoluzione bolscevica nasce all’interno della prima guerra mondiale: Lenin rompe la sudditanza della Russia verso la Francia e l’Inghilterra che non consentono la sua pace separata con i tedeschi; e la successiva guerra civile non è soltanto lotta di classe contro il mondo feudale russo, è anche guerra contro le potenze vincitrici del conflitto mondiale che inviano i loro contingenti in Russia o finanziano la Polonia perché si butti nella mischia. La storia dell’internazionalismo, che da ultimo diventò – è bene ricordarlo – eufemismo per mascherare l’oppressione dell’Unione Sovietica sui paesi satelliti, è la storia della sua dissoluzione nella realtà degli stati: già i partiti socialisti aderenti alla seconda Internazionale non fanno nulla per organizzare gli operai europei contro la prima guerra mondiale, la terza è direttamente al servizio degli immediati interessi statali dell’Unione Sovietica. Tutte le altre rivoluzioni che, a partire da quella cinese, si sono dichiarate socialiste rientrano nella lotta contro il colonialismo, hanno quindi un carattere di guerra contro stati stranieri non meno che di lotta di classe. Soprattutto, il risultato storico delle rivoluzioni socialiste vittoriose è stato la costruzione di uno stato sovrano, non l’internazionalismo: la Russia, la Cina sono diventate le potenze attuali per mezzo delle rivoluzioni di Lenin e di Mao; con la rivoluzione castrista Cuba si è sottratta al destino di repubblica delle banane e ha conquistato la sua sovranità statale.
Poiché popolo e stato sono complementari, l’indebolimento dello stato non è il rafforzamento del popolo, la sua scomparsa non è la fine della contraddizione implicata dalla libertà, ma il suo sfrenarsi nell’indipendenza di poteri particolari che perseguono i propri fini senza la visione dei problemi complessivi e paralizzano l’azione politica per affrontarli. È urgente liberarsi dalla diffamazione del patriottismo e liquidare la rinuncia del materialismo storico alla dialettica, non tanto per salvare le forze che ne sono eredi più o meno consapevoli – la sinistra che si fa strumento della finanza e dei grandi monopoli va combattuta come il nemico, quella che si perde in sogni rivoluzionari impotenti va lasciata al suo delirio –, quanto perché esse sono divenute ingredienti di un comune sentire, che per sfuggire il paradosso etico diventa incapace perfino di percepire la presente deriva storica verso la sciagura universale.
[1] G. W. F. Hegel, Die Verfassung Deutschlands, in Frühe Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1971, p.472. Nei Lineamenti di filosofia del diritto questo principio appare in tutta chiarezza nel § 324: «La determinazione con cui l’interesse e il diritto dei singoli sono posti come momenti evanescenti è anche il positivo: il positivo della loro individualità non casuale, non variabile, ma essente in sé e per sé. Questo rapporto e il suo riconoscimento sono dunque loro dovere sostanziale – il dovere di conservare la loro individualità sostanziale, l’indipendenza e la sovranità dello stato mettendo in pericolo e sacrificando la proprietà e la vita, l’opinione e tutto ciò che è compreso nell’ambito della vita.»
[2] Cfr. La Repubblica, Libro secondo, 369b-374d.
[3] G. W. F. Hegel, Verhandlungen in der Versammlung der Landstände des Königsreichs Württemberg im Jahr 1815 und 1816, in Nürnberger und Heidelberger Schriften 1808-1817, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1970, p. 505.
[4] Cfr. http://classiques.uqac.ca/classiques/Rousseau_jj/contrat_social/Contrat_social.pdf, p. 17. Il corsivo è nostro.
[5] Un impulso di devastazione che può costituire lo sfondo antropologico dell’esigenza economica di stimolare la domanda di merci per mezzo della guerra.
[6] Cfr. il § 330 dei Lineamenti: «Il diritto internazionale parte dal rapporto tra stati indipendenti; ciò che in esso è in sé e per sé acquisisce la forma del dover-essere, perché la sua effettività poggia su volontà sovrane differenti», e il § 338 «In quanto gli stati si riconoscono reciprocamente come tali, anche in guerra, nella situazione di assenza del diritto, di violenza e di casualità, resta un legame per cui gli stati valgono l’un per l’altro come essenti in sé e per sé, così che proprio entro la guerra la guerra è determinata come qualcosa che deve passare».
A parte la cantonata vagamente previana sulla filiazione del fascismo dall’anarchia (ci sono stati anarchici fascisti, in effetti, ma non conosco nessun fascista anarchico di ieri e di oggi) lo scritto è molto interessante perchè rientra nell’ambito di quei tentativi di superamento della superstizione marxista che vedo in atto da anni.
Sarebbe bello, per dire, finirla anche con la solfa pelosa della distinzione fra patriottismo e nazionalismo, la differenza essendo semplicemente il grado di simpatia che ci suscita l’uno o l’altro contendente.
Vedere un progressista come Cesaratto, per dire, che rivaluta List e sconfessa la fola dell’internazionalismo proletario e della solidarietà di classe è un piacere quasi fisico.
“Cantonata” mi sembra un termine immeritato; infatti parlavo non tanto di filiazione empirica, quanto di genesi concettuale, usando i termini senza un riferimento storiografico immediato. La distruzione dell’ordine borghese, poiché quest’ordine è distruttivo, restaura la libera benevolenza naturale; questo schema logico è la negazione della negazione. La negazione della negazione è però contraddittoria: è positiva e negativa nello stesso tempo. L’anarchismo si ferma al lato positivo, il fascismo a quello negativo; ossia, nel distruggere, l’anarchismo ha presente solo l’oggetto da restaurare; la distruzione dell’ordine borghese in quanto ha presente solo il piacere della distruzione dell’ordine è fascista. Qui il problema non è empirico (se ci sono anarchici diventati fascisti o se ci sono fascisti diventati anarchici), ma di principio: l’anarchico viola l’ordine per amore dell’uguaglianza tra gli individui senza chiedersi se l’uguaglianza tra gli individui ottenuta con la violenza non sia essa stessa violenza (quanto accaduto nella Cina di Mao in nome dell’uguaglianza dovrebbe averci tolto ogni dubbio su questo problema); IN POTENZA (cioè nel concetto, a prescindere dalla consapevolezza di chi si ritiene anarchico) la violenza anarchica è già fascista; viceversa, il fascismo intransigente è anti-borghese e mira a conservarsi mediante la mobilitazione permanente delle masse e il totalitarismo, cioè tramite la politica estera aggressiva che dissolve l’articolazione statale e rimette il destino dei sudditi alla volontà di Uno; ma la conservazione tramite la mobilitazione aggressiva è, dal punto di vista CONCETTUALE, la stessa cosa che l’uguaglianza tramite la violazione dell’ordine (infatti conservazione=uguaglianza a sé).
Invece, dal punto di vista empirico, dopo il 1910 è Enrico Corradini che apre il nazionalismo al sindacalismo rivoluzionario, facendo osservare che nazionalisti e sindacalisti rivoluzionari hanno in comune lo stesso odio per lo stato liberale e possono trovare ulteriori contatti contaminando la solidarietà di classe con la solidarietà nazionale. Questa apertura trova risposte positive, per esempio nel sindacalista rivoluzionario Paolo Orano, che parla di socialismo nazionale e fonda la rivista LA LUPA in cui collaborano personalità dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Ora, sindacalismo rivoluzionario, socialismo massimalista, già in quanto sono organizzazioni centralizzate, non sono identici all’anarchismo, ma non sono neanche così diversi: hanno in comune l’essenza, cioè l’intolleranza all’ordine costituito. – Forse la mia terminologia può essere apparsa sbrigativa; ma non credo proprio di aver tradito i fatti.
Ha ragione, ho usato un termine oggettivamente eccessivo.
Diciamo che gli esiti del fascismo sono stati decisamente opposti, e la filosofia gentiliana (ma in generale idealista) dello Stato etico corporativomi sembra abbastanza incompatibile con l’anarchismo, che lo stesso Gentile giudica più che altro come una estremizzazione del liberalismo britannico.
Idea di per se non scartabile a priori.
Almeno secondo me, dato che non nascondo l’importanza del Gentile medesimo nella mia formazione.
Viceversa sono perfettamente d’accordo con l’idea che lei, implicitamente, ascrive al comunismo come utopia naturalista escatologica al pari (non politicamente, ma filosoficamente) di protestantesimo e massoneria.
Il che oggettivamente nulla ci dice del protestantesimo, della massoneria (personalmente ho.una venerazione quasi fisica per il massone Beneduce)e del comunismo, ma ci aiuta ad accomunarli nella storia delle idee, che è l’unico vero strumento per interpretare la realtà politica concreta.
Tanto per fare un singolo esempio e non apparire troppo vago: l’assonanza della sinistra europea con le utopie feudalistiche di Kalergi, Menger ed Hayek.
Apparentemente molto distanti, in realtà accomunate dalla stessa visione di fondo della Storia come trauma da superare.
Come notava Calamandrei, il fascismo è un regime doppio, legale la facciata, violenta la sua realtà. Lo stesso corporativismo ha la facciata di voler conciliare il contrasto di classe tra operai e capitalisti, ma nella sua realtà è soltanto la soppressione della libertà sindacale. Quanto a Gentile, concordo con lei sull’estraneità della sua mistica dello stato all’idea anarchica; trovo però che Gentile non sia determinante nella storia del fascismo: la sua proposta, come presidente della commissione dei diciotto (Soloni), di un liberalismo non parlamentare fu subito respinta da Mussolini, che preferì le proposte di Rocco dirette verso una dittatura personale con tendenze totalitarie.
Ciò contrasta sia con la storia personale di Gentile, sia con l’architettura dello Stato fascista, sia con quello che lo stesso Mussolini dettava a Yvon de Begnac.
Su quello che pensava Calamandrei, come ho già scritto in un altro post non suo, francamente non mi interessa, come non mi interesserebbe un eventuale illuminato appello di Pacciani o di Cefis o di altri deleteri psicopatici (essendo Calamandrei il mandante quantomeno morale dell’omicidio di Gentile).
Per il resto, in Russia non è affatto raro trovare Ivan il Terribile di fianco a Stalin, perché i Russi hanno fatto i conti con il loro passato, anche traumatico e noi no.
Il rifiuto di una seria analisi del fascismo ha portato alla svalutazione degli altri due momenti fondamentali della storia unitaria (in senso lato) ovvero Risorgimento e Grande Guerra.
Basta vedere le commemorazioni recenti che disgustosa porcata retorica sono state.