Sul cosmopolitismo
di LUCIANO DEL VECCHIO (ARS Emilia-Romagna)
Il cosmopolitismo (dal greco kòsmos, mondo, e politès, cittadino) tradizionalmente definisce la dottrina che attribuisce a ogni individuo la cittadinanza del mondo; e presenta tre caratteri essenziali, sia come condizioni che come necessarie conseguenze: un assunto individualistico che considera l’uomo autonomo dai vincoli culturali, sociali e politici; l’affermazione di eguaglianza tra gli uomini in virtù di un condiviso elemento unitario come la natura umana o la ragione; e un carattere pacifistico derivato dall’idea di comunanza e uguaglianza. L’accezione individualistica del cosmopolitismo si espresse nella filosofia post-socratica come desiderio di autodeterminazione e di liberazione dai legami politico-territoriali ma, a seconda dei mutamenti storici, si alternò e si compenetrò con il principio di unione e solidarietà tra gli uomini, che i filosofi stoici, in un rinnovato clima politico-sociale, individuarono nella comune natura razionale.
Per il “cittadino del mondo” proclamarsi tale può essere un modo per esprimere insofferenza verso qualsiasi obbligo nei confronti della città-patria e dei suoi concittadini. In tal caso, dichiarando di appartenere al mondo anziché a una patria, il cosmopolita non assume né responsabilità etica di cittadinanza né impegno a rispettare le leggi di nessuno Stato in particolare. Inoltre, il rifiuto del vincolo di solidarietà con la polis non necessariamente né automaticamente lo induce a estendere la responsabilità verso organismi internazionali alternativi alle istituzioni patrie, specie quando questi o non esistono o, esistenti, non sono obbligati giuridicamente a garantire i diritti civili e sociali. Se ne conclude che la “posa” di dichiararsi cittadino del mondo null’altro nasconda che un disconoscimento di appartenenza dettato dall’egoismo del singolo e da un suo comportamento arbitrario.
Questo intreccio tra sentimento universalistico e indifferenza per la propria comunità politica carica il concetto di cosmopolitismo di una sospetta ambiguità che, nel corso di varie epoche, fece sorgere giudizi contrastanti. A partire dal XVII secolo i “philosophes“, oscillando tra critiche e approvazioni, ironie e riattribuzioni di senso, lo interpretarono in una duplice accezione. Da una parte ne fecero un concetto moralmente forte, sia pur vago, un’ideale umanistico di tolleranza e solidarietà umana il quale, oltre che necessario al benessere spirituale, arricchirebbe culturalmente l’individuo. Voltaire infatti sostiene che il cittadino del mondo può conoscere molto di più la vita e la cultura rispetto al patriota, la cui mentalità sarebbe limitata dai pregiudizi nazionalistici. Dall’altra, il cosmopolitismo rimase un concetto politicamente debole appunto perché quella componente di insofferenza – se non di ostilità – al proprio ambiente d’origine impedisce al principio di reificarsi nella vita politica e ne suggerisce una definizione soltanto in negativo opponendolo al patriottismo.
Come il solo slancio di tolleranza e solidarietà, forse sincero ma pur sempre contingente, non può realizzare il modello d’unione disinteressata tra gli uomini, così è arduo credere che la compassione possa sostituire il rispetto delle leggi o rafforzare la giustizia. Per farsi carico di tale compito, non basta la buona fede del singolo, privo di legami con un corpo politico che d’ordinario definisce gli interessi della comunità, ma occorre lo sforzo congiunto dell’intera comunità costituitasi Stato. Il cittadino del mondo, illudendosi di oltrepassare con i propri sentimenti umanitari i confini politico-istituzionali dello Stato, si colloca al di fuori del contesto legale in cui si esprime la volontà generale, riducendo l’impegno a favore dei comuni obblighi politici e minacciando di rompere l’equilibrio costitutivo su cui si regge il patto sociale. Finché è compito dello Stato garantire la sicurezza dei cittadini, il principio cosmopolitico continua a restare politicamente arido e vincolato alla volontà di singole menti incapaci di influenzare la realtà o di suggerire un convincente progetto politico alternativo allo Stato.
Non riuscendo a esprimere una concreta visione politica, il cosmopolitismo appare piuttosto ispiratore di un generale modello d’umanità e tolleranza per uomini singoli, viaggiatori, scienziati o letterati, che condividono i loro interessi in comunità laiche sovranazionali (“repubblica delle lettere”), all’interno delle quali il principio cosmopolitico si intreccia alla nozione di universalismo, ma conserva la pretesa individualistica. Tuttavia, se sentirsi “amico” di una vaga e indistinta umanità potrebbe costituire un valore, sia pure utopistico, l’avversione e il disprezzo per la propria comunità d’appartenenza sono impulsi deleteri per il tessuto sociale collettivo. In questa accezione viene menzionato il cosmopolitismo in “Le Cosmopolite ou Citoyen du monde” (1753), un’autobiografia in cui l’autore, Fougeret de Montbron, dichiara di viaggiare senza sosta perché “tutti i paesi sono lo stesso per me” e “cambio paese di residenza secondo il mio capriccio”. In sostanza questa cittadinanza mondiale si risolve in un “individualismo cinico dove l’equivalenza dei luoghi corrisponde al disprezzo per ogni collettiva appartenenza” (Taglioli A, La terra degli altri), in una specie di vagabondaggio avventuroso e nell’irrisione anarchica dell’ordine sociale.
Non dunque un rimedio contro l’egoismo naturale degli uomini e il loro individualismo turbato ma, inteso semplicemente come mera contrapposizione all’amor di patria, il cosmopolitismo non fa che alimentare questi istinti in modo ancora più grave, minacciando sempre qualsiasi nuovo organismo politico fondato da una particolare comunità. Nel manoscritto del Contratto sociale, a queste grandi anime cosmopolitiche che si opporrebbero all’egoismo individuale, Rousseau riserva sferzante ironia: “… cominciamo a diventare propriamente uomini solo dopo che siamo diventati cittadini. Questo ci dimostra di cosa dobbiamo pensare di quelli cosiddetti cosmopoliti i quali, […] si fanno un vanto di amare tutto il mondo per godere del privilegio di non amare nessuno”. E ancora, ne l’Emilio, esortando a diffidare dei cosmopoliti che cercano in un lontano altrove i doveri che esitano di compiere a casa propria, li considera come una specie di impostori indifferenti a ogni obbligo morale.
Oggi il cosmopolitismo riceve nuova linfa con la globalizzazione, che svuota progressivamente la sovranità degli Stati e prefigura l’istituzione di un governo mondiale. L’interdipendenza dei processi economici e politici sembra rafforzare quel progetto politico di formazione di nuove istituzioni sovranazionali, caldeggiato da Kant, che storicamente è sempre nato debole, ma che non manca di promettere e predicare pace e giustizia a livello globale. In realtà, la sovrastruttura ideale e utopica serve a camuffare lo scopo di assicurare garanzie per il capitale finanziario e di omogeneizzare i mercati mondiali. In questi contesti al cosmopolita autoctono che sdegna l’appartenenza d’origine si è aggiunta una nuova figura di “cittadino di mondo” allogeno e nomade, che sembra recuperare e avvalorare l’iniziale valenza cinica e negativa del termine: il volontario rifiuto di integrarsi in seno alla comunità nazionale dove ha scelto di commerciare e consumare.
Un tempo si viveva in piccole comunità e il senso di appartenenza era riservato al clan o alla tribù. L’evoluzione sociale e tecnologica ha indotto gli esseri umani a organizzarsi in strutture più ampie e complesse trasferendo, di volta in volta, quel senso di appartenenza alle polis, alle nazioni. L’istintivo, spontaneo “senso di appartenenza” è stato codificato e trasformato in “cittadinanza”. “nazionalità”. Inevitabilmente, si giungerà a considerare “unitario” il pianeta: è solo una questione di prospettiva. Se il “male” è da identificarsi nell’estensione del concetto di “patria” al mondo intero, allora non resta che recuperare le origini e riconsiderare la massima parcellizzazione possibile della società (il clan?). Ma considererei ragionevole ipotizzare che le derive neoliberiste/globaliste che viviamo abbiano origine nella debolezza tipica delle nascenti democrazie che, a fronte di strutture anche già funzionali, sono pressoché del tutto prive dell’elemento fondamentale: i “democratici”, ovvero gli individui capaci di comprendere e gestire il sistema coerentemente e la cui proporzione, nel totale dei componenti della società, non può essere inferiore a una “sostanziosa minoranza”. Una parola, infine, sulla citazione attribuita a Rousseau. I momenti storici e le vicissitudini politiche condizionano, più che il pensiero, i lemmi e la loro interpretazione. Ragionevole ritenere che, al sorgere della prima rivoluzione industriale, la pressione sulla società perché assumesse la forma più utile alle nuove emergenti tecnologie (e al sistema economico-politico che si stava per affermare) fosse estrema e condivisa anche da menti illuminate che vedevano nel progresso un destino ineluttabile (da cui la necessità inevitabile di adattarvicisi). Ma i tempi cambiano e mutano i paradigmi: ha davvero senso, ancora, preoccuparsi per il “capitale” e la “produzione”? Quali elementi identificano il concetto di “patria”, “nazione”, “stato”, e quanto si può ragionevolmente prevedere che evolvano nel prossimo futuro? Esistono soluzioni alternative a quelle note e sperimentate, alcune ancora inesplorate.
Buon articolo, anche se sfiora appenai due nodi centrali:
1) la fallacia della metafisica liberale della soggettività individuale, che induce i pennivendoli di regime a dichiararsi “contro l’identità”: come se l’etica e la politica cosmopolite, a base di diritti umani e rispetto della proprietà privata, fossero alcunché di meno arbitrario e pregiudiziale rispetto a qualsiasi altra religione o ideologia;
2) l’impossibilità di sopprimere la radice aggressiva dell’essere umano (questa “scimmia assassina”), che se non viene incanalata nell’odio verso l’altro-da-sé si riverbera verso l’interno disfacendo il vincolo comunitario: la sostanza del ‘politico’, liquefacendosi, si rende massimamente pervasiva e la creazione di uno stato mondiale si risolve nella guerra civile strisciante e permanente.
Ma sbaglierebbe chi attribuisse la paternità di questi concetti a Schmitt e alla cultura nazi-fascista, perché essi erano stati enunziati, con impareggiabile pregnanza, dal più grande fra i letterati italiani (faccio il copia-incolla):
“L’uomo non si potrà mai (come nessun vivente) spogliare dell’amor di stesso, né questo dell’odio verso altrui. Riconcentrato il potere, tolto agl’individui quasi del tutto il far parte della nazione, di più, spente le illusioni, l’individuo ha trovato e veduto il ben comune come diviso e differente dal proprio. Dovendo scegliere, non ha esitato a lasciar quello per questo. E non poteva essere altrimenti, essendo uomo, e vivendo. Sparite effettivamente le nazioni, e l’amor nazionale, s’è spento anche l’odio nazionale, e l’essere straniero non è più colpa agli occhi dell’uomo. S’è perciò spento l’odio verso l’altrui, l’amor proprio? allora si spegnerà quando la natura farà un altro ordine di cose e di viventi. La fola dell’amore universale, del bene universale […] ha prodotto l’egoismo universale. Non si odia più lo straniero? ma si odia il compagno, il concittadino, l’amico, il padre, il figlio; ma l’amore è sparito affatto dal mondo, sparita la fede, la giustizia, l’amicizia, l’eroismo, ogni virtù, fuorché l’amor di se stesso. Non si hanno nemici nazionali? ma si hanno nemici privati, e tanti quanti son gli uomini; ma non si hanno più amici di sorta alcuna, né doveri se non verso se stesso. Le nazioni sono in pace al di fuori? ma in guerra al di dentro, e in guerra senza tregua, e in guerra d’ogni giorno, ora, momento, e in guerra di ciascuno contro ciascuno, e senza neppur l’apparenza della giustizia, e senz’ombra di magnanimità, o almeno di valore, insomma senz’una goccia di virtù qualunque, e senz’altro che vizio e viltà; in guerra senza quartiere; in guerra tanto più terribile, quanto più è sorda, muta, nascosta; in guerra perpetua e senza speranza di pace. Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? ma si odiano, si perseguitano, si sterminano a tutto potere i vicini, gli amici, i parenti; si calpestano i vincoli più sacri; e la guerra essendo fra persone che convivono, non c’è un istante di calma, né di sicurezza per nessuno. Qual nemicizia dunque è più terribile? Quella che si ha co’lontani, e che si esercita solo nelle occasioni, certo non giornaliere; o quella ch’essendo co’vicini si esercita sempre e del continuo, perché continue sono le occasioni? […] LA SOCIETA’ NON PUO’ SUSSISTERE SENZ’AMOR PATRIO, ED ODIO DEGLI STRANIERI. Essendo l’uomo essenzialmente ed eternamente egoista, la società per conseguenza, non può essere ordinata al ben comune, cioè sussistere con verità, se l’uomo non diventa egoista di essa società, cioè della sua nazione o patria, e quindi naturalmente nemico delle altre […]. Resta dunque che l’egoismo sociale abbia per oggetto una società di tal grandezza ed estensione, che senza cadere negl’inconvenienti delle piccole, non sia tanto grande, che l’uomo per cercare il di lei bene, sia costretto a perdere di vista se stesso; il che egli non potendo fare mentre vive, ricadrebbe nell’egoismo individuale. L’egoismo universale (giacché anche questo non potrebb’essere altro che egoismo, come tutte le passioni e tutti gli amori de’viventi) è contraddittorio nella sua stessa nozione, giacché l’egoismo è un amore di preferenza, che si applica a se stesso, o a chi si considera come se stesso: e l’universale esclude l’idea della preferenza. Molto più poi è stravagante l’amore sognato da molti filosofi, non solo di tutti gli uomini, ma di tutti i viventi, e quanto si possa, di tutto l’esistente: cosa contraddittoria alla natura […]. Prima del Cristianesimo […] i vinti erano miseri e schiavi, cosa naturalissima in tutte le specie di viventi, oggi lo sono né più né meno anche i vincitori e fortunati, cosa barbara ed assurda; allora chi moveva la guerra, era spesso ingiusto colla nazione a cui la moveva, adesso chi la muove è ingiusto, appresso a poco, tanto con quella a cui la move, quanto con quella per cui mezzo e forza la muove: e ciò tanto nel muoverla, quanto in tutto il resto delle sue azioni pubbliche ” (Giacomo Leopardi, Zibaldone, maiuscolo originale).
Quanto appare lunga e difficile la strada per arrivare ai concetti di Natura delle cose e di Proairesi!