“Forme di vita”, tra realizzazione e fallimento
di Alessandro Bolzonello
Che cosa definisce la realizzazione oppure il fallimento di una vita?
Anders Breivik, il pluriomicida norvegese, ha scritto nel suo diario: “se sentissi che qualcun altro potesse portare avanti la mia missione, mi dedicherei a crearmi una famiglia e a sviluppare una carriera professionale”. Questa affermazione coglie due dimensioni fondamentali della vita: il mondo degli affetti e quello degli affari, il fondamentale bisogno di amare e quello di fare.
Ma come coniugare questi due verbi? Sotto quale forma esprimerli nel corso della vita?
Siamo sottoposti a potenti forze che indirizzano e orientano le scelte circa le modalità di espressione dell’amare e del fare. Io sono cresciuto, per esempio, insieme all’immagine della famiglia del Mulino Bianco: la mamma insegnante, il papà giornalista, i due figli e un nonno che abitano nel mulino di campagna perfettamente ristrutturato. In questa rappresentazione, entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo della mia generazione, si è condensato l’idealtipo della realizzazione: la vita coppia, la generazione di figli, il lavoro, meglio se di rilievo. L’ipotesi implicita è che produrre ricchezza e figli dentro un setting famigliare sia la condizione per la realizzazione, per la felicità. Riuscire in ciò significa stare nel ‘giusto’, non riuscirci comporta l’incompiutezza, la parzialità, ovvero, se fosse su tutti i fronti, il fallimento.
Poter disporre di ‘forme’ e di ‘modalità’ attraverso le quali perseguire i bisogni è importante; attingere ad una preselezione di possibilità è necessario, ma senza scordare che la forma rimane forma, non comporta automaticamente la sostanza.
Invero, i criteri di valutazione che vanno per la maggiore si fermano spesso sulla forma, spesso invitano alla rincorsa di obiettivi che danno riconoscimento economico e sociale ma che non soddisfano i bisogni fondamentali: si può trovare un partner, generare dei figli, costruire una carriera professionale e alla fine trovarsi tra le mani dei contenitori clamorosamente vuoti. Anzi, spesso il tutto pieno della vita diventa funzionale a non vedere il vuoto. Ci si ritrova, dunque, adempienti alle richieste del contesto, ma non realizzati. Utilizzando le parole di Vasco Rossi, non basta avere un figlio per essere un uomo e non un coniglio.
È necessario cambiare punto di vista e porsi, per esempio, la domanda: come può essere utile la mia vita? Questa è una domanda potente, ha la capacità di ‘prendere per le corna’ il tema del senso e del significato dello stare al mondo, della realizzazione. Domanda talmente pertinente da risultare impertinente; troppo diretta all’essenza dell’uomo.
Ritengo che la vita serva se viene spesa e consumata nel mettere a disposizione di coloro che stanno attorno a noi ciò che si ha nel rispetto dei propri limiti, che potrebbe implicare una selezione, anche stretta, dei beneficiari. È, in altre parole, l’assunzione della prospettiva del dono, dell’integrazione e della condivisione, di contro all’affermazione di sé fine a se stessa. Una prospettiva nella quale anonimato, semplicità, quotidianità, contingenza non sono necessariamente indicatori di mancata realizzazione, bensì condizioni necessarie per poter esprimere liberamente e autenticamente se stessi.
Pubblicato anche su Invito a …
Chiedersi come possa essere utile la propria vita e rispondersi che è il dono e l'integrazione a farlo è dare un significato universalista all'esistenza in quanto tale. E l'universalismo (i platonismi) ci porta dritti dritti nelle braccia di preti e teocrati, ovvero di coloro che pretendono esistano valori cui nessuno deve sottrarsi. Ipotesi che egoisticamente rifiuto, non fosse altro che per le dosi letali di sofferenza che questi approcci hanno storicamente generato.
Torquemada docet. Non volete integrarvi nel mondo della cristianità, voi streghe? Dovrete fare dono della vostra vita al Signore. Rogo purificatore.
La vita semplicemente non ha senso. Contrariamente alla concezione lineare del tempo che si snoda dalla barbarie alla radiosa Civiltà (i bombardamenti NATO lo testimoniano) la vita inizia in un punto improbabile dell'esistenza e prosegue attraverso percorsi improbabili fino all'improbabile uscita di scena. Questa è la forza del nichilismo, che da sempre avversa gli universalismi, i significati a tutto tondo.
Non esistono fenomeni morali, ma solo un'interpretazione morale dei fenomeni.
( Nietzsche , Al di là del bene e del male )
La vita, conseguentemente, non è mai stata un fenomeno morale. Può però essere interpretata come tale, per motivi di convenienza. A chi giovi tale interpretazione, beh, questa è una domanda molto interessante.
Entro solo ora nella conversazione … che è relazione. Ecco il punto. Per me la vita è relazione. Senza il mettersi a fianco degli altri 'non è'.
E' anche il riconoscere una dipendenza dagli altri: 'ci sono' anche perché posso parlare e scrivere con gli altri.
In questa prospettiva, assume una valenza decisiva il 'mettersi assieme agli altri', e – ribadisco – non ideologico, ma nel rispetto di se stessi, quindi delle proprie capacità e dei propri limiti.
Io, forse in modo più egoista di Alessandro ma meno di Tonguessy mi sono chiesto, quando le cose non mi sembravano chiare: che devo fare della mia vita? Cioè proprio la domanda che, secondo Max Stirner sarebbe finta, perché ad essa si risponderebbe ripetendo ciò che altri vorrebbe che facessimo.
In ogni caso, scegliere il dono, "nel rispetto dei nostri limiti", nei confronti del prossimo (di coloro che stanno attorno a noi) mi sembra un altruismo realistico e accettabile. Guido Calogero, restato alla storia del pensiero filosofico italiano per il (debole, a mio avviso, pensiero del dialogo), distingueva tra egoismo e egoità. L'egoità è necessaria: "mi pascero di delizie o mi imporro il cilicio" (cito a memoria) io sono e non posso che essere il giudice di me stesso. Sono io che scelgo tra il giudice e il diavolo. E lo faccio sempre per realizzare il mio interesse.
Ma l'egoità non è egoismo. L'egoismo è una possibilità, l'altra è l'altruismo, proseguiva Calogero, trascorrendo dalla morale al diritto (il volume si intitola tica, politica, giuridica e fu scritto in parte in carcere, in parte al confino in Abruzzo). Senza intendere in senso estensivo l'altruismo, credo che spesso ci troviamo a dover essere egoisti o altruisti nei confronti delle persone che ci stanno attorno. E qui andiamo da piccole concessioni a scelte di convivenza che se ben ponderate sono quasi sempre una forma di maturazione. Insomma, io, senza cadere in discorsi religiosi che non amo, o peggio buonistici, non riesco ancora ad esaltare fino in fondo l'egoismo. Raskolnikov mi affascinò nel 1997 e da "giovane" (in realtà avevo 27 anni) isolai la prima parte del grande libro dalla seconda. Poi tornai su delitto e castigo ed ammirai la giovane prostituta che gli salva la vita (e l'anima). Le teorie di Raskolikov erano ciniche. L'intera umanità sarebbe esistita soltanto per accoppiarsi e riprodursi e generare, Solone, Napoleone, ecc. ecc. Egli doveva giustificare l'omicidio di una strozzina e le teorie erano la sua falsa coscienza. Raskolikov, se ricordo bene, non ama, se non sé stesso. L'orgoglio è il tratto di carattere e la depressione la condizione che vive nella stanza presa in affitto. L'egoismo e il cinismo sono utili (grazie a Dio non necessari) ma pericolosi. Tuttavia, forse utilizzo le parole nel senso negativo invalso nella modernità. Invito davvero Tonguessy a depurarle e a illustrarle nel significato positivo. E' interessante capire se egli si riferisce alla egoità, che è necessaria ("e non può non essere") o all'egoismo. E in questo secondo caso, quale è il "limite" o il "piano" o il "profilo" rispetto a quella che , comunemente, a coloro che stanno attorno all'egoista in senso volgare, appare come una patologia (che hanno anche persone validissime e piacevolissime; l'importante è conoscerle).
Tralasciando l'analisi della distinzione tra egoìsmo ed egoità che trovo un'inutile esercizio di retorica (entrambi i termini derivano da quell'Ego che dovrebbe lasciare gran pochi margini interpretativi), vorrei focalizzare il senso dell'impegno di"dover essere egoisti o altruisti nei confronti delle persone che ci stanno attorno".
Se siamo convinti che concedere qualcosa all'altro è di qualche giovamento, non è che un atto di egoismo: lo facciamo perchè alla fine ci guadagnamo qualcosa. Nell'antico detto veneto: se vuoi che l'amicizia tenga, bisogna che una sporta vada ed una venga. Ovvero occorre una reciprocità. Ciò che viene dato ci ritorna. Lo facciamo perchè siamo sufficientemente intelligenti (l' intelligenza emotiva di cui parla Goleman) di capire che non siamo isolati, che la nostra vita è legata a quella degli altri. Altri che possono avere intenzioni malevole nei nostri confronti, per cui ci ritiriamo ed esercitiamo il nostro egoista intento di chiudere ogni apertura nei confronti di costoro.
Un egoista è una persona sana, che conosce tanto il bene che il male e sa perseguire la massima realizzazione a seconda delle circostanze.
L'altruista non riesce a fare distinzioni, come nel caso citato di Ovazza e Segre. Non vivono di vita propria, ma di vita riflessa. I loro scopi non coincidono con quelli personali, ma con quelli Altrui (in questo caso quel fascismo che alla fine li distruggerà prima nella mente e nello spirito e poi nel corpo).
Si tratta, come dicevo, di fiutare l'aria. Un altruista non fiuta l'aria, respira gli odori che provengono dall'ammasso (spesso putrescente) delle convenzioni e/o convinzioni.
Ovviamente una società altruista come la nostra, in cui si deve sottostare ai diktat del governo senza lamentarsi troppo perchè viviamo nel migliore e piu' altruista sistema poltico (ovvero la democrazia) non è pensabile essere egoista.Questo atteggiamento (come molti altri che denotano sanità mentale e vigore sociale) viene quindi additato al pubbilco ludibrio perchè foriero di sciagure. I Valsusini, egoisti come sono, lo testimoniano.
Magari ci penso sopra meglio e scrivo un articolo….