Ernesto de Martino e la frontiera meridionale
di ALESSANDRO LEOGRANDE (scrittore)
Negli anni Cinquanta de Martino dedica gran parte delle sue attività alle ricerche etnologiche nel Mezzogiorno d’Italia, occupandosi inizialmente della Lucania e poi della terra del rimorso, il Salento. Il ricco materiale frutto di quelle ricerche confluisce in due importanti libri della produzione demartiniana, Sud e Magia e La terra del rimorso.
Sono gli anni in cui escono i libri di Danilo Dolci e di Tommaso Fiore, Baroni e Contadini di Giovanni Russo, le poesie e il romanzo incompiuto di Rocco Scotellaro. Sono tutti libri che escono nella seconda metà degli anni Cinquanta, esattamente negli stessi anni delle spedizioni demartiniane in Lucania e in Salento, e dieci anni dopo la pubblicazione del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e di Fontamara di Ignazio Silone, elaborati entrambi a partire da esperienze precedenti ma usciti in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale (Fontamara, peraltro, era stato pubblicato fuori dall’Italia già negli anni Trenta).
Credo che de Martino fosse consapevole che il proprio lavoro, al di là della specifica ricerca etnografica, avesse a che fare con la questione meridionale e che, come scrive sia nella prefazione alla Terra del rimorso sia in vari luoghi di Sud e magia, il tema non potesse ridursi unicamente all’aspetto socioeconomico. Andavano indagati anche l’elemento storicoculturale, che affondava le proprie radici nei secoli passati, e soprattutto i confini – incerti, frastagliati – tra magia, razionalità, religione ufficiale, ufficiosa e semiufficiale.
Gli studi di de Martino, quindi, non mostrano solo un Sud apparentemente «estremo», attraverso il concreto lavoro di équipe, ma riconducono quei fatti specifici indagati, come il tema della fascinazione in Lucania o quello del tarantismo nell’estremo lembo del Salento, a un discorso più generale che non ha che fare unicamente con l’analisi economica e sociale della questione meridionale.
Nei libri di de Martino emerge chiaramente non solo l’indagine etnoantropologica ma anche una lunga serie di riferimenti, simbolici e culturali, alla storia del Mezzogiorno. Mi ha stupito, ad esempio, nell’introduzione alla Terra del rimorso, il riferimento a quei gesuiti che nella seconda metà del Cinquecento definivano il Mezzogiorno «l’India italiana».
All’interno del processo controriformistico vi era sicuramente il tentativo di recuperare le forme di religiosità pagana e di istituire un nuovo ordine culturale. Il lavoro dei gesuiti fu indirizzato soprattutto a questo fine. Ma non solo a questo, potremmo aggiungere, perché in quell’espressione («l’India italiana»), oltre alla consapevolezza di avere a che fare una terra di missione, da conoscere e in qualche modo integrare, vi è anche la doppia valenza dell’India come frontiera, scoperta, nuovo mondo…
Questa ambivalenza – la missione e la frontiera – che appartiene già al meridionalismo classico lungo la cui scia sia Rossi-Doria sia de Martino si collocano, emerge qui con tutta la sua forza. Inoltre, nei libri di de Martino ricorre spesso un medesimo procedimento letterario: mentre analizza il dato concreto, poniamo, della maga di Viggiano o della tarantata di Galatina, subito dopo poche righe, cambia completamente scenario e offre al lettore un’immersione nella società meridionale di tre, quattro, cinque, sei secoli addietro. Il ricondurre l’analisi del presente non solo all’elemento simbolico-culturale, ma anche a quegli elementi storici «di lunga durata», costituisce uno degli aspetti più spiazzanti dei suoi lavori.
Non va dimenticato che de Martino era stato segretario della Federazione socialista in Puglia e che, in lui, l’apporto intellettuale si mescola costantemente con la riflessione politica, nel senso più alto del termine. Questo è un dato saliente del suo rapporto con il Sud.
Le indagini e le riflessioni di de Martino non partono mai da un freddo e distaccato approccio antropologico. Non si limita mai a contemplare il mondo che descrive: quella che spesso viene indicata come «giusta distanza» – un concetto sovente del tutto arbitrario, e forse anche privo di fondamento – in de Martino non c’è. Non sta insomma osservando un mondo che si agita in un acquario o al di là di un ampio fossato, ma un universo umano con il quale crede di essere profondamente interrelato e dal quale si sente profondamente chiamato in causa.
Difatti, le parti conclusive di Sud e magia e della Terra del rimorso sono dedicate ad appendici e postfazioni in cui si riflette sui possibili modi dell’intervento. In entrambi i casi, lungo tutto l’arco del lavoro, l’inchiesta e l’indagine si uniscono costantemente alla riflessione politica e morale, alle considerazioni sul proprio sguardo (su come esercitarlo, su come scriverne) e sul proprio incontro con quel mondo.
In aggiunta, però, tutti e due i libri si concludono con una parte più esplicitamente politica, che ruota intorno alla medesima domanda: come intervenire su quelle condizioni che sembrano essere prodotte dal ritardo del Mezzogiorno? Forse ritardo è una parola che semplifica troppo, mentre de Martino tende costantemente a complicare il piano delle analisi, a vedere elementi di simultaneità tra vecchio e nuovo, arcaico e moderno. In questo senso rinviene degli elementi di contraddizione non solo socioeconomica, ma anche culturale, a volte psichica (psichica nel senso individuale, e psichica nel senso della psicologia collettiva), che vanno superati o sciolti.
In queste parti delle indagini demartiniane c’è forse un’eccessiva fiducia sul ruolo della «civiltà». De Martino, in quegli anni, appare convinto che la modernità, che non è mai – beninteso – il frutto di un processo deterministico, bensì va creata con il concorso di precise scelte e di precise azioni, avrebbe eliminato in un lasso di tempo relativamente breve le forme più appariscenti e primitive emerse dalle sue indagini, come i maghi che cercano di fermare i temporali o le tarantate di Galatina o le manifestazioni più estreme della fascinazione e del malocchio… C’era insomma l’idea che integrando il Sud in un processo di partecipazione democratica e di sviluppo economico non indotto dall’alto questi elementi sarebbero stati superati.
Oggi guardando il Sud possiamo dire che non sempre è andata così. Molti degli elementi considerati arretrati permangono anche nell’epoca della postmodernità. Basti osservare le processioni della Settimana santa. De Martino era pienamente consapevole della persistenza di elementi rituali pagani precristiani, confluiti nel cattolicesimo popolare. Sapeva benissimo che, anche in virtù dell’azione controriformistica di assorbimento dell’elemento misterico precristiano, tali elementi, nel loro nucleo primitivo, erano rimasti tali. Analizzando le processioni dell’Addolorata scrive che le donne vestite di nero che il giovedì e il venerdì santo attraversano le strade del Sud Italia, in cerca del Cristo incarcerato che da lì a poco verrà giustiziato, incorporano l’elemento del pianto rituale.
Oggi possiamo dire che queste processioni non sono affatto scomparse, ma che anzi, disseminate nelle grandi città come nei piccoli centri del Sud Italia, vengono addirittura trasmesse in diretta dalle tv locali o in streaming sul web. Sono visibili in tutto il mondo, sono percepite simultaneamente anche dalla diaspora degli emigrati. Probabilmente c’è stata una compenetrazione fra elementi premoderni e postmoderni molto più complessa di quella individuata da de Martino alla fine degli anni Cinquanta.
Non so se questo significhi che la modernità non è ancora arrivata, e che siamo ancora invischiati nelle pieghe del mondo da lui descritto, in attesa dell’avvento messianico della vera modernità… Forse le cose stanno in un altro modo. In una società complessa continuano a convivere elementi vecchi ed elementi nuovi, tratti di modernità e tratti arcaicità, segmenti precristiani e segmenti postcristiani, o del tutto scristianizzati. Mi sembra che il Sud di questi anni, proprio alla luce di un’analisi di stampo demartiniano, restituisca appieno il sovrapporsi dei vari strati.
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