di GIUSEPPE MAZZINI
In tutti i suoi scritti, di qualunque genere essi siano, traluce sempre sotto forme diverse l’amore immenso, ch’ei portava alla patria; amore, che non nudrivasi di pregiudizietti, o di rancori municipali, ma di pensieri luminosi d’unione, e di pace; che non ristringevasi ad un cerchio di mura, ma sibbene a tutto il bel paese, dove il sí suona, perché la patria d’un italiano non è Roma, Firenze, o Milano, ma tutta l’Italia. Con tale mente egli scrisse il libro della Monarchia, in cui se tutte le idee non son tali da dover essere universalmente abbracciate, tutte almeno appaion dettate da un ottimo spirito, quale ammettevano i tempi; in questo egli mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio, che allora minacciavala piú che mai. E se il latino linguaggio, le forme scolastiche, che vi campeggiano, e la scarsezza delle edizioni copriron quest’opera quasi d’obblío, non è men vero, che ei vi gittò que’ semi d’indipendenza e di libertà, ch’ei profuse poscia nel suo poema, e che fruttificarono largamente nei secoli posteriori. Con tal mente fu da lui concepito il trattato del volgare Eloquio, che concitò in questi ultimi tempi lo spirito irritabile de’ letterati italiani a controversie piú argute forse, che utili. In questo egli s’erge luminosamente al di sopra di quella torma di grammatici, che fanno intisichire la lingua per volerla costringere nelle fasce della sua infanzia; dimostra la vera favella italiana non esser Tosca, Lombarda, o d’altra Provincia; ma una sola, e di tutta la terra “Ch’Appennin parte, e ‘l mar circonda, e l’alpe”.
Insegnando a’ suoi coetanei, come questo idioma illustre, fondamentale non aveva nessun limite, ma si facea bello di ciò, ch’era migliore in ogni dialetto, egli cercava di soffocare ogni contesa di primato in fatto di lingua nelle varie provincie, ed insinuava l’alta massima, che nella comunione reciproca delle idee sta gran parte de’ progressi dello spirito umano. Siffatti pensieri ebbero da lui piú ampio sviluppo nel suo Convivio, dov’egli si pronunzia con entusiasmo campione della favella italiana volgare, e predice a questa verginella modesta, ch’egli educava a piú nobili fati, glorie, e trionfi sull’idioma latino, ch’era ormai sole al tramonto. Sembra ch’egli col pascersi di quest’avvenire cerchi stornare la mestizia, che gl’infortunj politici d’Italia, e di se stesso gli procacciavano; perch’egli scriveva quest’opera, quando avea già sperimentato, come l’arco dell’esilio saetti acuto lo strale, quando la sua vita dechinava al fine. Eppure l’affetto di patria ardeva sempre vivissimo nel cuor suo, come ci fanno fede que’ tratti commoventissimi, ne’ quali piange la sorte, che lo gittò fuori del dolce seno della bellissima, e famosissima figlia di Roma, Fiorenza. Quest’affetto di patria mai nol lasciò, accompagnandolo nelle sue peregrinazioni per l’Italia; non formò pensiero, non mise sospiro, che non lo spirasse.
Un’esistenza d’undici lustri non fu per lui, che un solo sospiro, e questo fu per la Italia. Non ebbe riposo giammai nella lotta, ch’egli intraprese animosamente contro i suoi oppressori, contro i pregiudizi, che la dominavano, contro l’ignoranza, che sovr’essa pesava. Logorò il fiore dell’età sua in sagrifizi continui per la terra, che lo rinnegò. Sembra impossibile, che dopo aver percorse le circostanze della sua vita, alcuno abbia potuto muovere sospetto sullo spirito, che lo animava. L’uomo, che combatté valorosamente nella giornata di Campaldino (1289) contro la gente di Arezzo, che guerreggiò un anno dopo contro i Pisani; l’uomo, che Firenze scelse all’età d’anni trentacinque ad uno de’ tre reggitori della repubblica, che seppe in tempi difficilissimi ottenersi tanta fama di senno, e d’integrità; l’uomo che nelle gare de’ Bianchi, e dei Neri, spogliatosi d’ogni privata affezione, pronunziò la sentenza d’esilio contro ambe le parti (1301), monumento di severa imparzialità; che volò a’ piedi di Bonifazio per vedere di smuoverlo da’consigli, che ponevano Fiorenza sotto la tirannide di Carlo di Valois; e che piú tardi, quando piú gemeva sotto il pondo delle ingiurie della fortuna, ritrovò tanta forza d’animo da condannarsi ad un bando perpetuo, anziché avvilir sé e la sua patria colla vergogna d’una sommessione disonorevole.
O Italiani! Studiate Dante; non su’commenti, non sulle glosse; ma nella storia del secolo, in ch’egli visse, nella sua vita, e nelle sue opere. Ma badate! V’ha piú che il verso nel suo poema; e per questo non vi fidate ai grammatici e agli interpreti: essi sono come la gente, che dissecca cadaveri; voi vedete le ossa, i muscoli, le vene che formavano il corpo; ma dov’è la scintilla, che l’animò?Ricordatevi, che Socrate disse il migliore interprete d’Omero essere l’ingegno piú altamente spirato dalle muse. Studiate Dante; da quelle pagine profondamente energiche, succhiate quello sdegno magnanimo, onde l’esule illustre nudriva l’anima; ché l’ira contro i vizi e le corruttele è virtú. Apprendete da lui, come si serva alla terra natía, finché l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura. La forza delle cose molto ci ha tolto; ma nessuno può torci i nostri grandi; né l’invidia, né l’indifferenza della servitú poté struggerne i nomi, ed i monumenti; ed ora stanno come quelle colonne, che s’affacciano al pellegrino nelle mute solitudini dell’Egitto, e gli additano che in que’ luoghi fu possente città. O Italiani! non obbliate giammai che il primo passo a produrre uomini grandi sta nello onorare i già spenti.
Una risposta
[…] Dell’amor patrio di Dante (2a parte) https://appelloalpopolo.it/?p=37352 […]