Bauman non è un oracolo
di SIMONE GARILLI (ARS Mantova)
Di questi tempi, se un critico della modernità vende milioni di copie dei suoi libri, se questi libri sono in prima fila in tutte le maggiori librerie, e se la sua figura è dibattuta e apprezzata anche nel circo mediatico che tutto manipola ai suoi fini, qualche domanda bisogna farsela.
Bauman è un buon sociologo, con ottime intuizioni, piacevole da leggere e spesso ispirato, ma glissa o sbaglia completamente sui punti nodali del nostro tempo.
In particolare la sua intuizione principale, di una modernità liquida, se è valida al livello della microfisica dei poteri e della vita quotidiana, è assolutamente fuorviante a livello geopolitico, e quindi non può essere presa per modello di riferimento di un’analisi politica complessiva e di un programma politico concreto.
La tesi della modernità liquida, infatti, si accompagna giocoforza con la tesi della globalizzazione, categoria falsa e ideologica. La globalizzazione, a sua volta, si porta dietro la presunta fine degli Stati nazionali e l’idea à la Toni Negri di un Impero capitalistico acefalo che si regola da sé. Basta imperialismo, basta centri strategici nazionali, basta conflitto interno ai confini nazionali, basta organizzazione nazionale del conflitto.
La globalizzazione, invece, può aiutare solo in quanto categoria subordinata all’imperialismo di alcuni Stati nazionali, e in particolare del capofila statunitense. Se significa tentativo di americanizzazione militare, culturale ed economica del pianeta, ha un senso. Se significa predominio impersonale e apolitico della presunta finanza globale e delle imprese transnazionali senza patria, non ha alcun senso, se non quello di scambiare una prescrizione ideologica (globalizzatevi e rinunciate agli Stati nazione!) per una descrizione critica della modernità.
Ecco una demenziale riflessione di Bauman a proposito:
“Noi abbiamo un reale bisogno della politica per decidere sulle questioni che riguardano la società, ma il matrimonio tra il potere e lo Stato-nazione è finito. Mentre il potere si è globalizzato, la politica democratica è rimasta limitata ai confini nazionali e inevitabilmente il popolo ha finito col perdere la fiducia verso istituzioni che si dimostrano incapaci di mantenere le promesse, essendo impotenti di fronte ai grandi processi globali.
Pensiamo ad esempio alla crisi migratoria, un fenomeno globale che noi continuiamo ad affrontare secondo le logiche nazionali. Il punto fondamentale è che le nostre istituzioni democratiche non sono state progettate per affrontare le esigenze di interdipendenza che caratterizzano lo scenario contemporaneo. L’attuale crisi della democrazia quindi è una crisi delle istituzioni dello Stato rappresentativo ridotto ai confini nazionali“.
Si evince che la fine del potere nazionale (di alcuni Stati) non è un dato su cui riflettere e organizzarsi, ma una fatalità irreversibile, che non lascia spazio ad alternative: globalizzatevi, e resistete in un mondo senza confini. Ma non provate neppure a resistere strutturandovi, lo potete e dovete fare solo in modo liquido. Movimenti, non partiti; indignati, non militanti; inter-nazionalisti senza nazione…
E le moltitudini? Quando ci arriverai, caro Bauman?
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