La patria degli Italiani
di GIAN RINALDO CARLI (economista, storico e scrittore; 1720-1795)
Sono nelle città le botteghe del caffè ciò che sono nella umana macchina gl’intestini: cioè canali destinati alle ultime e più grosse separazioni della natura, ne’ quali ordinariamente per qualche poco tempo quelle materie racchiudonsi, che se in porzione qualunque obbligate fossero alla circolazione, tutto il sistema fisico si altererebbe. In queste botteghe adunque si digeriscono i giuocatori, gli oziosi, i mormoratori, i discoli, i novellisti, i dottori, i commedianti, i musici, gl’impostori, i pedanti, e simil sorta di gente, la quale se tal vasi escretori non ritrovasse, facilmente nella società s’introdurrebbe, e questa ne soffrirebbe un notabile pregiudizio. Tale però, almeno in alcune ore del giorno, non è la bottega del nostro Demetrio, in cui se talvolta qualche essere eterogeneo vi s’introduce, per ordinario di persone di spirito e di colto intelletto è ripiena, le quali scopo delle loro meditazioni e de’ loro discorsi si fanno la verità e l’amore del pubblico bene; che sono le due sole cose, per le quali, asseriva Pitagora, che gli uomini divengono simili agli Dei.
In questa bottega s’introdusse ier l’altro un Incognito, il quale nella sua presenza e fisonomia portava seco quella raccomandazione, per la quale esternamente lampeggiano le anime sicure e delicate; e fatti i dovuti offizi di decente civiltà, si pose a sedere chiedendo il caffè. V’era sfortunatamente vicino a lui un giovine Alcibiade, altrettanto persuaso e contento di sé quanto meno persuasi e contenti sono gli altri di lui. Vano, decidente e ciarliere a tutta prova. Guarda egli con un certo sorriso di superiorità l’Incognito; indi gli chiede s’era egli forestiere. Questi con un’occhiata da capo a’ piedi, come un baleno squadra l’interrogante, e con una certa aria di composta disinvoltura risponde: “No Signore”. “E’ dunque Milanese?” riprese quegli. “No Signore, non sono Milanese”, soggiunse questi. A tale risposta atto di maraviglia fa l’interrogante; e ben con ragione, perché tutti noi colpiti fummo dall’introduzione di questo dialogo.
Dopo la maraviglia e dopo la più sincera protesta di non intendere, si ricercò dal nostro Alcibiade la spiegazione. “Sono Italiano”, risponde l’Incognito, “e un Italiano in Italia non è mai forestiere come un Francese non è forestiere in Francia, un Inglese in Inghilterra, un Olandese in Olanda, e così discorrendo”. Si sforzò in vano il Milanese di addurre in suo favore l’universale costume d’Italia di chiamare col nome di forestiere chi non è nato e non vive dentro il recinto d’una muraglia; perché l’Incognito interrompendolo con franchezza soggiunse: “Fra i pregiudizi dell’opinione v’è in Italia anche questo; né mi maraviglio di ciò, se non allora che abbracciato lo veggo dalle persone di spirito, le quali con la riflessione, con la ragione e col buon senso dovrebbero aver a quest’ora trionfato dell’ignoranza e della barbarie. Questo può chiamarsi un genio mistico degl’ltaliani, che gli rende inospitali e inimici di lor medesimi, e d’onde per conseguenza ne derivano l’arenamento delle arti, e delle scienze, e impedimenti fortissimi alla gloria nazionale, la quale mal si dilata quando in tante fazioni, o scismi viene divisa la nazione. Non fa (seguitò egli), certamente grande onore al pensare italiano l’incontrare, si può dire ad ogni posta, viventi persuasi d’essere di natura e di nazione diversi da’ loro vicini, e gli uni cogli altri chiamarsi col titolo di forestieri; quasicché in Italia tanti forestieri si ritrovassero quanti Italiani”.
“Da questo genio di emulazione, di rivalità, che dai Guelfi e Ghibellini sino a noi fatalmente discese, ne viene la disunione, e dalla disunione il reciproco disprezzo. Chi è quell’Italiano, che abbia coraggio di apertamente lodare una manifattura, un ritrovato, una scoperta, un libro d’Italia, senza il timore di sentirsi tacciato di cieca parzialità, e di gusto depravato e guasto?”. A tale interrogazione un altro caffettante, a cui fe’ eco Alcibiade, esclamò che la natura degli uomini era tale di non tenere mai in gran pregio le cose proprie. “Se tale è la natura degli uomini” riprese l’Incognito, “noi altri Italiani siamo il doppio almeno più uomini degli altri, perché nessun oltremontano ha per la propria nazione l’indifferenza che noi abbiamo per la nostra”. “Bisogna certamente che sia così”, io risposi. “Appare Newton nell’Inghilterra, e lui vivente l’isola è popolata da’ suoi discepoli, da’ astronomi, da’ ottici, e da’ calcolatori`, e la nazione difende la gloria del suo immortale maestro contro gli emoli suoi. Nasce nella Francia Des Cartes, e dopo sua morte i Francesi pongono in opera ogni sforzo per sostenere le ingegnose e crollanti sue dottrine. Il Cielo fa dono all’Italia del suo Galileo, e Galileo ha ricevuti più elogi forse dagli estranei a quest’ora, che dagli Italiani”.
Fattasi allora comune, in cinque ch’eravamo al caffè, la conversazione, e riconosciuto l’Incognito per uomo colto, di buon senso, e buon patriota, da tutti in vari modi si declamò contro la infelicità a cui da un pregiudizio troppo irragionevole siam condannati di credere che un Italiano non sia concittadino degli altri Italiani, e che l’esser nato in uno piuttosto che in altro di quello spazio “Che Appennin parte, il Mar circonda e l’Alpe” confluisca più o meno all’essenza, o alla condizione della persona. Fu allora che rallegratosi un poco l’Incognito cominciò a ragionare in tal guisa: “Dacché convinti i Romani della gran massima attribuita al primo dei loro re di avere gli uomini in un sol giorno nemici prima, e poi cittadini, si determinarono per la salvezza della repubblica ad interessare tutta Italia nella loro conservazione, passo passo tutti gl’Italiani ammisero all’amministrazione della repubblica: il perché non vi fu più distinzione di Quiriti, di Latini, di Provinciali, di colonie, di municipi; ma dal Varo dell’Arsa tutti i popoli divennero in un momento Romani”. Ora tutti sono Romani, parlando degli Italiani, dice Strabone. Tutti adunque partecipi degli onori di Roma, e tutti ridotti alla medesima condizione con la sola distinzione del censo, cioè di patrizi e di plebe.
Se le nazioni dovessero gareggiar fra di esse per la nobiltà, noi Italiani certamente non la cediamo a nessun’altra nazione d’Europa; perché trattone alcune colonie e la posteriore indulgenza degli imperadori, allorché spento era il vigor de’ Romani, erano tutte alla condizione di provincia rette da’ magistrati italiani e da regolata milizia tenuti in dovere; nel tempo che l’Italia rerum domina si chiamava, come prima dicevasi la sola Roma”.
“In cotesti tempi crediamo noi che un patrizio, italiano fosse più o meno d’un altro, o fosse forestiero in Italia? No certamente; se persino la suprema di tutte le dignità, cioè il consolato, comune sino agli ultimi confini d’Italia si rese. Siamo stati dunque tutti simili in origine; che origine di nazione io chiamo quel momento in cui l’interesse e l’onore la unisce e lega in un corpo solo e in un solo sistema. Vennero i barbari, approfittando della nostra debolezza, ad imporci il giogo di servitù, non rimanendo se non che in Roma un geroglifico della pubblica libertà nella esistenza del Senato romano. Sotto a’ Goti pertanto siamo tutti caduti nelle medesime circostanze e alla medesima condizione ridotti. Le guerre insorte fra Goti e Greci, la totale sconfitta di quelli e la sopravenienza` de’ Longobardi han fatto che l’Italia in due porzioni rimanesse divisa. La Romagna, il Regno di Napoli e l’Istria sotto i Greci; e tutto il rimanente sotto de’ Longobardi. Una tal divisione non alterò la condizione degl’Italiani, se non in quanto che quelli, che sotto a Greci eran rimasti, seguirono a partecipare degli onori dell’Impero trasferito in Costantinopoli, memorie certe ne’ documenti essendosi conservate di Romagna, d’Istria e di Napoli, dei tribuni e degli ipati o consoli; nel tempo che l’altra parte d’Italia sotto il tiranno governo dei duchi e dei re barbari si perdeva. Ma rinovato l’Impero in Carlo Magno, eccoci di nuovo riuniti tutti in un sistema uniforme. Questo fu lo stato d’Italia per lo spazio di undici secoli; e questo non basta a persuader gl’Italiani d’esser tutti simili fra di loro, e d’esser tutti Italiani”.
Qui dolcemente interrogò un caffettante, più per piacere che la conversazione progredisse più oltre, che per vaghezza di opporsi; s’egli credesse che dopo tali tempi gl’Italiani patito avessero sproporzionatamente qualche deliquio, o alterazione di stato, o sia di condizione e di dignità? “Dopo tali tempi” il nostro Incognito prontamente soggiunse, “è noto ad ognuno cosa accadesse. La distanza degl’Imperadori, la loro debolezza, e la gara fra i concorrenti all’Impero diede comodo agli Italiani di risvegliare e porre in moto i sopiti spiriti di libertà; e ciascheduna città dal canto suo tentò di scuotere un giogo che non aveva origine da verun diritto, ma bensì dalla forza sola, e che per la tirannia era divenuto insopportabile. Allora fu che modificandosi in varie guise questo originario e perdonabile trasporto di obbedire alle leggi, e non all’altrui volontà, alcune delle città si eressero, e, per meglio dire, ritornarono ai propri princìpi d’un governo repubblicano; ed alcune altre sotto a’ propri capi, o ecclesiastici o secolari, esperienza fecero delle proprie forze.
Quindi ne venne che alcuni Italiani delle proprie città divenissero padroni, o sovrani; ed alcune altre nella condizione di repubblica si mantenessero. Felice l’Italia se questo comune genio di libertà sparso per tutta questa superficie fosse stato diretto ad un solo fine, cioè all’universale bene della nazione! Ma i diversi partiti del sacerdozio e dell’Impero tale veleno negli animi degl’Italiani introdussero che non solo città contro città, ma cittadino contro cittadino, e padre contro figlio si vide fatalmente dar mano all’armi. Allora alcune città, mercé l’industria e il commercio, della debolezza delle altre s’approfittarono; né la Pace di Costanza altro produsse che, fomentando la disunione, preparar le città quasi tutte a perdere interamente la libertà per quella medesima via per la quale credevano di ricuperarla. Ora ciò posto, qual differenza ritrovar si può mai fra Italiano e Italiano, se uguale è l’origine, se uguale il genio, se ugualissima la condizione? E se non v’è differenza, per qual ragione in Italia tale indolenza, per non dire alienazione, regnar deve fra noi da vilipenderci` scambievolmente, e di credere straniero il bene della nazione?”.
Ma il nostro Alcibiade riscosso come da un sonno e come se nulla avesse inteso del seguìto ragionamento, prendendo con una certa tal quale impazienza il risultato di esso, cioè le ultime parole, esclamò : “Se le vostre massime si rendessero comuni, non vi sarebbe più distinzione fra città e città, fra nobile e nobile, e inutili ornamenti sarebbero i contrassegni d’onore e le decorazioni che ci vengono dalle mani dei principi”.
“E che male ci trovereste voi” soggiunse l’Incognito, “in tal sistema? Una muraglia, che chiuda e cinga trentamila case, ha forse per qualche magia acquistata prerogativa maggiore d’un’altra, che non ne cinge che mille; quando tanto nell’una che nell’altra il popolo sia della medesima origine e della medesima condizione? Non nego io già che, dati i pregiudizi e gli scismi presenti, non dobbiamo anche a questi donar qualche cosa e distinguere le città che non sono ad altre leggi soggette che alle proprie; e dopo queste distinguere ancora le città di primo e di secondo rango, cioè quelle che sono state partecipi della maggiore di tutte le nobiltà, vale a dire della romana, che nel tempo di mezzo ritornarono allo stato repubblicano e che capitali sono di provincia, o di considerabile territorio; da quelle altre che origine hanno meno lontana e che in provincia sono ridotte.
Rispettabili altresì sono i personali distintivi caratteri degli individui, come pubbliche testimonianze dei loro merito, sia per uffizi e dignità ch’essi coprono, sia per onori d’opinione onde sono così coperti, cosicché venerabili sono le insegne tutte dai quadrupedi ai volatili sino all’ultima stella della coda dell’Orsa Minore, e da queste alle intellettuali sostanze dell’Empireo: ma non per questo si dirà mai che un Italiano sia qualche cosa di più o di meno d’un Italiano, se non da quelli a’ quali manca la facoltà di penetrare al di là del confine delle apparenze e che pregiano una pancia dorata e inargentata più che un capo ripieno di buoni sensi ed utilmente ragionatore. Alziamoci pertanto un poco e risvegliamoci alla fine per nostro bene.
Il Creatore del tutto nel sistema planetario pare che ci abbia voluto dare un’idea del sistema politico. Nel fuoco dell’elissi sta il Sole. Pianeti, o globi opachi, che ricevono il lume da lui, vi si aggirano intorno nel tempo medesimo che sopra i propri assi eseguiscono le loro rivoluzioni. Una forza che gli spinge per linea dritta contro un’altra che al Sole medesimo gli attrae, fa che un moto terzo ne nasca; onde secondo le reciproche loro distanze e grandezze mantengano intorno al centro comune il loro giro. Alcuni di questi globi intorno di sé hanno de’ globi più piccoli, che con le medesime leggi si muovono. Alcuni altri sono soli e isolati.
Trasportiamo questo sistema alla nostra nazionale politica. Grandi, o picciole sieno le città, sieno esse in uno, o in altro spazio situate, abbiano esse particolari leggi nelle rivoluzioni sopra i propri assi, siano fedeli al loro natural sovrano ed alle leggi, abbiano più o meno di corpi subalterni: ma benché divise in domìni diversi, e ubbidienti a diversi sovrani, formino una volta per i progressi delle scienze e delle arti un solo sistema; e l’amore di patriotismo, vale a dire del bene universale della nostra nazione, sia il Sole che le illumini e che le attragga. Amiamo il bene dovunque si ritrovi; promoviamolo ed animiamolo ovunque rimane sopito o languente; e lungi dal guardare con l’occhio dell’orgoglio e del disprezzo chiunque per mezzo delle arti, o delle scienze tenta di rischiarare le tenebre, che l’ignoranza, la barbarie, l’inerzia, l’educazione hanno sparso fra di noi, sia nostro principale proposito d’incoraggiarlo e premiarlo. Divenghiamo pertanto tutti di nuovo Italiani, per non cessar d’esser uomini” .
Detto questo s’alzò improvvisamente l’Incognito, ci salutò graziosamente e partì, lasciando in tutti un ardente desiderio di trattare più a lungo con lui e di godere della verità dei di lui sentimenti.
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