I veri demolitori della scuola pubblica
Gli Stati generali della conoscenza della CGIL e il ruolo degli intellettuali – Le analisi e le proposte di Alternativa
di Massimo Bontempelli e Fabio Bentivoglio – Alternativa. fonte megachip
La Federazione Lavoratori della Conoscenza – CGIL ha lanciato un appello al mondo della cultura per aderire e partecipare ai cosiddetti Stati generali della conoscenza.
L’appello, si legge nel documento, è rivolto “a tutti coloro che credono occorra innovare l’istruzione, la formazione e la ricerca” che rappresentano “il principale fattore per garantire l’esercizio dei diritti di cittadinanza, per evitare il declino civile ed economico del paese e costruire un modello di sviluppo fondato sulla qualità”.
Oltre all’adesione di Luigi Berlinguer e di altri noti berlingueriani, seguono firme di un nutrito gruppo di personalità di spicco del mondo della cultura. Sorge spontanea una domanda: com’è possibile trovare in uno stesso documento le firme di personalità di grande spessore culturale come Alberto Asor Rosa, Oliviero Beha, Piero Bevilacqua, Andrea Camilleri, Marco Revelli, Paolo Virzì, Antonio Tabucchi ed altri, insieme a quelle di personaggi come Luigi Berlinguer e dei suoi simili? Come possono convivere in uno stesso documento nomi di figure esemplari di impegno etico come quelle di Luigi Ciotti, Andrea Gallo, Raniero La Valle insieme a quelle di Berlinguer e dei berlingueriani?
Lo sconcerto è legittimo: sarebbe come trovare le firme del giurista Rodotà e dell’avvocato Ghedini sotto uno stesso documento volto a promuovere la tutela della sfera privata individuale, oppure scoprire che quando era vivo, monsignor Di Liegro avesse sottoscritto un testo sull’immigrazione con Borghezio.
Si potrebbe pensare che alcuni firmatari del documento siano stati accecati dalla povertà di spessore storico-culturale del loro scientismo, come nel caso di Rita Levi Montalcini e di Piergiorgio Odifreddi. Sia ricordato per inciso: indimenticabile la risposta della Rita Levi Montalcini all’obiezione circa il condizionamento delle multinazionali sulla ricerca scientifica: «Io non le ho mai incontrate».
Altri potrebbero non aver ben compreso insieme a chi firmavano per la loro totale mancanza di conoscenza del mondo della scuola e degli interventi che vi sono stati fatti in sostanziale continuità dai governi di centro-sinistra e di centro-destra.
Queste due ipotesi, però, se possono valere per qualcuno dei firmatari, non valgono certo per i nomi su citati, o, per lo meno, per quasi tutti. Si tratta di personalità che non possono non conoscere il ruolo giocato da Berlinguer e dal berlinguerismo nella triste storia della demolizione del sistema pubblico nazionale dell’istruzione.
La ricerca di una ragione esplicativa di questo insieme eterogeneo di firme esige una chiave di lettura non individuale e psicologica, ma sociale e storica. Quando qualche individuo agisce in una direzione opposta alla motivazione ideale su cui è cresciuto, si può certo parlare di ingenuità, o di tradimento, o di scollamento mentale. Quando però è un intero gruppo a seguire questo comportamento, allora tali categorie (tradimento, ingenuità…), sono fuorvianti, perché il movente non va cercato sul piano delle scelte individuali, ma su quello dei movimenti collettivi. Nel nostro caso abbiamo a che fare con un gruppo, con un nutrito gruppo di intellettuali.
Per dar ragione di questo comportamento bisogna richiamarsi ad una lunga e pesante tradizione storica degli intellettuali italiani, che, a partire dal Rinascimento, sono sempre stati incapaci di collocarsi davvero al di fuori e coerentemente in contrapposizione dei luoghi anche più esiziali del potere. Con rarissime eccezioni, si è stati con la Francia o con la Spagna, e, su su fino al secolo scorso, o con la DC o con il PCI. Oggi non si concepisce di stare contro Berlusconi se non con almeno qualche aggancio con il PD e con la CGIL.
L’intellettuale italiano è costitutivamente incapace di portare fino in fondo con dignità e coraggio una critica teorica e pratica dei sistemi di potere nocivi al Paese. Non sa rischiare la non visibilità, l’isolamento, la perdita di strumenti di intervento.
Scienziati, letterati, registi, attori, filosofi e quant’altri sentono il bisogno, per mantenere il rilievo dei loro contenuti professionali, di tenere sempre un piede, o almeno un dito, nei luoghi del potere.
Il danno che fanno al Paese è enorme: con le loro contiguità mai spezzate del tutto, sfumano i contorni, confondono, disfano con una mano quello che tessono con l’altra.
Rinfreschiamo la memoria su Luigi Berlinguer, anche se è mortificante e scoraggiante doverlo fare ancora oggi, quando basterebbero gli occhi per vedere i disastrosi effetti della stagione delle “riforme e dell’innovazione” come ancora si recita nel documento della FLC-CGIL.
La scuola aveva bisogno di rivitalizzare i suoi contenuti inariditi, per diventare scuola di consapevolezza storica e capacità di cittadinanza. Berlinguer, come ministro del governo Prodi, ne disarticolò i contenuti e ne impostò l’aziendalizzazione con la sciagurata autonomia dell’art. 21 della legge Bassanini. Perseguì con accanimento l’obiettivo di introdurre nella scuola stratificazioni di ruolo e di reddito tra gli insegnanti del tutto arbitrarie, irrazionali e controproducenti, ma propagandate come incentivazione dei meriti. Quando Miriam Mafai – altra firmataria del documento!- scriveva su Repubblica che il povero Berlinguer nel suo sforzo di incentivare la meritocrazia nella scuola trovava la resistenza dei conservatori e del corporativismo, era appena caduto, per il vittorioso contrasto dei Cobas, il famigerato “concorsone” da lui progettato: una prova che avrebbe dovuto selezionare una fascia meglio pagata di insegnanti di “merito”, il cui effetto devastante (tra gli altri) sarebbe stato di squalificare automaticamente di fronte a studenti e genitori, come “privi di merito”, tutti gli altri docenti, cioè la stragrande maggioranza del corpo docente di ogni scuola.
L’attribuzione del “merito”, infatti, era demenzialmente prevista soltanto per un numero prefissato di docenti, non aumentabile neppure di un’unità, neppure in una scuola, dove, poniamo per ipotesi, gli insegnanti fossero stati quasi tutti bravi o bravissimi. Ma non basta. La prova all’ammissione alla fascia di merito sarebbe dovuta consistere nella risposta a batterie di test (circa cento quiz) che avrebbero consentito di individuare gli insegnanti “migliori”, cioè quelli che si erano messi in linea con la didattica di Stato elaborata da famelici e insipienti pedagogisti. Non basta ancora: abbiamo dovuto assistere all’indecenza degli apparati sindacali confederali, con la CGIL in prima linea, pronti a far conoscere in anticipo parti essenziali dei test, pagando la tessera di iscrizione alla CGIL Scuola. Tutto questo ciarpame sulla base del pregiudizio ideologico neoliberista che la meritocrazia dipenda sempre e comunque dalla competizione e dalle differenziazioni retributive, quando nella scuola questi atteggiamenti ottengono l’effetto contrario, mentre quello che occorre sarebbero concorsi seri e puliti per le cattedre, e contesti culturalmente motivanti per i docenti.
Tra le firme di adesione al documento della FLC-CGIL, immancabile quella del pedagogista Benedetto Vertecchi, un altro dei protagonisti dello scempio della scuola italiana (per chi volesse accertarsene è sufficiente che consulti il monumentale volume di seimila pagine Proposte per le terze prove 2000, Franco Angeli Editore, dove si indica esplicitamente lo scopo da perseguire: “superare l’impostazione dell’educazione scolastica centrata sull’organizzazione disciplinare”).
Il potere che Berlinguer ha attribuito, riguardo alla determinazione dei contenuti dell’insegnamento alla lobby dei pedagogisti universitari ha avuto effetti devastanti sulla scuola. La loro pedagogia non ha nessuno dei due fondamenti possibili che potrebbero darle validità: né un fondamento filosofico-antropologico, data la completa ignoranza di costoro dei momenti della storia della filosofia in cui sarebbero reperibili concetti fondativi della prassi educativa, né un fondamento scientifico-psicologico, data l’incapacità scientifica da loro mostrata di connettere in maniera teoricamente rigorosa ed empiricamente verificabile le nozioni pedagogiche a precisi e convalidati concetti della psicologia.
La pedagogia universitaria non è né filosofia né scienza né tecnica empirica, ma è terminologia, ridefinizione verbalistica di termini, intrecciata con un’ideologia di valorizzazione di metodologie astrattamente sovrapposte ai contenuti del sapere.
Questa ideologia è stata chiaramente manifestata dalle Confindustrie europee negli anni immediatamente precedenti all’avvento di Berlinguer: smantellare i contenuti teorici e disciplinari della scuola per sottometterla alla produzione mercantile. Una finalità, questa, perseguita ancora oggi con incredibile tenacia dai riformatori di turno: smantellare i contenuti disciplinari, le cosiddette “materie” è l’ossessione che accomuna tutti gli interventi di riforma da Berlinguer in poi. Scrive Luciano Chiappetta (direttore generale per il personale scolastico del MIUR) su Il Sole 24 Ore del 20 gennaio 2011, per celebrare il piano nazionale “Didattica della comunicazione didattica” che preannuncia la scomparsa dei libri a vantaggio di prodotti tecnologici che “permettono la manipolazione dei contenuti” (?): l’innovazione metodologico-didattica è necessaria “per l’avvicinamento della scuola alla società, ai tempi e ai ritmi di un mondo caratterizzato da un’inarrestabile accelerazione…da qui deriva la necessità di spostare l’asse della didattica dai contenuti alle competenze; anche i saperi si inflazionano, meglio quindi puntare sulle abilità di costruzione del pensiero”.
Se saputa leggere, e in questo decennio gli insegnanti non l’hanno saputa leggere, questa è la sentenza di morte della professionalità docente, necessariamente disciplinare, e necessariamente fondata su parametri culturali e non su parametri utili alla produzione economica.
Le grandi battaglie per la difesa della scuola pubblica, se poste in modo formalistico, rischiano di diventare fuorvianti, perché, oggi, nella scuola, sotto la sua veste formalmente pubblica, cresce una privatizzazione di fatto. L’”autonomia”, l’offerta formativa di ogni scuola (i POF), i progetti, il dissolvimento dei contenuti disciplinari, il linguaggio aziendalistico che è stato assimilato, sono questi i veri fronti su cui andrebbe combattuta, dentro gli istituti scolastici, la battaglia per salvare la scuola e la sua decisiva funzione sociale pubblica.
Il tornante storico che stiamo vivendo impone scelte radicali: difendere e riaffermare il valore della scuola pubblica e della cultura significa smantellare l’edificio delle innovazioni distruttive, e impegnarsi nella costruzione, dalle attuali macerie, della funzione per la quale è nata in Europa la scuola pubblica due secoli fa, quella cioè di trasmettere alle nuove generazioni una cultura della cittadinanza, basata sullo spessore di un sapere non mercantile; a questo scopo è necessario combattere frontalmente (e quindi non sottoscrivere documenti insieme a loro), quanti pensano, consapevolmente o no, ad una scuola che risparmi ai datori di lavoro i costi dell’istruzione professionale e dell’adattamento al mercato del lavoro delle giovani generazioni. Non è più tempo di ambiguità e compromessi.
Quanto prima Alternativa proporrà una bozza di riforma quadro della scuola su cui far convergere le intelligenze ancora vive di questo Paese. D’accordo con gli Stati generali della conoscenza, purché alternativi al deserto culturale prodotto da questa generazione di riformatori di destra e di sinistra
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