Anglicismi e impazzimento linguistico: l’immagine di una cultura decaduta. Una lettura politica fuori dai purismi.
di Lorenzo Dorato
L’ultimo vezzo linguistico che mi è capitato di leggere e ascoltare è il termine “location” al posto di “luogo” o “posto”.
Si tratta di una tra le tante parole facenti parte dell’infinita serie di anglicismi entrati prepotentemente e del tutto inutilmente nel linguaggio quotidiano italiano parlato e scritto, spesso anche in maniera inappropriata rispetto allo stesso significato inglese originario. Si tratta di un fenomeno massiccio in rapida espansione che investe l’intero spettro del lessico quotidiano e, non solo, come è comprensibile che sia, il linguaggio specialistico relativo a discipline (ad esempio informatiche) elaborate in origine nel mondo anglosassone.
La questione non va impostata in termini di purismo linguistico, poiché è chiaro che le lingue nascono e si evolvono sulla base di continue contaminazioni graduali sia interne a sé stesse sia esterne. Ciò è un bene! Ed è altrettanto chiaro che le contaminazioni saranno più spesso provenienti da lingue parlate da nazioni egemoni sul piano geopolitico. Questo non è un bene, ma è qualcosa che comunque entro certi limiti può essere solo parzialmente frenato e contrastato, se non se ne contrasta l’origine.
Quando però una serie interminabile di parole straniere (tanto più di un’unica lingua straniera) entra in tempi estremamente rapidi nel linguaggio comune delle persone sostituendo di sana pianta parole di uso quotidiano perfettamente calzanti, assumendo toni persino grotteschi e ridicoli, allora il fenomeno assume toni diversi e deve essere indagato in termini socio-politici.
Prima di tirare alcune conclusioni, vediamo subito qualche esempio.
Per ciò che riguarda il linguaggio settoriale, un esempio emblematico è il linguaggio calcistico. Vero è che agli esordi del calcio moderno in Italia tale linguaggio era dominato da una quasi integrale terminologia inglese, frutto della semplice circostanza che il football moderno era uno sport nato in Inghilterra e in Italia veniva inizialmente seguito da gruppi elitari ristretti. Tuttavia, per un misto di italianizzazione espressamente ricercata, durante e prima del ventennio fascista, e di naturale inclinazione dei ceti popolari ad usare termini autoctoni, nel momento in cui il calcio divenne uno sport sempre più seguito, l’uso della terminologia italiana divenne egemone e di corrente uso popolare di massa. Sta di fatto che fino a venti anni fa nessuno si sarebbe mai sognato di alterare e sostituire arbitrariamente termini come rigore, calcio d’angolo, fuori, partita, allenatore, coppa campioni, mentre da qualche tempo a questa parte, a partire dai giornalisti sportivi, si è iniziato a dire senza nessuna ragione linguistica motivata: “penalty”, “corner”, “out”, “coatch”,” champions league” e via dicendo.
Il problema tuttavia, come detto al principio, non concerne soltanto linguaggi strettamente settoriali, ma anche e soprattutto il linguaggio politico, economico, nonché il semplice linguaggio quotidiano: “weekend”, “ok”, “authority”, “public company”, “meeting”, “break”, “workshop”, “step”, “fiction”, “show”, “feeling”, “stress”, “shock”, “new entry”, “know how”, “question time”, “road map”….e ancora… “brain storming”, “backstage”, “background”, “trading”, “fitness”, “magazine”, “live”, “feedback”, “random”, “outsider” etc etc…. al posto di “finesettimana”, “d’accordo/va bene”, “società ad azionariato diffuso”, “incontro”, “pausa”, “seminario/conferenza”, “passo”, “finzione/serie”, “spettacolo”, “intesa”, “tensione”, nuovo entrato”, “sapere/conoscenza”, “interrogazione parlamentare”, “tabella di marcia/piano”, “libera condivisione di idee/spunti”, “dietro le quinte”, “contesto/bagaglio o retroterra culturale”, “compravendita finanziaria”, “attività fisica/benessere”, “rivista”, “tempo reale”, “riscontro”, “a caso”, “esterno” etc etc..
L’elenco è lunghissimo e si potrebbe continuare per due o tre pagine intere, ma sarebbe inutilmente noioso. Ciò che è rilevante è che moltissime delle parole inglesi in uso nel linguaggio comune vanno a rimpiazzare spesso e volentieri termini di uso quotidiano di estrema semplicità e pregnanza già propri dell’italiano. Discorso diverso, ovviamente, per quei termini che nascono in ambito anglosassone ed indicano concetti di cui non esiste un corrispettivo italiano. In quest’ultimo caso il prestito straniero ha una sua logica, anche se anche qui un abuso porta ad un ristagno cronologico della propria lingua che potrebbe invece evolversi dall’interno tramite apposite traduzioni di termini nuovi o semplici rese in italiano di concetti relativamente agevoli da indicare. Spagnoli e francesi ad esempio denominano il “computer” “ordenador” e “ordinateur” e non sarebbe stato affatto scandaloso se in italiano tale oggetto fosse stato chiamato fin dal principio “calcolatore”. E lo stesso vale per altre decine e decine di parole potenzialmente traducibili (ovviamente entro i giusti limiti, ovvero senza scadere in inutili purismi esasperati).
Il caso però davvero inquietante e rilevante, che forse non ha paragoni in altre lingue europee, è proprio quello del linguaggio quotidiano, ovvero del linguaggio non strettamente settoriale-specialistico o comunque che riguarda tutti quei termini che vanno a rimpiazzare parole italiane perfettamente calzanti e di uso comune. Ad esempio non esiste alcuna ragione per utilizzare i termini “weekend”, “feeling”, “random”, “ok”, “feedback”, “authority”, “governance”, “location”, “bipartisan” e tantissimi altri ancora, in molti casi alterando anche l’originario significato inglese, storpiando così insieme l’italiano e l’inglese.
Ma qual è la base primaria di questo fenomeno che ha raggiunto negli ultimi due decenni proporzioni massicce?
Alla resa dei conti non si tratta di niente di più complicato del riflesso del dominio geopolitico mondiale degli Stati Uniti d’America cresciuto a dismisura con la caduta dell’Unione Sovietica negli anni ‘90 del secolo scorso e solo da qualche anno messo parzialmente in discussione dall’ascesa di nuove potenze. Come per ogni dominio che si rispetti, l’aspetto culturale è un pezzo forte della propria strategia di invadenza e permanenza. Laddove una classe dirigente nazionale politica e culturale assuma una posizione di totale integrazione passiva o persino di attivo e propositivo servilismo rispetto alla strategia di dominio, è chiaro che la pervasività di quest’ultimo resterà incontrastata e totale e sarà persino facilitata e resa agevole dall’operazione di mediazione attuata dalla classe dirigente locale. Giornalisti, politici, economisti, filosofi, uomini di spettacolo mediano quindi dall’alto l’imbarbarimento linguistico (che ovviamente non passa soltanto per gli anglicismi, ma è un fenomeno che investe lo stesso utilizzo dell’italiano), veicolando le nuove mode veicolate dai poteri più influenti.
Scendendo più nel dettaglio del problema, si potrebbero rilevare quattro diverse modalità e cause specifiche che caratterizzano il fenomeno del prestito linguistico inglese, alla cui base primaria, come si diceva, vi sono i rapporti di forza internazionali intesi a tutti i livelli (materiale, ideologico, culturale).
In primo luogo si assiste in molti casi ad una vera e propria trasformazione silenziosa di un concetto, non quindi al semplice ingresso di un nuovo concetto, ma alla sostituzione insidiosa e non esplicita di un vecchio concetto con un nuovo concetto gravido di conseguenze. E’ il caso ad esempio dei termini “governance” e “authority”.
La governance viene spesso utilizzata come concetto per esprimere l’attività di governo di un’entità politica (oltre che di un’impresa o azienda). Letteralmente “governance” è l’attività del governare. La resa italiana è quindi “governo”, inteso come attività di governo (e non come organo- in italiano i due termini coincidono-). Tuttavia governance, all’inglese, evoca immediatamente un’idea di governo nel senso di pura gestione tecnica e amministrativa priva di connotazioni discrezionali di ordine politico ed ideale: ovvero esattamente ciò che nella sostanza predica l’ideologia dominante a proposito della gestione della società capitalistica contemporanea. Non è un caso quindi che il termine inglese sia divenuto di uso comune, poiché è parte integrante, sul piano semantico, di una voluta e ancora oggi in piena accelerazione, trasformazione post-ideologica della sfera politica, nell’orizzonte della fine delle grandi ideologie e dei tentativi di trasformazione politica delle strutture sociali.
Analogo discorso per il termine “authority” che indica quasi sempre un’autorità di regolazione e controllo settoriale o generale antitrust finalizzata a porre le condizioni per il buon funzionamento del libero mercato capitalistico. Mentre autorità evoca un concetto politico, “authority”, così come “governance” evoca un concetto tecnico-efficientistico che presuppone, senza dirlo, la bontà a priori della libera concorrenza, facendo diventare tecnica quella che è invece una scelta squisitamente politica. Non a caso le cosiddette autorità indipendenti sono state costituite come vero e proprio potere tecnocratico (la cui fonte principale è il diritto comunitario) privo di legittimità democratica e di legittimazione politica sostanziale.
In secondo luogo dietro l’uso massiccio di anglicismi, vi è una implicita volontà di rendere il linguaggio incomprensibile, ultra-specialistico, tecnico e fuori dalla portata dei non addetti. E’ il caso ad esempio di tutto il linguaggio della letteratura economica moderna che fa uso smodato e quasi provocatorio della lingua inglese spesso rendendo concetti estremamente semplici assolutamente incomprensibili. Quando ad esempio in luogo di “disoccupato” si usa il termine “outsider” si sta evidentemente giocando con le parole e con la loro trasparenza. Anche in questo caso, vi è alla base l’idea di tecnicizzare ciò che tecnico non è e che dovrebbe essere accessibile anche a chi semplicemente fa costruttivamente uso del proprio pensiero. Vi è altresì la precisa idea di emulare modelli sociali, politici ed economici di derivazione anglosassone, ovvero quelli più confacenti alle strategie di dominio delle classi dominanti.
In terzo luogo gli anglicismi ossessivi sono il segno dell’ostentazione (voluta o meno che sia) di uno stile che si pretende superiore, moderno e avanzato in opposizione al linguaggio semplice e vecchio. Ciò da una parte crea, evidentemente, una frattura di fatto tra individui, generazioni e ceti sociali; dall’altra pone enfasi sulla distruzione simbolica di un mondo che non deve esistere più (ad esempio il mondo del lavoro come diritti e dei diritti sociali mediati attraverso la lotta politica).
In quarto luogo l’anglicismo ossessivo rende evidente l’esterofilia maniacale che caratterizza il popolo italiano e in particolare la sua classe dirigente e colta, in primis (ma non solo) nei confronti del mondo anglosassone. La sostituzione di termini italiani di uso comune con paroloni inglesi, è la spia di quel sentimento di minorità culturale che si attribuisce al proprio popolo e da cui ci si vuole tirar fuori tenendosene a distanza e cercando una fuga esterofila compensativa.
In conclusione, fuori da ogni purismo linguistico di sorta, si può dire che il fenomeno degli anglicismi continui e gratuiti, va interpretato in termini politici e culturali come una forma deleteria di autodistruzione del proprio patrimonio culturale, linguistico e, indirettamente politico. Non si tratta certo di proporre la sostituzione integrale dei forestierismi in nome della purezza della lingua (che pura fra l’altro non è e non potrà mai essere, basti pensare alla stessa genesi dell’italiano).I forestierismi sono sempre esistiti e sono la testimonianza vivente non soltanto dei rapporti di forza tra nazioni, ma anche della benemerita compenetrazione delle culture e delle tradizioni di ogni popolo ed area geografica del mondo.
Si tratta invece di porre un freno cosciente alla pratica (tutti ne siamo inevitabilmente vittime quanto meno passive, a partire dallo scrivente) dell’uso di termini tanto inutili quanto grotteschi e irritanti che, sospinti da quella che altro non è che una vera e propria indigestione di servilismo politico e culturale, hanno indebitamente invaso la nostra lingua. Tanto più che, come detto, dietro a tale invasione, oltre al servilismo culturale, vi è spesso un subdolo tentativo di trasformazione semantica degli stessi concetti dalle gravide conseguenze.
La lingua, in fondo, come ogni aspetto della cultura, non è affatto qualcosa di neutrale rispetto alla totalità socio-politica.
"la globalizzazione non è che il nuovo nome della politica egemonica americana"-H.Kissinger
Dal punto di vista imperiale i protezionismi (qualsiasi essi siano, anche linguistici) sono dei freni al raggiungimento degli scopi imperiali.
Copio e incollo il commento che avevo lasciato su "Comunismo e comunità":
Articolo eccellente. La rigorosa argomentazione di una realtà evidente. Viene da osservare che, per evitare l’uso grottesco della propria lingua, bisogna o venerarla o rispettarla o amarla. Sentimenti che l’uomo occidentale moderno riserva a luoghi esotici, a personaggi televisivi o a oggetti di consumo. In fondo Marx aveva predetto che una sola letteratura internazionale si sarebbe sostituita alle leterature nazionali. E ci può essere una nazione senza lingua? o senza letteratura?
Resta da spiegare per quale ragione gli italiani, rispetto ad altri popoli europei, abbiano avuto questo cedimento.
Ho inserito lo scritto nel mio sito alla pagina "Lingua italiana", con link e autore e rimando al sito originario. Faccio notare a questo proposito che il link con la "a" accentata finale non funziona, il link corretto è con la "a" non accentata