“Tolleranza zero”: la guerra del neo-liberismo contro i poveri
di LOIC WACQUANT [sociologo; University of California-Berkeley]
Fonte: “Le monde diplomatique”, aprile 1999
Da alcuni anni, l’Europa intera è investita da un’ondata di panico morale di tale ampiezza e virulenza da influire sulla politica degli Stati e ridisegnare la fisionomia delle società che investe. Il suo oggetto apparente tanto apparente da pervadere il dibattito pubblico è la delinquenza “giovanile”, la “violenza urbana”, i disordini il cui crogiolo sarebbero i “quartieri a rischio” con i loro abitanti, primi colpevoli delle “inciviltà”. Tutti termini da mettere tra virgolette, poiché il loro significato non è meno vago dei fenomeni che vorrebbero designare: nulla dimostra infatti una loro specificità “giovanile” e men che meno “urbana” o legata a determinati “quartieri”.
Queste nozioni rientrano in una costellazione di termini e di tesi sulla criminalità, la violenza, la giustizia, la disuguaglianza e la responsabilità di provenienza americana: concetti che si sono insinuati nel dibattito europeo fino ad inquadrarlo. La banalizzazione di queste analisi serve a dissimulare un obiettivo in larga misura estraneo ai problemi su cui vertono: quello di ridefinire la missione dello Stato, che ovunque tende a ritirarsi dall’arena economica e a ridurre il proprio ruolo sociale, mentre estende e inasprisce i propri interventi penali.
Lo Stato sociale europeo avrebbe dunque innanzitutto l’obbligo di ridimensionarsi, e quindi quello di elevare al rango di priorità la “sicurezza”, strettamente definita in termini fisici, ignorando ogni altro rischio (salariale, sociale, sanitario, educativo ecc.) per infierire contro le proprie pecorelle disperse.
Sarebbe il caso di ripercorrere in ogni suo anello la lunga catena delle istituzioni, degli agenti e i supporti discorsivi (note di consulenti, relazioni di commissioni, scambi parlamentari, missioni di funzionari, colloqui di esperti, libri destinati agli studiosi o al grosso pubblico, conferenze stampa, articoli di giornali e servizi televisivi ecc.) che hanno veicolato una nuova concezione penale divenuta ormai moneta corrente, tendente a criminalizzare la miseria, e di conseguenza a normalizzare il lavoro dipendente precario.
Dopo la sua incubazione in America, questa concezione si è internazionalizzata in forme talora modificate e non immediatamente riconoscibili (a volte proprio da chi le diffonde) ma sempre nel segno di un’ideologia economica e sociale fondata sull’individualismo e sulla mercificazione, di cui è traduzione e complemento in materia di “giustizia”.
Questa vasta rete di diffusione, partita da Washington e da New York, che ha attraversato l’Atlantico per insediarsi a Londra e irradiare da qui i propri canali sull’intero continente europeo, ha avuto origine nel complesso degli organi dello stato americano che hanno l’incarico ufficiale di attuare e quindi mettere in vetrina il “rigore penale”: in particolare, il ministro federale della giustizia e il Dipartimento di stato e inoltre gli organismi parapubblici e professionali legati all’amministrazione della polizia e dei penitenziari, i media e le imprese private che partecipano all’economia carceraria (aziende appaltatrici nel campo dell’edilizia, della gestione carceraria, dell’assistenza sanitaria ai detenuti, delle tecnologie per l’identificazione e la sorveglianza ecc.).
Peraltro in questo campo, come in molti altri, il settore privato fornisce un contributo decisivo alla concezione e alla realizzazione della “politica pubblica”. Di fatto, il ruolo eminente dei think tanks neoconservatori nella definizione e nella successiva internazionalizzazione della nuova doxa punitiva pone in evidenza i legami organici, ideologici e pratici tra il deperimento del settore sociale dello stato e il dispiegamento del suo braccio penale.
In effetti, i “pensatoi” e istituti di consulenza che sulle due rive dell’Atlantico hanno preparato, con un paziente lavoro di erosione intellettuale, l’avvento del “liberalismo reale” di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, hanno svolto a un decennio di distanza una seconda funzione: quella di veicolare alle élites politiche e mediatiche i concetti, i principi e le misure in grado di giustificare e accelerare l’instaurazione di un apparato penale tanto multiforme quanto iperbolico.
Quegli stessi che ieri militavano con il ben noto successo in favore del “meno Stato”, per tutto ciò che attiene alle prerogative del capitale e all’utilizzo della manodopera, esigono oggi con pari ardore “più Stato”, per dissimulare o contenere le conseguenze deleterie della deregulation nel campo del lavoro dipendente e dei tagli alla protezione sociale.
Sul versante americano, più ancora dell’American Enterprise Institute, del Cato Institute o della Fondazione Heritage, è stato il Manhattan Institute a farsi carico di diffondere le tesi e i dispositivi di repressione dei “disordini” suscitati da quella che già Alexis de Tocqueville definiva “l’ultima plebaglia delle nostre grandi città”. Nel 1984, l’istituto fondato da Anthony Fischer (il mentore di Margaret Thatcher) e da William Casey (che sarà direttore della Cia durante la presidenza di Reagan) per applicare ai problemi sociali i principi dell’economia di mercato ha messo in orbita il libro di Charles Murray dal titolo Losing Ground, che servirà da “bibbia” dalla crociata di Reagan contro lo stato sociale.
L’autore imputa l’aumento della povertà in America all’eccessiva generosità della politica di aiuti agli indigenti, la quale a suo parere avrebbe premiato l’inattività e indotto il degrado morale tra i ceti popolari, favorendo in particolare quelle unioni “illegittime” che considera come la causa ultima di tutti i mali delle società moderne, compresa la “violenza urbana”.
Sul versante britannico, l’Adam Smith Institute, il Centre for Policy Studies e l’Institute of Economic Affairs (Iea) hanno operato di concerto per la diffusione delle concezioni neoliberali in materia economica e sociale, oltre che delle tesi punitive elaborate in America e introdotte ai tempi di John Major, prima di essere riprese e amplificate da Anthony Blair.
Ad esempio, alla fine del 1989, l’Iea (fondata, come il Manhattan Institute, da Anthony Fischer, sotto l’alto patronato intellettuale di Friedrich von Hayek) orchestrava, su iniziativa di Rupert Murdoch, una serie di pubblicazioni e incontri dedicati al “pensiero” di Charles Murray. Quest’ultimo scongiurava allora i britannici di procedere a una drastica stretta nel campo delle prestazioni sociali, allo scopo di contenere nel Regno unito l’emergere di una cosiddetta “underclass” di poveri alienati, dissoluti e pericolosi, parente stretta di quella che stava “devastando” le città americane, in conseguenza delle misure sociali introdotte negli anni 60, ai tempi della “guerra alla povertà”.
Nel 1994 Charles Murray torna alla carica in occasione di un suo nuovo soggiorno a Londra; nel frattempo, la nozione di underclass è entrata a far parte del linguaggio politico, e Murray non trova difficoltà a convincere il suo pubblico che le fosche previsioni da lui formulate nel 1989 si sono avverate: l’«illegittimità», la «dipendenza» e la criminalità sono aumentate di concerto tra i nuovi poveri di Albione, e i loro effetti congiunti minacciano di morte repentina la civiltà occidentale.
Nel 1995 il suo compagno di lotta ideologica Lawrence Mead, politologo neoconservatore della New York University, viene a spiegare ai britannici che se lo stato deve astenersi dall’aiutare materialmente i poveri, ha però il dovere di sostenerli moralmente imponendo loro di lavorare. Si tratta della tematica, da allora canonizzata da Anthony Blair, degli “obblighi di cittadinanza”, con i quali si giustifica l’istituzione, nel 1996 negli Stati Uniti e tre anni dopo nel Regno Unito , dell’obbligo al lavoro salariato, in deroga al diritto sociale e del lavoro, per le persone “dipendenti” dagli aiuti dello stato.
Lo stato paternalista è tenuto anche ad essere uno stato punitivo. Nel 1997 l’Iea invita nuovamente Charles Murray, che stavolta promuove l’idea di un “carcere funzionante”: in altri termini, la spesa penitenziaria è vista come un investimento razionale e redditizio per la società. Murray si fonda su uno “studio” del ministero federale della giustizia, e conclude che l’effetto “neutralizzante” del triplicarsi della popolazione carceraria degli Stati uniti tra il 1975 e il 1989 sarebbe stato di per sé sufficiente a prevenire in un solo anno, il 1990, 390.000 tra omicidi, stupri e rapine.
Alcuni mesi dopo la visita di Murray, l’Iea invita l’ex capo della polizia di New York, William Bratton, a divulgare il concetto di “tolleranza zero” nel corso di una conferenza stampa truccata da colloquio, alla quale prendono parte vari responsabili della polizia britannica. La “tolleranza zero” è in effetti il complemento poliziesco all’incarcerazione di massa conseguente alla penalizzazione della miseria, in Gran Bretagna come negli Stati Uniti.
Com’è ormai consuetudine, all’incontro è seguita la pubblicazione di un’opera collettiva dal titolo: Zero Tolerance: Policing A Free Society (Tolleranza zero: l’ordine pubblico in una società libera). Il titolo riassume tutta una filosofia politica: una società “libera” nel senso di liberale e non interventista “in alto”, soprattutto in materia di fisco e di tutela dell’occupazione; ma intrusiva e intollerante “in basso”, per tutto ciò che attiene ai comportamenti pubblici da parte dei ceti popolari, stretti in una morsa tra la generalizzazione della sottoccupazione e del lavoro precario da un lato e la riduzione della tutela sociale e dei servizi pubblici dall’altro.
Queste nozioni sono servite da quadro alla legge sul crimine e sui disordini votata dal parlamento neolaburista nel 1998, la più repressiva del dopoguerra. Il primo ministro britannico ha così motivato il suo sostegno alla “tolleranza zero”: “È importante affermare che non tolleriamo più le infrazioni minori. Il principio di base sta qui nel dire: sì, è giusto essere intolleranti verso i senzatetto nelle strade”.
Prendendo le mosse dal Regno Unito, le nozioni e i dispositivi promossi dai think tanks neoconservatori degli Stati Uniti si sono diffusi in tutta Europa. Il consenso dei governanti dei diversi paesi su questi temi e su queste politiche assume forme diverse: si va dalla posizione esplicita ed entusiastica di Blair a quella di Jospin, che tradisce la sua vergogna con qualche maldestro tentativo di diniego, attraverso tutta una gamma di posizioni intermedie.
Nessuno sembra poter sfuggire all’obbligo di schierarsi con gli agenti dell’impresa transnazionale impegnata a far accettare il nuovo ethos punitivo ai dirigenti e funzionari degli stati europei, che dopo essersi convertiti alle virtù del mercato (cosiddetto libero) e alla necessità del meno stato (sociale, beninteso) si allineano anche all’imperativo del “ristabilimento” dell’ordine (repubblicano) universalizzandolo in seno alla ristretta cerchia dei paesi capitalisti che si pensano come l’universo.
Là dove si rinuncia a creare posti di lavoro si istituiranno commissariati, ovviamente nell’attesa di costruire nuovi penitenziari. L’espansione dell’apparato poliziesco e penale può peraltro contribuire alla creazione di posti di lavoro nell’ambito della sorveglianza degli esclusi dal mondo del lavoro: i 20.000 addetti alla sicurezza e i 15.000 agenti locali che si prevede di ammassare entro il 1999 nei “quartieri a rischio” rappresentano un buon decimo dei posti di lavoro per i giovani promessi dal governo francese.
I paesi importatori dei sistemi penali americani non si accontentano di recepire l’esempio; spesso prendono l’iniziativa prendendo a prestito gli strumenti repressivi Usa per adattarli alle rispettive necessità e alle tradizioni nazionali in campo politico e intellettuale, in particolare grazie alle varie “missioni di studio” che si moltiplicano attraverso l’Atlantico.
Sull’esempio di Gustave de Beaumont e di Alexis de Tocqueville, partiti nella primavera del 1831 per un’esplorazione sul “terreno classico del sistema penitenziario”, numerosi parlamentari, esperti in materia penale e alti funzionari dell’Unione Europea si recano regolarmente in pellegrinaggio a New York, a Los Angeles e a Houston, nell’intento di “penetrare i misteri della disciplina americana”, oltre che nella speranza di attivare “qualche risorsa segreta” in patria.
Ad esempio, è stato in seguito a una missione finanziata dalla Corrections Corporation of America, prima società di incarcerazione privata degli Stati Uniti, che Sir Edward Gardiner, presidente della Commissione interni della Camera dei Lord, ha avuto modo di scoprire le virtù della privatizzazione penitenziaria. Così, dopo aver indirizzato il Regno Unito verso un sistema carcerario a scopo di lucro, è divenuto egli stesso membro del Consiglio d’amministrazione di una delle principali imprese che si spartiscono il succulento mercato penale (dal 1993 al 1998 il numero dei clienti delle carceri private britanniche è passato da 200 a 3800).
L’altro veicolo di diffusione della nuova concezione penale in voga in Europa è costituito dai rapporti ufficiali: testi “pre-pensati”, grazie ai quali i governi rivestono le loro proposte normative degli orpelli di quella pseudo-scienza che i pensatori meglio sintonizzati con la problematica mediatico-politica del momento sanno così bene produrre a comando.
Questi lavori si fondano sulle relazioni prodotte, in circostanze e secondo canoni analoghi, nelle società assunte a “modello”, in maniera tale che la concezione comunemente accettata negli ambienti governativi di un paese trovi il proprio avallo da parte dei dirigenti degli Stati vicini, secondo un processo di rafforzamento circolare. Un esempio tra tanti: l’allegato al rapporto della missione affidata da Lionel Jospin a due deputati socialisti, dal titolo Risposte alla delinquenza minorile, che lascia sbalorditi: l’autore, Hubert Martin, consulente per gli affari sociali presso l’ambasciata di Francia negli Stati uniti, intona un panegirico al coprifuoco imposto agli adolescenti nelle metropoli americane.
La sua nota si fonda sui risultati di una pseudo-inchiesta condotta e pubblicata dall’Associazione nazionale dei sindaci delle grandi città statunitensi allo scopo di difendere questo espediente poliziesco cui la “vetrina” dei media riserva un posto d’elezione. In verità, si tratta di programmi che non hanno un’incidenza misurabile sulla delinquenza, ma si limitano in realtà a spostarla nel tempo e nello spazio. Sono costosissimi in termini di uomini e di mezzi, dato che comportano ogni anno decine di migliaia di arresti, registrazioni, trasferimenti e l’eventuale incarcerazione di giovani che non hanno violato nessuna legge.
Peraltro queste misure, lungi dal raccogliere un “consenso locale”, sono vigorosamente contestate davanti ai tribunali per la loro vocazione repressiva e per l’applicazione discriminatoria, che contribuisce a criminalizzare i giovani di colore dei quartieri segregati. Così una misura di polizia che non ha altri effetti al di fuori di quelli criminogeni e liberticidi, e si giustifica solo in base a considerazioni di tipo mediatico, finisce per generalizzarsi, poiché ciascun paese la applica col pretesto dei “successi” riportati altrove.
I think tank americani e i loro alleati in campo burocratico e mediatico provvedono alla gestazione e alla diffusione, prima nazionale e poi internazionale, di termini, teorie e misure che si intrecciano per penalizzare l’insicurezza sociale e le sue conseguenze. La trasposizione è parziale o integrale, consapevole o meno, e i funzionari preposti a metterla in pratica devono assicurarne l’adattamento all’idioma culturale e alle tradizioni degli stati riceventi.
Una terza operazione, di presentazione in veste scientifica, viene poi a raddoppiare il lavoro, accelerando il traffico delle categorie interpretative neoliberali, sempre più intenso tra New York e Londra, e da qui con Parigi, Bruxelles, Monaco, Milano e Madrid. Attraverso scambi, interventi e pubblicazioni di carattere universitario, reale o simulato, i “traghettatori” intellettuali riformulano le varie categorie in una sorta di pidgin politologico, abbastanza concreto per agganciare i responsabili politici e i giornalisti, preoccupati di restare “aderenti alla realtà” (quella proiettata dalla visione autorizzata del sociale) ma anche abbastanza astratto per non rivelare troppo smaccatamente il contesto nazionale d’origine.
Così queste nozioni divengono luoghi comuni semantici, in cui si riconoscono tutti coloro che, al di là delle diversità di professione, nazionalità e persino di affiliazione politica, sono portati a vedere la società neoliberale avanzata quale vorrebbe essere.
Così si diffonde in Europa la nuova concezione penale americana: mano pesante contro i reati minori e le piccole infrazioni, inasprimento delle pene, graduale cancellazione delle norme specifiche sulla delinquenza giovanile, focalizzazione sulle popolazioni e sui territori considerati “a rischio”, deregulation dell’amministrazione penitenziaria: il tutto in perfetta consonanza con il senso comune neoliberale in materia economica e sociale. Ogni considerazione di ordine politico o civico è soppiantata dal ragionamento economicista, dal dogma efficientista del mercato, dall’imperativo della responsabilità individuale di cui l’altra faccia è l’irresponsabilità collettiva che si estendono all’ambito del delitto e del castigo.
Ottimo articolo, sarebbe bello però, visto che molti qua sanno scrivere bene, spiegare con termini SEMPLICI, in modo che chi viene da fuori, possa capire….perché la gente non sa cosa sia il NEOLIBERISMO, nessuno pensa che siamo in dittatura ‘occulta’…. il 90% pensano che la crisi sia una cosa ‘ciclica’……
Un articolo fisso nel sito, che spiega cosa sia il NEOLIBERISMO, non farebbe male, se no la politica rimane fuori agli esclusi della società….
Ce ne siamo accorti, Ugo. Ora ne abbiamo anche le forze. Entro qualche mese faremo una sezione con l’ABC del sovranista. Pochi concetti, chiari che rimandano all’approfondimento. Grazie della dritta.
Caro Davide, mi permetto di suggerire alcuni punti del sopracitato ABC, sperando di non risultare inopportuno.
– Spiegazione dei saldi settoriali e del valore del deficit, anche come strumento strategico della nostra costituzione. Questa spiegazione mi sembra importante anche perché mostrando i documenti ufficiali del fsi, la risposta più frequente che mi è capitata è la seguente: “ si bello ma le coperture?”
– Spiegazione semplice della repressione finanziaria e del divorzio
– Spiegazione del ruolo dell’ inflazione ( a chi serve?, che legame ha con l occupazione?, quale ruolo ha nell’ unione europea, e quale ruolo aveva nel trentennio glorioso?)
– Il fatto che il 3% (combinato con gli interessi passivi) ci costringe a fare avanzi primari, fornisce la possibilità dialettica di rendere MATEMATICA la necessita di disintegrazione della UE, pena la sparizione graduale e come detto matematica ed inevitabile non solo dello stato sociale (pensioni sanità istruzione) ma dello stato in se (giustizia ed eserciti privati). Ecco, poiché la matematica non è un opinione non mi farei sfuggire questa possibilità dialettica.
– Spiegazione semplice di quelle che Stefano D’Andrea ha chiamato le 5 liberta imposte dall unione europea: cosa comporta la libera di circolazione di capitali, merci, servizi, persone, e il divieto di aiuti di stato.
– Spiegazione delle conseguenze della moneta unica, e del ciclo di Frenkel.
Una spiegazione semplice di questi punti credo che darebbe gli strumenti a molte persone per orientarsi in questa crisi, e sarebbe anche una specie di prerequisito per comprendere a pieno la bellezza dei documenti ufficiali . questa la mia umile opinione.