TTIP: la dirittura di arrivo
di Mauro Poggi, Ars Liguria
Le trattative per il TTIP, l’accordo di partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti fortemente voluto da Obama, stanno ormai per concludersi. Gli obiettivi dichiarati sono lodevoli: promuovere gli scambi e gli investimenti tra i paesi aderenti, per stimolare l’innovazione, la crescita economica e lo sviluppo, e per sostenere la creazione e il mantenimento di posti di lavoro. Esattamente gli stessi perseguiti dal trattato omologo dell’altro oceano, il TPP, chiuso nell’ottobre del 2015 dopo dieci anni di negoziati, e ora all’esame dei parlamenti dei singoli stati per la ratifica.
Il TTIP è in fase negoziale da soli tre anni. Negli anni ’90 c’era già stato un tentativo di introdurre fra i paesi OCSE delle deregolamentazioni che limitassero la sovranità degli stati a vantaggio degli investitori (MAI, Multilateral Agreement on Investment), ma era abortito nel 1998 a causa delle forti resistenza dell’opinione pubblica, sensibilizzata grazie a Internet – di cui per la prima volta si erano scoperte le potenzialità non solo di informazione ma anche di mobilitazione.
Bisogna però tenere presente che a quell’epoca i popoli erano più reattivi, perché ancora non avevamo subito il trattamento di shock economy che ci viene sapientemente inflitto dal 2008. Oggi siamo tutti molto più arrendevoli; condizionati a una mansuetudine ovina accettiamo con rassegnazione, quando non con riconoscenza, il doloroso ma salvifico percorso di redenzione che ci viene indicato.
Allo stesso tempo, e di conseguenza, oggi i nostri decisori sono molto meno preoccupati di dover rispondere politicamente delle loro azioni: un conto è avere a che fare con cittadini consapevoli, un altro è gestire inconsapevoli sudditi.
Non è per caso se questa volta, a differenza del MAI nel 1998, il negoziato si concluderà felicemente.
TTIP e TPP formeranno così un colosso economico con epicentro gli USA, in grado di imporre le proprie le regole al resto del mondo. Alain Benoist li definisce una NATO economica a governance americana, che toglierà alle altre nazioni il controllo dei loro scambi commerciali a favore di multinazionali la cui unica responsabilità è quella verso i potentati finanziari che le controllano. Un parallelo non peregrino, dal momento che insieme essi costituiscono anche una cintura di contenimento economico delle due potenze escluse, Russia e Cina, in conformità alla visione unipolare dell’ordine mondiale che la “missione manifesta” americana impone.
I termini del Trattato Transatlantico sono stati elaborati in segretezza, sia sul versante americano che su quello europeo. La strategia iniziale, seconda una prassi di neo-demokràtia ormai consolidata, era di procedere nel modo più sommesso possibile fino a che i lavori fossero arrivati al punto di non-ritorno, cioè alle ratifiche parlamentari, senza alcun previo dibattito nell’opinione pubblica o nei parlamenti. Peraltro, chi avrebbe da obiettare ad accordi illuminati che mirano alla promozione degli scambi e degli investimenti fra i paesi, all’innovazione, alla crescita economica e alla creazione e mantenimento dei posti di lavoro ?
Questa strategia ha dovuto essere rivista a partire da un paio di anni fa, a causa della fuga di alcune allarmanti notizie, prima in rete, e poi su alcuni organi del circuito mediatico ufficiale (dove però la questione non ha mai fatto oggetto di vera attenzione). All’inizio dell’anno scorso la Commissione Europea ha cominciato a pubblicare sul suo sito comunicati che sanno più di propaganda che di informazione, e lanciato nello stesso tempo apologetici spot televisivi molto convincenti, specie per chi ne sentiva parlare per la prima volta, cioè la maggioranza delle persone.
Secondo la rappresentazione della Commissione Europea, obiettivo dell’accordo è la rimozione dei dazi sulle merci e le restrizioni in materia di servizi, per consentire una maggiore accessibilità ai mercati e una maggiore facilità degli investimenti. Le regole che finora hanno bene o male garantito il consumatore europeo non verrebbero sostanzialmente alterate ma tutti beneficeremmo dei vantaggi che inevitabilmente produce la libera concorrenza in termini di prezzi, qualità e scelta dei consumi, occupazione e benessere generale.
Le cose non stanno esattamente così.
Come è stato già osservato, le tariffe sono ormai a un livello minimo e non costituiscono alcun ostacolo significativo all’interscambio commerciale fra le due aree. I veri obiettivi possono essere riassunti in due punti:
a) abolizione delle barriere “non tariffarie”, cioè quei vincoli e norme di carattere tecnico, giuridico, commerciale e politico a tutela di produttori, lavoratori e consumatori nazionali;
b) adozione di misure a salvaguardia delle multinazionali, alle quali viene conferita la facoltà di contestare per via legale qualunque iniziativa politica uno stato voglia assumere (si tratti di materia ambientale, sanitaria, sociale o altro) ove ritenessero lese le loro aspettative di profitto. È la famigerata clausola ISSD – Investor State Settlement Dispute: in pratica una drastica riduzione di sovranità a loro favore.
Ne ho scritto a più riprese, e per chi avesse voglia e tempo di approfondire rimando in particolare a questo articolo.
Chi non volesse entrare nei dettagli, invece, può dare un’occhiata al disegnino che segue; dovrebbe bastare per capire l’orientamento generale dell’accordo e indovinare chi ne è il principale beneficiario. Vi si spiega graficamente che la Commissione europea, su 597 riunioni a porta chiusa con le parti interessate, 525 (88%) sono avvenute con i vari gruppi lobbistici delle multinazionali e solo 54 (9%) con rappresentanti di interesse pubblico (il restante 3% sono incontri con gruppi parlamentari).
Fonte: Corporate European Observatory, 14 luglio 2015.
Volendo si può anche ascoltare lo spezzone di tre minuti dedicati all’argomento da Joseph Stiglitz, durante il suo intervento nella Sala Regina di Montecitorio:
Sulla democraticità dell’intero processo Cecilia Malmstroem, Commissario europeo per il commercio – quindi colei che presiede alle trattative per parte europea – è stata adamantina.
Intervistata dal giornalista John Hilary, alla domanda come si conciliava il suo entusiasta appoggio all’accordo con le massicce manifestazioni contrarie che si sono avute in tutta l’Europa nel corso del 2015, ha risposto che non era dal popolo europeo che aveva ricevuto il suo mandato: “I do not take my mandate from the European people“. Un modo brutale ma sincero per dire che non ha alcuna responsabilità politica nei confronti del popolo europeo (tanto lei quanto ogni altro membro della Commissione, peraltro: la Commissione, nonostante sia l’organo esecutivo della UE, è “al riparo dal processo elettorale”).
Il successivo suo tentativo di ridimensionare la dichiarazione ha finito per darne sostanziale conferma.
L’intervista cadeva nella stessa settimana (10 -17 ottobre 2015) nella quale erano state indette centinaia di manifestazioni in tutte le principali città europee (decine in Italia), con Berlino – fulcro dell’iniziativa – che aveva visto sfilare 250.000 persone.
Fonte: Huffington Post.it
Non mi risulta che stampa e TV italiane abbiano dato all’evento un rilievo adeguato: in Italia, molto più che altrove, i media ufficiali hanno sempre trattato l’argomento TTIP con la stessa scrupolosa riservatezza adottata dai negoziatori, e i risultati ahimè si vedono.
La petizione contro l’accordo, lanciata da Stop-TTIP, ha ricevuto quasi 3,4 milioni di adesioni in tutta Europa. Ho cliccato sulla mappa interattiva del sito per sapere in che misura abbiamo contribuito noi italiani, e risulta che le nostre adesioni sono state 78.234, il 2,3% del totale. Un po’ pochino, considerato che la nostra popolazione rappresenta il 12% dell’Unione.
Firmato l’accordo, la battaglia si sposterà nei parlamenti dei singoli Stati. Ma se i nostri parlamentari non sentiranno la pressione di un’opinione pubblica determinata e consapevole, è prevedibile che lo ratificheranno con la stessa bovina indifferenza di cui hanno già dato prova in passato, approvando a cuor leggero riforme e leggi della cui portata letale sembra che ancora oggi non si siano resi conto.
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