Un Paese ormai disfatto (3a parte)
di GIANFRANCO LA GRASSA (economista)
Un sintomo, non fra i maggiori ma significativo, di quanto sta avvenendo in Italia è il rimaneggiamento subito via via dai settori dell’economia “pubblica”. L’IRI ebbe momenti di fulgore, fin dall’inizio sotto la presidenza di Beneduce. Dopo la guerra fu rafforzata con la Finmeccanica (1948), l’Eni (1953), l’Enel (1962-63). Negli anni ’80 (notate, come “coincidenza”, che ciò avvenne dopo il caso Moro, su cui mi sono diffuso più volte spiegando a che cosa fosse molto probabilmente dovuto) si ebbe la presidenza di Prodi (“sinistra” DC), durante la quale vennero cedute 29 aziende del gruppo (fra cui l’Alfa Romeo, che andò alla Fiat), liquidate Finsider, Italsider, Italstat; si verificò inoltre il tentativo di vendita a prezzo molto basso della SME a De Benedetti, fallito per l’intervento di Craxi e che poi portò ad una vendita ad un prezzo molto, ma molto più alto.
Nel ’92, l’IRI diventò una società per azioni (quindi più facilmente scalabile e vendibile) e iniziò l’epoca delle privatizzazioni con l’accordo tra Andreatta (altro Dc di “sinistra”) e Van Miert (per la Comunità europea). E’ indubbio l’influsso (e le pressioni) di detta Comunità, ma anche la Dc di “sinistra” (che viene salvata in quegli anni da “mani pulite” assieme agli ex piciisti) ci mise la sua parte; come pure l’ex Pci. Ex piciisti e diccì di “sinistra”, i “miracolati” di “mani pulite”, si unirono nel combinare tutti i disastri dell’ultimo quarto di secolo.
Voglio ancora ricordare che, quando presero un più celere avvio le privatizzazioni, l’IRI era affidato alla direzione del Tesoro, dove si trovava un “certo” Draghi, che fu tra i “complici” di fatto della svendita della Telecom ai privati Gnutti e Colaninno con la “benedizione” del governo D’Alema. Le privatizzazioni iniziano con il Credito Italiano (’93) e poi proseguono celermente, smantellando di fatto l’IRI che chiude definitivamente nel 2002. E nel corso di questo inizio secolo, a parte qualche sprazzo (come il già ricordato accordo Eni-Gazprom, di fatto promosso da Putin e Berlusconi), si ha un continuo indebolimento delle aziende strategiche quali Eni e Finmeccanica.
Ultimamente, è sembrato che finisse la smania delle privatizzazioni e che si volesse mantenere sulle imprese rimaste la mano dello Stato. In realtà, queste imprese sono state affidate ad un certo controllo (non però totale, perché comunque nella proprietà azionaria ci sono anche privati) della Cassa Depositi e Prestiti. Una simile proprietà pubblica, secondo me, serve solo a mantenere aperti certi canali di finanziamento per i settori governativi attuali. Non mi sembra si possa esercitare una effettiva direzione da parte dello Stato, cioè da parte di qualche nucleo “pubblico” dotato di capacità strategiche.
In Italia non esiste più un’industria, né privata né pubblica, in grado di supportare appunto vere strategie di carattere nazionale. Tutti i settori importanti – del tipo dell’informazione, telecomunicazioni, aerospaziale, biotecnologie o altro di rilevante – sono molto indeboliti. Si sta proseguendo con alacrità nella distruzione dell’economia del paese, con crescenti disservizi da paese assai poco avanzato, costi elevati, totale inettitudine delle forze lavoro con un minimo di preparazione specialistica (i “preparati” se ne vanno ormai sempre più a lavorare in altri paesi meno disastrati).
Non voglio allungare troppo il discorso con temi che ho già trattato molte volte. Ribadisco semplicemente che noi italiani non possiamo permetterci il lusso di una falsa democrazia come quella in vigore da settant’anni scopiazzando gli Stati Uniti, paese di ben altre dimensioni e potenza. Non abbiamo l’ampiezza territoriale né soprattutto la popolazione né l’avanzamento economico e tecnico – e soprattutto proprio nei settori di punta – indispensabili allo sviluppo ed esercizio di un’appropriata forza, anche bellica. Dobbiamo destreggiarci in un complesso sistema di relazioni internazionali, in una fase di tendenziale, anche se tortuoso, affermarsi del multipolarismo, che è preludio alla necessità (non vicina) di determinati “regolamenti di conti” per la conquista di una supremazia.
Una serie di condizioni esistenti all’uscita dalla seconda guerra mondiale, unitamente alla quasi cinquantennale cristallizzazione bipolare del mondo, hanno consentito la presenza in Italia, pur affidandosi a quella “democrazia”, di forze politiche al governo che, pur essendo nella sostanza strettamente legate all’alleanza atlantica (cioè di fatto subordinate agli Usa), sono riuscite ad ottenere una serie di vantaggi in termini sia economici sia di struttura sociale. E hanno saputo in certi casi mantenere una qualche autonomia di movimento in campo internazionale.
Oggi non è più così; e soprattutto quel partito, che per decenni fu abbastanza vicino all’Urss, è divenuto il più piatto e vile esecutore degli ordini impartiti d’oltreatlantico, mettendo nel contempo in mostra una mediocrità tale da ridurre il paese nelle condizioni (anche culturali, per l’autentica infamia del ceto detto intellettuale) in cui, disperatamente, si trova.
Non ne usciremo mai se non saremo in grado di attuare il ben noto “stato d’eccezione”. Ogni scipita e falsa democrazia (all’americana) andrebbe sospesa per un periodo di tempo non precisabile né tanto meno programmabile in anticipo. In particolare va colpita a fondo la sedicente “sinistra” senza che d’altra parte si possa minimamente supporre nell’attuale opposizione, altrettanto ridicolmente detta di “destra”, l’esistenza delle qualità necessarie alla sua sostituzione. Finché esiste questa opposizione avremo questi governanti che s-governano, che eseguono soltanto gli ordini provenienti dalla “democrazia” americana.
Occorre la lotta a questa “democrazia” ed è necessario spostare le alleanze verso paesi antagonisti degli Stati Uniti. Insomma, bisogna giostrare in una situazione internazionale che andrà facendosi sempre più complicata. E non ci si può illudere che la potenza ancor oggi preminente “lasci andare” l’Italia senza far di tutto per boicottare, e pesantemente, ogni tentativo di sua minima autonomia. Resistere a simili pressioni implica una tale durezza di comportamenti che non se ne può ottenere l’investitura tramite il voto di milioni di cittadini del tutto ignari della situazione; e con una parte cospicua d’essi che continua ottusamente, ciecamente, a credere alla “sinistra”, alla forza politica del tradimento di tutto e tutti da oltre quarant’anni.
Qui e qui rispettivamente la prima e la seconda parte dell’articolo
Articolo e autore interessantissimi.
Perfettamente centrata la conclusione: una resistenza all’impero passa necessariamente attraverso la dittatura (la prima cosa che han fatto i governi ungherese e polacco per inaugurare una politica di modestissima resistenza a Bruxelles, è stata l’instaurazione di un principio di dittatura), ma dove trovare in questa società allo sfascio un soggetto che abbia competenza e tempra morale necessarie per realizzarla e gestirla?
All’occorrenza il nascituro partito sarebbe interessato?
PS: da dove è tratto il saggio?