La Sovranità ai tempi della NATO
di DAVIDE VISIGALLI (Ars Liguria)
Qui vi propongo un testo dell’onorevole Lelio Basso a proposito dell’adesione nella NATO da parte dell’Italia. Questo stralcio fa parte del dibattito avvenuto alla Camera dei deputati nel marzo del 1949. Fu un dibattito molto acceso tra il governo democristiano, guidato da De Gasperi, e le opposizioni parlamentari che mettevano in guardia circa la sostanziale limitazione della sovranità nazionale. Mi sembra importante per capire diversi concetti che poi si sono riproposti anche durante l’adesione ai vari Trattati sulla costituzione dell’Unione Europea. Interessante ricordare come alla Camera fu chiesto di votare sulla base di un documento segreto che non potevano leggere e su cui sarebbe stata imposta la fiducia. Modalità che abbiamo visto riproporsi via via sempre più nel nostro Paese.
BASSO LELIO. […] Per valutare gli aspetti di questo patto, quel che interessa è soprattutto esaminare quale significato esso assume nel complesso della linea politica tradizionale, della politica internazionale dei Paesi che hanno preso l’iniziativa del Patto non quindi dell’Italia, che è un Paese che è oggi chiamato alla firma di uno strumento da altri voluto e preparato, ma delle Potenze del Patto di Bruxelles, del Canada e degli Stati Uniti. Ora si può seriamente sostenere che questi sette Paesi siano sotto la minaccia di una aggressione sovietica? Si può seriamente sostenere che questi Paesi che sono le potenze invitanti, e in modo particolare l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, che sono gli artefici di questo Patto, sentono il bisogno di difendersi dal pericolo di una aggressione dell’Unione Sovietica? Anche a voler accettare per un momento la tesi della politica del carciofo prospettata dall’onorevole Corbino, dovremmo pensare che in tal caso queste iniziative dovrebbero partire dai Paesi più vicini all’Unione Sovietica che sarebbero designati come le prossime vittime, ma in realtà, questi Paesi sono i più refrattari ad accettare le alleanze militari. La Svezia non ha aderito al Patto, la Norvegia, invitata, ha accettato dopo profonde discussioni e dibattiti che hanno certamente turbato la vita politica di quel popolo e questa adesione è stata preceduta da forti pressioni da parte dei Paesi promotori del Patto. Nessuno dei promotori del Patto può sostenere che esso è sotto la minaccia di una aggressione sovietica, ma se mai – e questa minaccia si è ripetuta in questi ultimi decenni in forma grave – di una aggressione da parte della Germania. […] Avremmo compreso un’alleanza difensiva nei confronti di questa eventuale minaccia da parte della potenza tedesca, ma è assurdo, direi, che l’America tema una aggressione da parte dell’Unione Sovietica. […]
E veniamo alla politica americana. Ho sentito dire qui in questa discussione, come l’argomento più valido e più invocato in favore della tesi che il Patto Atlantico non sarebbe un patto aggressivo, che l’America ha sempre fatto una politica di pace, una politica di democrazia, di generosità, di solidarietà con gli altri popoli; è stato detto anche che il popolo americano è un popolo che non vuole combattere, che non ha intenzioni bellicose, che è un popolo generoso e altruista.
Io dirò al contrario che se vi è una politica realista, se vi è una politica degli interessi sempre ben calcolati, questa è la politica estera degli Stati Uniti. Popolo pacifico? Ha combattuto quattro guerre nel secolo scorso e le ha combattute tutte per ragioni economiche: contro l’Inghilterra nel 1812-1814 per contrastare la supremazia sui mari e assicurarsi delle vie di traffico; contro il Messico per strappargli brutalmente delle ricche provincie; la guerra civile combattuta unicamente per ragioni economiche per il trionfo della economia schiavistica e della moderna economia capitalistica; contro la Spagna nel 1898 per Cuba e le Filippine, guerra del tabacco e della canna da zucchero, come fu chiamata fin da allora. […] La politica degli Stati Uniti verso l’America latina si riassume, nel 1823, nella cosiddetta dottrina di Monroe, la quale affermava che ogni intromissione europea nell’emisfero occidentale sarebbe stata considerata dannosa per la pace e per la sicurezza degli Stati Uniti, ai quali veniva riservato uno speciale diritto di protezione.
Io non so quale sarebbe oggi la reazione degli Stati Uniti o la nostra, se una grande potenza continentale d’Europa pretendesse di applicare per suo conto una simile dottrina in Europa. […]
Gli Stati Uniti sono usciti da questa guerra in una posizione che ne fa la potenza capitalistica più forte del mondo. Essi da soli producono più che tutte le altre potenze capitalistiche unite ed essi hanno una capacità ulteriore di espansione molto maggiore di quella delle altre potenze capitalistiche, avendo posto in essere durante la guerra una struttura economica di così vaste proporzioni che, se non mantiene questo alto livello di produzione e di impiego di mano d’opera, rischia di precipitare in una crisi ancora più grave di quella in cui è caduta nel 1929.
La politica americana di oggi ha sul capo questa spada di Damocle: essa è dominata da questa paura del ripetersi della crisi del 1929. Minaccia di crisi che esiste in misura molto più notevole di quanto non si voglia far apparire. Gli Stati Uniti hanno sviluppato il loro apparato produttivo durante la guerra e non possono diminuire né il ritmo della loro produzione, né il livello di impiego della loro mano d’opera senza andare incontro a questa crisi. Ma, mentre negli anni dell’immediato dopo guerra essi hanno potuto avvalersi del fatto che negli anni precedenti i consumi di pace erano stati praticamente sospesi, e quindi le famiglie americane da un lato non avevano potuto mantenere il normale livello dei loro consumi pacifici (automobili, radio, apparecchi frigoriferi, ecc.), e dall’altro lato avevano risparmiato il denaro occorrente a questa spesa, sicché vi era grande richiesta di questi prodotti che ha potuto alimentare le industrie americane; dal 1947 ad oggi invece questa minaccia di crisi si è fatta più grave, perché i vuoti degli anni di guerra sono stati riempiti e parallelamente sono stati consumati in questi acquisti molti dei risparmi accumulati. La richiesta straordinaria del mercato per i consumi di pace è stata soddisfatta e bisogna assolutamente alimentare in altro modo la produzione, perché altrimenti la economia americana rischia di crollare. Quindi la ricerca di nuovi mercati, quindi la necessità di integrare l’insufficiente consumo del mercato interno con l’esportazione di prodotti americani verso mercati stranieri, quindi la necessità di estendere sempre più la propria sfera di influenza economica. Non basta più l’America latina: bisogna ripetere questo tipo di colonizzazione americana e imporre ai Paesi europei l’acquisto dei prodotti americani, onde evitare l’eccessivo accumularsi di stock che rischierebbero di accelerare il ritmo con il quale il capitalismo americano si avvicina alla crisi. […]
In U. S. New and World Report del 31 dicembre 1948 è scritto: «Se veramente la pace fosse assicurata tutto sarebbe sconvolto; al momento attuale le spese per gli armamenti e l’aiuto agli altri paesi sostengono gli affari». E il 2 gennaio 1949 il N. Y. Star aggiunge: «molti uomini di affari temono che se la pace con l’Unione Sovietica fosse realizzata, e se il nostro bilancio militare fosse ridotto, ciò implicherebbe il crollo della nostra attività». Si è persino usata l’espressione di «Panico della pace».
Quindi siamo in una fase della politica americana […] che può sembrare meno imperialista di altre agli occhi dell’osservatore superficiale, perché normalmente non si accompagna con una occupazione militare né con una amministrazione civile americana, bensì con una occupazione di basi soltanto e, anche senza di esse, con un netto predominio economico americano. E per assicurare questo predominio dell’economia americana, l’imperialismo degli Stati Uniti si vale del sistema di legare ai propri interessi i gruppi o le classi dominanti dei singoli paesi: così si è fatto e si fa con i dittatori dell’America latina o con i gruppi che spesso si assicurano il potere con le elezioni addomesticate, così si è fatto in Cina con Chiang Kai-Shek, e così si è fatto e sempre più si va facendo – e lo dico non con spirito fazioso di parte, ma con senso di umiliazione di italiano – con il nostro Governo. […]
Il Patto Atlantico è quindi un patto che assolve perfettamente agli interessi della politica americana e si inquadra nella tradizione che ho illustrato, applicata alla situazione presente e agli attuali rapporti di forza. Si tratta cioè oggi per l’America di assicurarsi il dominio economico e politico dei paesi occidentali per svolgervi liberamente la propria politica di dominazione mondiale di Weltberrscbaft, così come essa l’ha svolta in altri paesi. Si tratta in ispecie di creare basi militari a sostegno di questa politica mondiale, si tratta di assoggettare maggiormente i paesi europei che una volta entrati in questa politica militare aggressiva, evidentemente, non possono più rinunciare alla pesante tutela americana; si tratta di sviluppare nel proprio Paese la produzione massiccia di armamenti standardizzati, da rifornirsi ai Paesi aderenti, in modo che possa l’industria americana accumulare nuovi profitti e possa trovare nuovi investimenti in questa produzione di materiale bellico; si tratta infine di preparare – ove questa scelta si imponesse, fra crisi e guerra -le condizioni migliori possibili per l’attacco all’Unione Sovietica. L’imperialismo ha fatto in questo senso indubbiamente dei progressi, di cui bisogna dargli atto. È nella natura dell’imperialismo provocare la guerra, è nella natura dell’imperialismo uscire dalle proprie contraddizioni con una guerra ed essere sospinto dalla guerra in nuove contraddizioni per ricercare così nuove guerre Ma, mentre la prima guerra mondiale fu un urto di potenze imperialistiche contro potenze imperialiste che diede modo alla classe operaia di rompere il punto più debole della catena dell’imperialismo e di aprirvi una breccia, di fondare cioè la prima repubblica socialista in Europa, nella seconda guerra mondiale assistemmo anche a questo conflitto fra potenze imperialiste, accanto però ad altri motivi, ed ancora una volta di questo conflitto di potenze imperialiste, approfittò la classe operaia di altri Paesi europei per conquistare il potere. Oggi ammaestrato da questa esperienza, l’imperialismo tende viceversa alla ricerca dell’eventuale antagonista in una terza guerra mondiale nei Paesi del socialismo, evitando così l’urto fra imperialismi e tentando al tempo stesso di abbattere il potere della classe operaia. […] Quando […] noi diciamo che il Patto Atlantico è un patto di guerra, non diciamo certo che è un patto che indica una scadenza fissa per la guerra ma che è uno strumento offerto a questi gruppi militaristici ed imperialistici degli Stati Uniti d’America per cogliere l’opportunità – quando essi lo vogliono – per trascinare il loro e gli altri paesi (fra cui il nostro) in una guerra. Quindi è un patto di guerra perché è un anello, un anello potente di questa catena di azioni politiche che si sviluppa verso una situazione in cui la guerra può scoppiare da un momento all’altro: è un patto, infatti, che tende ad accumulare gli armamenti i quali, allorquando sono accumulati sono di per se stessi, automaticamente, forze che rendono più facile la guerra, è un patto che consacra anche militarmente la divisione del mondo in due campi; è un patto che, contribuendo a dare ad una delle parti eccessiva fiducia in se stessa e baldanza, offre più facili occasioni ai guerrafondai per cogliere qualsiasi pretesto si presenti in qualsiasi parte del mondo, è un patto infine che, per il turbamento che porta allo spirito pubblico, per le preoccupazioni che genera, per la propaganda di odio che lo accompagna, determina una psicosi di guerra e di paura, che è per se stessa una ulteriore spinta verso la guerra. […] Questa è la situazione della borghesia italiana e di tutti i paesi, che proiettano al di fuori di sé le loro paure e temono aggressioni continue, paventano minacce dall’esterno, e credono di salvarsi dalla propria rovina accumulando armi e costruendo basi. Questo timore che avvertono, questa minaccia che credono provenga dall’esterno, è la voce interna delle contraddizioni di questa società (Vivissimi applausi all’estrema sinistra), e questa paura che fa temere aggressioni non è che la coscienza della propria insufficienza ad assolvere il compito storico che spetta alla classe dirigente, la coscienza della propria incapacità. […] Anche questi sono aspetti del Patto Atlantico che vanno valutati, perché creano maggiori e più immediate responsabilità in quanto incidono anche sul piano della politica interna e della politica economica in rapporto soprattutto alle esigenze di vita delle classi popolari. Aggravandosi la situazione, aumentano anche le nostre responsabilità. […] Appunto perché questa è una politica che tende ad aggravare la tensione nei rapporti di classe, essa, lungi dal farli tacere, esaspera i contrasti e determina delle situazioni in cui i conflitti diventano difficilmente inevitabili.
Giustamente l’onorevole Togliatti diceva ieri, a questo proposito, che non si tratta di una politica che oggi è seguita dai comunisti, perché esiste l’Unione Sovietica, ma che questa è la politica tradizionale del movimento operaio. […]
Il movimento operaio ha anche in passato detto queste cose che sono state riaffermate dall’onorevole Togliatti, il quale ricordava ieri il congresso di Stuttgart del 1907; le stesse cose sono state poi ripetute ancor più solennemente nel 1912 al Congresso di Basilea. […]
E noi a questo movimento operaio non possiamo non essere fedeli assumendoci interamente la nostra responsabilità, che è quella di condurre la lotta per la pace in questa fase, prima che la guerra scoppi, prima che il Paese sia gettato in queste avventure e in queste follie. Noi abbiamo coscienza che la guerra non è inevitabile e può essere evitata se tutti faremo il nostro dovere. Perciò reagiremo con tutti i nostri mezzi a tutti i tentativi di mascherare questa politica imperialistica, questa politica di classe, di coprirla sia con la formula della terza forza, sia con la formula ipocrita della difesa della civiltà occidentale e cristiana. Desidero anzi elevare da qui con tutta la massima energia la mia indignata protesta contro l’uso e l’abuso che si fa di questa parola «civiltà», adoperata da una classe che ha veramente rivelato il suo volto barbarico e incivile, una classe che non riesce a vivere se non gettando periodicamente il mondo nella guerra, una classe che non riesce a vivere se non provocando la miseria e la morte di decine di milioni di uomini, una classe che non riesce più a reggere civilmente le sorti del mondo; io desidero reagire qui con tutte le mie energie contro questo tentativo di far credere che il movimento operaio sia apportatore non di valori civili, ma di. un nuovo mondo barbarico io desidero reagire qui in nome di quelli che sono i grandi valori umani, i grandi valori morali che il movimento operaio porta con sé. […]
Questa, signori del Governo, è la vera civiltà. E in nome di questa civiltà noi ci opporremo energicamente a tutti i tentativi di mascherare la vostra azione politica con formule ipocrite; noi difenderemo fino in fondo i diritti del nostro popolo a non essere trascinato nella guerra.
Noi riprenderemo le parole di un antico messaggio, che voi avete dimenticato: «Sia pace in terra agli uomini di buona volontà».
Noi riprenderemo l’insegnamento di due grandi uomini di questi ultimi tempi, di due grandi apostoli di umanità, le parole di Giovanni Jaurès, una figura che giganteggia come un simbolo di pace al termine di una epoca storica, l’uomo che si dovette assassinare il 31 luglio 1914, perché il 1° agosto si scatenasse sul mondo la follia della guerra, l’uomo che della sua vita aveva fatto un apostolato di pace. E le parole del Presidente Roosevelt, del secondo Roosevelt: «Se noi vogliamo che la civiltà sopravviva, noi dobbiamo coltivare le possibilità per tutti i popoli di vivere e lavorare insieme in uno stesso mondo di pace». Noi riprenderemo l’articolo 11 della nostra Costituzione il quale dice che l’Italia ripudia la guerra.
Noi riprenderemo queste parole, questi messaggi di pace e di speranza e li affiggeremo su tutti i muri d’Italia; noi li proclameremo in tutte le piazze; noi li scolpiremo anche nel cuore più duro degli italiani!
E non so se l’onorevole Sceiba manderà la sua «Celere» a strappare questi manifesti e a sciogliere i nostri comizi; non so se il Presidente De Gasperi, come un suo predecessore aveva ritenuto fosse sovversiva la parola «Libertà», proclamerà sovversiva in Italia la parola «Pace». Noi ci assumiamo la responsabilità in questo momento di mobilitare intorno a questi messaggi di pace tutto il popolo italiano. Non sono i nostri propositi né violenti, né sovversivi, ma se voi date alla parola «Pace» un significato che sia sovversivo, noi rivendichiamo, con orgoglio, di essere dei sovversivi. (Vivi, prolungati applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni).
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