Il capitalismo come patologia storica
di ANDREA ZHOK (FSI Trieste)
Parte prima: nichilismo
Del termine “capitalismo” si è fatto uso ed abuso nell’ultimo secolo e mezzo, fino allo sfinimento, finendo per logorarne inevitabilmente il significato. Logorarsi nell’uso è il destino di tutte le parole di successo, e forse dovremmo rassegnarci ad inventarne una diversa per evitare di ricadere in connotazioni stantie, o di essere assimilati alla retorica anticapitalista, spesso rabbiosa quanto confusa. Tuttavia il termine “capitalismo” è di per sé un termine mirato e preciso, e preferiamo perciò conservarlo in vita limitandoci a circoscrivere il più precisamente possibile cosa intendiamo con il termine.
Pur esistendone diverse definizioni, per “capitalismo” qui intendiamo, coerentemente con il conio marxista, un sistema di produzione economica e riproduzione sociale che si fonda sulla centralità del capitale (denaro, valore di scambio) e non del bene (merce, valore d’uso). Anche se il termine capitale è stato esteso a posteriori a qualunque cosa potesse essere storicamente tesaurizzata per uso futuro (dal frumento ai monili), di fatto il senso di capitale moderno è strettamente legato alle funzioni del denaro. Solo il capitale in senso monetario porta alla luce le caratteristiche del capitalismo in senso pieno, e ritrovare ‘capitalismi’ in epoche passate, dove c’era tutt’al più accumulazione della terra, è improprio.
Ci sono in verità ‘episodi’ di meccanismi capitalisti discernibili in Mesopotamia, nella Grecia classica, nel tardo Impero romano, agli albori del Rinascimento italiano, e in qualche altra occasione, ma fino alla cosiddetta Rivoluzione Industriale inglese non è esistito alcun meccanismo sociale ed economico stabile dove il capitale fosse centrale rispetto a variabili umane come il potere politico e religioso, la natura delle merci e dei bisogni.
Cosa comporta qui la “centralità del capitale (denaro)”? Implica che il meccanismo degli scambi è organizzato in modo tale che esso può funzionare, e continuare a funzionare efficientemente, anche in assenza di alcun accordo politico, valoriale o morale tra gli agenti economici. Mentre le precondizioni per un’azione collettiva nella storia precapitalistica erano determinate dalla capacità di alcuni agenti di creare consenso attorno ad un progetto (consenso, beninteso, ottenibile con la persuasione ma anche con la minaccia, il ricatto, l’eliminazione fisica del dissenso, ecc.), nel sistema capitalistico azioni collettive possono costantemente prendere forma senza essere progettate da nessuno, in modo del tutto preterintenzionale. Questo aspetto fondamentale del capitalismo è ciò che faceva dire ad Adam Smith che “non è dalla benevolenza del macellaio, del fornaio o del birraio che ci aspettiamo il nostro pranzo”, ma dal fatto che essi, perseguendo i propri interessi, finiscono per essere di giovamento anche a noi nel perseguimento dei nostri. Come osservava acutamente F. von Hayek un paio di secoli più tardi, la potenza del sistema economico e sociale capitalista (o ‘di libero mercato’) sta proprio nel non richiedere alcun accordo per funzionare: è, in un certo senso, un sistema strutturalmente apolitico, che ha bisogno della politica solo per la creazione ed il mantenimento delle ‘regole di mera condotta’, le regole formali che garantiscono al sistema di funzionare (tutela della proprietà e dei contratti, funzionamento giustizia amministrativa, ecc.) In un sistema capitalista, idealmente, ciascuno può esercitare i propri talenti vendendoli sul mercato e ottenendo, attraverso un capillare sistema di scambi (divisione del lavoro), beni che mai sarebbe stato in grado di procurarsi o produrre da solo.
Prima di esercitare la critica è importante comprendere appieno la potenza del modello capitalistico (il ‘libero mercato’). Esso favorisce un’elevatissima divisione del lavoro che si genera spontaneamente, per iniziativa periferica degli agenti economici, e che dunque non ha bisogno (di solito) di essere coordinata e progettata dall’alto. L’elevata facilità degli scambi consente l’elevata divisione del lavoro, che permette a sua volta elevata specializzazione e con ciò anche elevata produttività.
Di tale potenza storica Marx (diversamente da molti suoi epigoni) era perfettamente consapevole ed egli infatti invitava nelle prime pagine del Manifesto a riconoscere le straordinarie conquiste operate dal nuovo sistema produttivo, il sistema capitalistico o sistema della borghesia (dove per ‘borghesia’ al tempo di Marx si intendeva il 5% circa della popolazione, che possedeva i mezzi di produzione). Qualunque superamento (l’hegeliana Aufhebung) del capitalismo, per Marx doveva essere in grado di giovarsi della potenza produttiva e organizzativa portata alla luce dal capitalismo medesimo, modificandone radicalmente le forme, non certo di cancellare con un colpo di spugna il capitalismo, per ritornare ad un’idealizzata condizione precapitalistica. È essenziale comprendere (ed è un punto in cui paradossalmente Marx e Hayek concordano) che il capitalismo non può essere letto come una sorta di incidente della storia: si tratta di una realizzazione storica emersa spontaneamente, e che si è imposta progressivamente grazie ad alcuni suoi specifici pregi. Il capitalismo è una tradizione specificamente occidentale, cresciuta sulla scorta della maturazione di tecniche specifiche, dalla scrittura alfabetica, alla numerazione posizionale, alla stampa, e che ha favorito l’imporsi delle forme di governo democratiche.
In quanto tradizione il capitalismo è emerso per prove ed errori, consolidandosi nel tempo, e non si è certo imposto per caso. Questo implica che obiezioni e soluzioni semplicistiche, che pure hanno avuto corso nella storia, come l’abolizione tout court di ogni forma di proprietà, o del denaro, siano sicuramente fuori bersaglio.
Ma una volta detto che il capitalismo non è un accidente della storia e che ha innumerevoli pregi, questo non significa che esso debba essere santificato. Come per tutte le tradizioni, si possono (e in questo caso credo si debbano) creare le condizioni per esigere un loro superamento.
L’obiezione che spesso viene imputata come problema principale del capitalismo, ovvero di essere economicamente ingiusto, se presa isolatamente è un’obiezione debole. Dopo tutto si può facilmente ribattere che di ingiustizie la storia è piena, e che almeno quelle distributive odierne tendono a beneficare a lungo termine molte più persone che in passato. Da sempre uno degli argomenti preferiti dei filo-capitalisti è che oggi un cittadino medio può godere di beni che qualche secolo fa nessun re poteva avere a disposizione, dai mezzi di trasporto privati, ai telefoni, alla TV, all’aria condizionata, ecc. (cfr. von Mises). Ed in effetti una critica del capitalismo che verta sul semplice elemento dell’ingiustizia economica, criticandolo dal punto di vista dei ‘perdenti’ del sistema, pur essendo certo legittima, è in definitiva una critica di scarso respiro. Dal puro e semplice punto di vista della disponibilità generale dei beni, anche per i meno fortunati, il capitalismo rappresenta, rispetto alle realtà storiche precedenti, comunque un passo avanti per la maggior parte delle persone. Che ci siano le condizioni perché le cose vadano meglio di come vanno, e che tale possibilità sia colpevolmente negata, è indubbio, ma non si tratta certo un’obiezione radicale.
I veri problemi legati a quell’epocale trasformazione del mondo rappresentata dal sistema economico e sociale dello scambio monetario competitivo ( = capitalismo) sono meno direttamente ovvi e molto più insidiosi.
Il primo problema, su cui vogliamo soffermarci oggi, non è un problema che riguarda il rapporto del capitalismo con i beni, ma con i valori. Come abbiamo detto, la forza del capitalismo sta nella sua capacità di funzionare anche senza doversi appellare ad alcuna cooperazione, anche in assenza di alcun accordo intersoggettivo su fini o valori. Il problema è che questa virtù ha anche un suo lato oscuro.
Il sistema di relazioni economiche e sociali generato in un ‘sistema di mercato’ può disinteressarsi di un coordinamento intersoggettivo su intenzioni o valori in quanto ad essere valorizzato è primariamente il medio di scambio ( = denaro), e non le realtà scambiate. In altri termini: non è importante per il sistema, né per i più potenti tra gli agenti economici, quali siano le qualità intrinseche di ciò che viene prodotto, ma solo il fatto che esso ‘abbia un mercato’, cioè che possa essere venduto, ovvero che possa essere trasformato in denaro eccedente rispetto a quello impegnato per produrlo.
Il sig. A può aver trovato con immani fatiche e sacrifici personali la cura per il cancro, ma se essa non trova uno sbocco di mercato, limitandone l’accesso ad esempio con brevetti, e poi vendendola in modo selettivo, essa potrà anche avere enorme valore umano e sociale, ma non avrà nessun valore monetario.
Il sig. B può produrre Snuff Movies, sfruttando indecorosamente persone malate o bisognose, ma se trova il modo di limitarne l’accesso a chi paga, e di diffonderli dietro compenso, può arricchirsi in questo modo.
Una volta trasformato un atto o prodotto in denaro, la sua origine viene cancellata: il denaro, quale che ne sia la provenienza, non porta seco nulla del percorso che lo ha generato, dunque quanto maggior valore pubblico viene riconosciuto al denaro, tanto più i modi di procurarselo sono sottratti ad ogni valutazione critica, essendo letteralmente privi di valore (monetario). Diviene così normale giustificare attività che in altri tempi o luoghi sarebbero state ritenute ridicole, parassitarie, indegne, immorali, dannose dicendo (e dicendosi) che “dopo tutto è un modo come un altro per guadagnarsi da vivere”. E questo, beninteso, non coinvolge soltanto le attività marginali di chi fatica a sbarcare il lunario, ma anche attività altamente remunerative: fare qualcosa per denaro è divenuto giustificazione sufficiente ed esauriente, cui chiedere qualcosa di più suona velleitario o moralistico.
Che un venditore menta o illuda per vendere qualunque cosa vendere debba, è divenuto moralmente accettabile. L’esistenza stessa di quella forma di menzogna, inganno o illusionismo sistematico che è l’onnipresente pubblicità nel mondo contemporaneo è un’evidenza macroscopica in questo senso. Tutti noi viviamo questa sorta di patetica doppia verità: diciamo a noi stessi, ai nostri figli, al prossimo, che ‘mentire è male’, ma poi accettiamo e digeriamo quotidianamente serie sterminate di comunicazioni pubblicitarie che sappiamo essere appunto forme sistematiche di distorsione del vero, di persuasione illusionistica, create strumentalmente per ottenere il fine precostituito della vendita di un prodotto.
Qualunque sia il bene o servizio originariamente venduto, una volta trasformato in denaro (capitale), esso diviene un’entità in grado di dare accesso a ogni altro bene e servizio nel mondo: il denaro, in quanto medio universale di scambio, è divenuto condizione di possibilità universale per l’ottenimento di ogni fine, e perciò esso può diventare anche potere, e dunque riconoscimento pubblico.
In sostanza, nel processo storico in cui il capitale monetario ha acquisito centralità, avvengono simultaneamente due processi di trasformazione assiologica fondamentale:
1) in direzione del passato, il modo di raggiungere il successo monetario viene separato radicalmente dal successo stesso (l’attività viene ‘valorizzata’ solo dal suo esito, dalla vendita, dalla metamorfosi in denaro);
2) in direzione del futuro, il capitale stesso (denaro) diviene una sorta di ‘supervalore’, proponendosi idealmente come mezzo di accesso ad ogni bene, di realizzazione prospettica d’ogni fine materialmente disponibile.
La sovrapposizione di queste due tendenze ha come esito un mutamento strutturale nel nostro modo di relazionarci alla realtà. Come noto sin dal tempo delle prime analisi marxiane, il meccanismo del capitale colloca sistematicamente come saliente il mezzo al posto del fine, e tende perciò a trasformare in fine il mezzo (il denaro diviene il Fine che non ha bisogno di altre giustificazioni). La finalità che viene promossa dal meccanismo autoriproduttivo del capitale dunque non concerne l’appagamento di alcun bisogno o desiderio: si tratta dell’incremento del capitale stesso, della riproduzione accresciuta del denaro.
Qui non si tratta di ‘antropomorfizzare’ il capitale facendone un’entità dotata di volontà autonoma. Il punto è che il funzionamento del capitalismo spinge ciascun agente economico (e volenti o nolenti lo siamo tutti) ad assumere l’accrescimento del capitale come modus operandi e forma mentis.
Come noi tutti siamo costretti ad imparare precocemente, qualcosa si muove nel mondo delle relazioni materiali se il capitale può con ciò essere accresciuto (come interesse, come profitto, ecc.), e questo rappresenta la normalità, la spontaneità che definisce le nostre aspettative. Tutti gli altri casi appartengono al regime d’eccezione proprio della moralità, della nobiltà di coscienza, della buona volontà, cui concediamo volentieri l’onore delle armi, ma che viene sempre più relegato nella sfera degli enti voluttuari e dispensabili. L’ordinarietà sta nell’aspettativa che, se ci sono interessi sufficienti in ballo, ad esempio contro un intervento di tutela ambientale, quali che siano i proclami in senso contrario, esso rimarrà lettera morta. L’ordinarietà sta nell’aspettativa che se i traffici di eroina, o di organi, o di bambini, o di uteri in affitto o multiproprietà, ecc. rendono, essi troveranno sempre un modo di realizzarsi e perpetuarsi.
Le relazioni sociali in regime di capitalismo educano ad una forma mentis informata dal perenne rinvio dell’appagamento, dall’accrescimento indefinito dei mezzi senza comprensione dei fini, del potere di andare ovunque senza definire alcuna direzione, di fare tutto senza dedicarsi a nulla. Diversamente da quanto riteneva Heidegger, non è la Tecnica in generale che livella, non è la Tecnica che omologa, non è la Tecnica che cancella le differenze ed oblia il fondamento, non è la Tecnica (o la “Tecnoscienza”) che realizza il nichilismo. Tecniche, e strumenti, e la ricerca di tecniche e strumenti più efficienti, sono tutte cose che esistono da quando vi è l’uomo. Ma sono le tecniche, gli strumenti, la scienza in quanto ingranaggi di quella tecnica sociale che è il meccanismo di riproduzione del capitale a spingere ad obliare ogni fondamento. È un sistema di riproduzione della mera potenzialità fine a sé stessa a generare ciò che abbiamo imparato a chiamare nichilismo.
L’annullamento sistematico di ogni valore tende a procedere spontaneamente dall’aver introiettato il processo di accumulazione del capitale, dall’aver fatto (dall’essere costretti a fare) della sua logica una seconda natura che guida le nostre iniziative pubbliche e private. L’accumulazione di capitale è un’ipertrofizzazione del potere astratto e vuoto di fare; non di quel poter fare concreto che ritroviamo nelle abilità, negli abiti, nelle capacità acquisite, o nelle virtù; no, qui si tratta di mera capacità di fare astrattamente qualunque cosa, una capacità che rimane estrinseca, esterna a noi, incarnata in un oggetto trasferibile (denaro), cioè in qualcosa che può essere acquisito accidentalmente, persino casualmente (la “lotteria”, l’“eredità”, ecc.); tale capacità vuota, potenzialmente onnipotente, indifferente alle sue origini, ed esterna alle nostre facoltà (a ciò che siamo) sostituisce nelle nostre vite la comprensione di cosa sia opportuno, sensato o giusto fare.
Si lamenta spesso come la nostra epoca sia, e soprattutto sia vissuta dalla nuove generazioni, come un’epoca dell’immagine, intendendo con ciò della superficie, dell’apparenza, della forma segnica senza contenuto. Ma sarebbe stupefacente se fosse altrimenti, giacché questo è precisamente ciò che il funzionamento ordinario del valore in quanto capitale alimenta. L’immagine, la superficie, è semplicemente la datità presente che, a prescindere dal suo passato, dal suo retroterra e dal suo potenziale a lungo termine diviene in grado di guadagnarsi potere reale (denaro, potere d’acquisto universale). A comandare il processo di valorizzazione è solo il tempo corrente dell’acquisto, della metamorfosi in denaro, la buona parvenza nel momento della transazione: non cosa lo ha preceduto e non le sue implicazioni reali.
Una nota cautelativa finale. Naturalmente il meccanismo della virtualizzazione monetaria (capitalismo) che abbiamo iniziato a descrivere non è un potere sociale unico, né incontrastato. L’essenza nichilistica del capitalismo rappresenta perciò una tendenza di sviluppo, una pressione costante e crescente, ma fortunatamente non l’unica istanza capace di influire in profondità nelle società contemporanee, neppure in quelle maggiormente dominate dalla logica del capitale. Si tratta di una tradizione potente e capillare, capace come tutte le tradizioni di autoalimentarsi inerzialmente, ma una volta che se ne scorga il funzionamento è anche qualcosa che può essere opposto, corretto, trasformato.
Parte seconda: entropizzazione
Nella prima parte di questo intervento abbiamo rilevato alcune cautele e precisazioni che è opportuno adottare nell’uso del termine ‘capitalismo’. In linea di massima per capitalismo intendo qui dunque un sistema di autoriproduzione sociale, storicamente emerso nel XVIII secolo, che tende ad estendere indefinitamente lo spazio degli scambi competitivi monetizzati.
Come abbiamo avuto modo di notare in precedenza, il capitalismo conduce preterintenzionalmente ad esiti nichilistici. Questo tipo di esito concerne il lato soggettivo delle sue implicazioni. Il quadro però va completato con una visione di un secondo lato, oggettivo, di tali implicazioni. Se soggettivamente il capitalismo induce un logoramento di ogni sfera assiologica, oggettivamente esso conduce ad una peculiare e storicamente inedita forma di ‘rivolgimento sistematico’ della realtà storica, rivolgimento che può essere catturato da termini come ‘eversione’, ‘dissoluzione’ o ‘entropizzazione’.
Come Marx osservò per primo, uno dei caratteri fondamentali del capitalismo è di essere sistematicamente rivoluzionario. Questo aspetto caratterizzante è stato poi spesso rimosso o frainteso alla luce del richiamo marxiano alla rivoluzione. Il carattere eversivo del capitalismo non ha niente a che vedere con, e non dipende da, un qualche carattere eversivo dei ‘capitalisti’. Chi detiene i mezzi di produzione, essendo già in una relativa condizione di favore, di norma è interessato al mantenimento dello status quo ed è dunque ben lontano dall’auspicare rivolgimenti. Ciononostante, quali che siano le opinioni private dei singoli capitalisti, il capitalismo come sistema di autoriproduzione sociale ha una tendenza interna costitutiva verso il rovesciamento di ogni status quo e verso la dissoluzione di ogni ordinamento, identità, struttura, tradizione.
Il carattere rivoluzionario che Marx ascrive al socialismo e al comunismo non va interpretato come una libera scelta, una decisione elettiva: non è il prodotto di un desiderio positivo di eversione, distruzione, ‘violenza creatrice’ (e chi così lo ha interpretato non ha capito nulla della lezione marxiana). L’auspicata rivoluzione anticapitalista è (doveva essere) semplicemente l’esito, nell’interpretazione marxiana l’unico esito disponibile, di contraddizioni interne all’autoriproduzione capitalistica; in altri termini, la prospettata rivoluzione anticapitalista era parte (terminale) del processo di sviluppo capitalistico stesso, un esito obbligato dal carattere costitutivamente eversivo del capitalismo stesso.
In questo senso, pochi fraintendimenti sono stati più profondi dell’identificazione del capitalismo con la conservazione. Si tratta di una confusione fatale. La rivoluzione prevista da Marx è l’esito tragico della forma internamente eversiva propria del sistema capitalistico. Pensare alla rivoluzione come ad una sorta di ‘appagamento finale’, di ‘festa popolare’, di ‘trionfo emancipativo’ in cui il popolo si libererà è una delle tante visioni popolari fuorvianti di cui si è spesso nutrita, per finalità propagandistiche, la tradizione socialista e comunista. La rivoluzione, così come Marx la pronostica, doveva essere l’esplosione terminale di un meccanismo che produceva simultaneamente pauperizzazione di massa e concentrazione del potere economico, un sistema che perciò costringeva le masse degli oppressi ad un atto finale distruttivo come unica alternativa ad una vita (o una morte) di stenti.
È per questo motivo che nel periodo di momentanea riduzione della forbice sociale nel ‘900 (tra la Seconda Guerra mondiale e i primi anni ‘70) si è potuto pensare ad una obsolescenza del modello ‘apocalittico’ marxiano. Ed è invero per lo stesso motivo che il violento riaffacciarsi dell’ampliamento della forbice sociale, dovrebbe indurre a ripensare la possibilità (che non significa desiderabilità) di eventi rivoluzionari.
Marx fu il primo a comprendere al tempo stesso il carattere intrinsecamente rivoluzionario del capitalismo e il suo carattere storicamente dissolutivo. Ma quali sono le ragioni sistemiche di questa tendenza? Per chiarirne i tratti principali bisogna ricordare alcune dinamiche, piuttosto note se prese una ad una, ma raramente esaminate nel loro concerto, del processo di produzione ed autoriproduzione sociale che chiamiamo ‘capitalismo’.
Le dinamiche in questione sono enumerabili come segue:
1) Il capitalismo funziona a prescindere da ogni pianificazione (questo come abbiamo visto è un suo elemento di forza);
2) Il processo capitalistico esige costantemente crescita economica e non può sopravvivere ad una perdurante stasi di crescita;
3) Il sistema di divisione del lavoro e di scambio che definisce il capitalismo pone ciascun agente economico in ideale e obbligata competizione con ogni altro;
4) Nel sistema capitalistico esiste un premio fondamentale associato all’ottenere profitti con priorità temporale rispetto ai competitori;
5) Il sistema spinge ciascun agente economico a innovare il prodotto e/o i modi di produzione, in modo da poter competere efficacemente.
Prima di vedere quale effetto complessivo produce l’interazione di queste istanze, proviamo ad illustrarle brevemente.
Ad 1) Il capitalismo come ‘ordine spontaneo’.
Questo fattore è già stato brevemente discusso nella prima parte dell’intervento e dunque ci limitiamo a ricordarne il profilo generale. Il sistema di scambi in regime capitalistico consente ed incentiva esplicitamente la libera iniziativa individuale, e permette, grazie alle potenzialità della pratica monetaria, di ottenere vantaggi individuali che prescindono sia dal buon funzionamento relazionale, sia dall’efficacia di una visione collettiva di lungo periodo. Questo punto, naturalmente, non significa affatto che il libero gioco delle iniziative economiche tenda ad avere esiti ottimali (questa sarebbe la tesi del ‘mercato perfetto’ come ideale normativo). In verità è ben noto che in tutti gli ambiti dove è richiesta una visione dell’interesse comune di lungo periodo, le iniziative brade di singoli portatori di interessi risultano ampiamente subottimali. Ben note sono le insufficienze di fronte a iniziative come la creazione di sistemi infrastrutturali di trasporti, o di sistemi di comunicazione collettiva (quali la prima istituzione di Internet), o di organismi di ricerca di base, ecc.;tutti casi dove l’intervento di una direzione collettiva centralizzata risulta generalmente decisivo. Il punto qui non è dunque che un sistema lasciato a libere iniziative individuali dia risultati ottimali (dubito che oggi neppure il più ideologico dei liberisti possa sostenere qualcosa del genere). Il punto cruciale è che, diversamente da epoche passate, nell’epoca del capitale l’assenza di coordinamento degli individui in un progetto comune invece che portare il sistema al collasso gli conferisce elasticità e potenza produttiva (capacità di adeguarsi a domande capillari e variabili).
Ad 2) L’imperativo della crescita.
Si sottolinea spesso, e giustamente, l’associazione tra sistema capitalistico e crescita economica. È indubbio che l’imporsi del sistema capitalistico abbia incrementato in modo decisivo sia la produzione totale che le produttività particolari dei singoli agenti economici. Ciò che però di norma si omette di dire è che questo carattere in un sistema capitalistico non si presenta propriamente come una scelta. Si tratta, più propriamente, di una necessità, di un meccanismo indispensabile alla sopravvivenza del sistema medesimo. Noi tutti siamo stati educati, sin dal nostro primo contatto con questioni di politica economica, a percepire come normale il fatto che un’economia che non sia in crescita rappresenti un male. Un’economia senza crescita suscita disappunto ed allarme: si parla di ‘economia stagnante’ o ‘recessiva’. Ma perché mai? Naturalmente, se il senso di un’economia capitalistica fosse il medesimo di un’economia precapitalistica, ovvero quello di organizzare la produzione per venire incontro ad un appagamento di bisogni, allora non ci sarebbe niente di problematico nel fare spazio ad un’economia a crescita zero. Si potrebbe ammettere senza difficoltà che un’economia possa essere fiorente anche se statica: se infatti in un certo momento i bisogni risultassero appagati, o quantomeno appagabili redistribuendo il prodotto totale (cfr. principio di Kaldor/Hicks), non ci sarebbe necessità, in linea di principio, per esigere un aumento di produzione futura.
Ma il capitalismo non è governato dall’intento circoscritto di appagare bisogni, bensì dalla pulsione infinita ad accrescere il capitale inizialmente investito nella produzione. Il sistema funziona dunque fino a che, una volta introdotte nel processo produttivo N risorse, il processo produttivo (inclusa la vendita del prodotto) genera N1 risorse, dove N1 > N. Per comprendere questo punto è importante capire cosa accadrebbe al sistema economico nel momento in cui dovesse riconoscere di essere impossibilitato a crescere. Facciamo il seguente esperimento mentale. Immaginiamo il caso teorico in cui si diffondesse la certezza che l’economia (qui equiparabile al PIL) non fosse nelle condizioni di crescere mai più di ora . Cosa accadrebbe del sistema economico fondato sul capitale? Molto semplicemente l’intero sistema del credito, l’intero mercato finanziario e l’intero sistema degli investimenti collasserebbero. Infatti, in assenza di alcuna prospettiva di crescita l’erogazione capitalistica del credito non avrebbe più nessun senso, giacché non ci si potrebbe aspettare, in media, un ritorno superiore a quanto prestato. Similmente non avrebbe senso acquistare titoli o azioni senza la prospettiva di un loro aumento di valore. La spinta economica residua convergerebbe perciò verso una metamorfosi del capitale virtuale in capitale reale, trasformando il primo in beni dotati di valore d’uso o beni di prestigio (tesaurizzazione). Con ciò non ci ritroveremmo più dentro un processo storico basato sulla capacità di autoriproduzione del capitale, ma ci ritroveremmo su di una traiettoria di ritorno ad un sistema economico centrato su beni, merci e potere politico, strutturalmente simile a quello del ‘600 europeo, o a quello del mondo romano antico.
Il capitalismo è per così dire come un ciclista che per riuscire a mantenersi stabile deve continuare a muoversi, eventualmente a muoversi periodicamente a ritroso, ma a muoversi comunque; e questa corsa perpetua deve continuare anche laddove esso si stesse dirigendo, con piglio ottimistico e brezza nei capelli, verso un precipizio.
Ad 3) Le gioie della libera competizione
Il sistema di produzione capitalistico chiama ciascun agente economico a prodursi in una libera competizione per l’accesso, diretto o indiretto, ai prodotti. Gli individui, le uniche identità ad avere legittimazione metafisica in una visione liberale, rappresentano gli agenti economici primari; ciò definisce anche il nesso, innegabile, tra rivoluzioni liberali e sviluppo della democrazia moderna (democrazia intesa, diversamente da quella greca, come democrazia formale di diritti e responsabilità individuali).
Idealmente nella visione liberale ciascun individuo è lasciato alle proprie forze e risorse per ottenere accesso alla sfera dei beni e servizi. Contrariamente a quanto spesso ripetuto, questa forma di idealizzata lotta di tutti contro tutti non ha precedenti né storici, né antropologici. Solo in condizioni di contorno e tutela legale molto particolari, condizioni storiche divenute possibili solo recentemente, un individuo può anche solo concepire di affidarsi alle proprie sole risorse per confrontarsi con il mondo esterno. Naturalmente, nonostante l’implausibile astrattezza di questa idea di agente economico come cavaliere solitario, il modello promuove ed alimenta efficacemente tale profilo come ideale normativo. Il modello tende perciò a divenire una profezia autorealizzantesi, tende cioè ad imporsi progressivamente, a diffondersi, ad incarnarsi in numeri crescenti di persone e, nella stessa persona, in numeri crescenti di comportamenti. In altri termini, per quanto l’individuo in libera competizione economica con ogni altro individuo sia un’astrazione, di fatto il sistema di relazioni capitalistiche tende a produrre, in modo crescente, persone che approssimano quel modello, ovvero persone per cui le relazioni con il prossimo tendono ad essere di solo due tipi: ostili o strumentali. Relazioni ostili se l’altro è un potenziale concorrente per ottenere ciò che l’individuo desidera (posto di lavoro, bene, servizio); relazioni strumentali se l’altro è una potenziale risorsa che mi avvicina a ciò che desidero.
Ad 4) First-come, first-served.
Sotto condizioni di competizione capitalistica la priorità temporale nell’accesso di qualunque prodotto al mercato è una variabile cruciale. Attendere coscienziosamente che un prodotto (bene o servizio) abbia eventualmente raggiunto una qualità ottimale prima di metterlo in vendita è sempre una strategia irrazionale, giacché attendere più dei competitori può limitare in maniera irreparabile la conquista di una fetta di mercato. Infatti, il profitto realizzato rappresenta un aumento di disponibilità di capitale, e la disponibilità di capitale è la principale delle variabili che dà accesso a futuri incrementi di profitto. In sostanza, la disponibilità attuale e pro tempore di profitti è ciò che consente sia di ottenere capitali supplementari (ad es. come vendita di azioni o concessione di crediti), sia di accedere a investimenti (marketing, aggiornamento tecnologico, economie di scala, ecc.) che producono ulteriori incrementi dei profitti. In ogni stadio di un’attività economica la disponibilità di capitale pregresso rappresenta un supporto decisivo (il più decisivo) per ottenere ulteriori incrementi di capitale. Chi primo arriva nell’accaparramento di una fetta del mercato, e dunque del relativo capitale disponibile, ha per ciò stesso un vantaggio comparativo sui competitori per conservare ed ampliare successivamente quella fetta di mercato. I vantaggi relativi diventano tendenzialmente vantaggi assoluti, in quanto in un sistema di libero mercato il detentore di maggior potere economico ha anche maggior potere contrattuale e quindi riesce ad imporre migliori condizioni per sé agli agenti economici con cui effettua transazioni. Chi ha una migliore posizione economica in un tempo t(1) è perciò anche nella posizione più favorevole per ottenere una fetta maggiore del profitto complessivo in un tempo successivo t(2).
Questo premio costitutivo assegnato alla priorità temporale nella vendita (guadagno) rappresenta il segreto della tipica pulsione capitalistica all’accelerazione.
5) Esiti sistemici: flessibilizzazione, frammentazione, entropizzazione.
Il quadro generale che presenta un sistema di relazioni capitalistico è dunque tale che:
- a) l’iniziativa economica procede costitutivamente in modo pluralistico, ‘anarchico’ e privo di indirizzo generale;
- b) il sistema nel suo complesso mira strutturalmente alla crescita del prodotto (in senso economico, includente i servizi);
- c) ciascun agente economico è in competizione ideale con ogni altro;
- d) la competizione per vantaggi relativi spinge ad accelerare tutte le attività di produzione e di consumo.
La sinergia di queste tendenze conduce ad un esito storico particolare, ovvero ad una tendenza strutturale verso mutamenti costanti, frenetici, e miopi.
In cosa si sostanzia tale tendenza? In una pluralità di fenomeni, individualmente noti, ma che di norma non vengono percepiti come accomunati da alcunché; ne nomino a seguire i tre principali.
- I) Il primo fenomeno in questione è la dinamizzazione forzosa dei rapporti economici, con conseguente tendenza alla ‘flessibilizzazione’ e alla ‘precarizzazione’. In sostanza una competizione generalizzata e non coordinata, richiede innovazioni di prodotto e modi di produzione, nonché accelerazioni dei tempi di produzione per ‘stare sul mercato’. Ciò comporta la richiesta (perfettamente razionale da parte dei datori di lavoro) della massima flessibilità di mansioni e di orari, e del minimo impegno contrattuale a lungo termine da parte dell’azienda, che deve poter cambiare in modi rapidi, e al momento imprevedibili, forme, modi e anche luoghi di produzione. Questo processo è oggi troppo manifesto da richiedere particolari commenti.
- II) Il secondo è la frammentazione progressiva di ogni società o comunità, in quanto nessuna identità sovraindividuale ha più né dignità, né oggettiva capacità di autoriprodursi, a meno che non rivesta una funzione di produzione economica (come azienda, ditta, corporation). In questo senso un sistema di produzione capitalistico tende ad estinguere progressivamente ogni forma di politica, nel senso originario di cura della polis, della comunità civile. La rappresentanza politica tende così a trasformarsi o in fattore collaterale ad alcuni processi produttivi, in quanto creatore di norme sussidiarie al processo produttivo, o direttamente in impiego in senso ordinario, ambito come mera fonte di reddito.
- NB: Può essere curioso notare come tutt’oggi nella rappresentazione pubblica (soprattutto cinematografica) l’Arcinemico continui ad essere identificato con una qualche incarnazione del Leviatano di Hobbes, nella veste di uno Stato fanaticamente votato al controllo di individui che tenderebbero virtuosamente a sottrarvisi. Mentre in realtà lo Stato è sempre di più ridotto ad un comitato d’affari privati, ancorché pubblicamente eletto, davanti alle coscienze individuali si continua a far balenare con insistenza l’immagine minacciosa di entità sovraindividuali oppressive e fanatiche (anche le corporation private, quando viene loro attribuito un ruolo malvagio, presentano questi tratti appartenenti al classico format Leviathan/Hitler/Stalin). Questa paradossale dissonanza tra rappresentazione e realtà non è priva di interesse. La tendenza storica dominante è quella per cui nessuna entità sovraindividuale in una società occidentale moderna tende a possedere alcuna solidità o identità che non sia quella conferita eventualmente da una convergenza provvisoria di interessi economici. Possono esistere naturalmente istituzioni oppressive e anche violente, senza che ciò implichi nulla circa la loro solidità a lungo termine: ciascuna entità sovraindividuale occidentale tende ad essere, di fatto, in perenne vendita al miglior offerente.
In ultima istanza, ad essere ‘solido’ nel sistema capitalistico non è nessun aggregato di individui, nessuna comunità, nessuna azienda, nessuno stato; ad essere ‘solido’ è solo il sistema stesso, la cui elasticità e liquidità gli consente di reincarnarsi, come novello Proteo, in nuove forme sociali provvisorie.
III) Ricordiamo infine, tra le manifestazioni strutturali delle condizioni di cui sopra, la spinta all’innovazione forzosa del prodotto e dei modi di produzione, che comporta la continua introduzione ‘sperimentale’ di novità nella sfera dei prodotti e dei modi di produrli, sotto pressione temporale. Per ogni prodotto presente sul mercato, dal cibo, ai cosmetici, ai medicinali, ecc. vengono costantemente introdotte variazioni nei modi di produrli e/o nella loro composizione, senza che vi sia il tempo materiale (né l’interesse) per valutarne l’impatto a lungo termine. In pratica noi produciamo continuamente ‘cose nuove’, nuovi cibi, cosmetici, medicinali, modi di conservazione, ecc. con processi di produzione nuovi, i cui effetti a lungo termine, a maggior ragione se combinati, ci sono ignoti. Occasionalmente scopriamo che questo o quel prodotto ha effetti collaterali gravi (DDT, talidomide, coloranti, addensanti, emulsionanti, parabeni, ecc.). Ma per un paio di prodotti di cui faticosamente qualche ricercatore accerta la dannosità, ne vengono prodotti simultaneamente centinaia altri dagli effetti ignoti. Anche nel caso dei farmaci, dove pure esistono agenzie che ne valutano la possibile introduzione sul mercato, i tempi di sperimentazione e test sono ampiamente inadeguati a valutarne davvero gli effetti nell’uso a lungo termine, o gli effetti combinati.
L’idea di fondo del liberismo come teoria del sistema capitalistico è che queste variazioni, se dovessero avere effetti negativi, verranno sanzionate dal rigetto consapevole da parte dei consumatori. Si tratta tuttavia di una foglia di fico argomentativa manifestamente priva di plausibilità, al di fuori dei manuali di microeconomia. Il consumatore non è quasi mai nelle condizioni cognitive per accertare gli effetti reali di questa variazione forzosa della propria esposizione ambientale.
- NB: Può essere interessante notare come le affezioni e malattie che caratterizzano maggiormente la nostra epoca (allergie, intolleranze, tumori, stati infiammatori di origine ignota, malattie autoimmuni, ecc.) non si presentano secondo la forma tradizionale dell’invasione di un intruso (batteri, funghi, virus, parassiti), ma nella forma della rottura di un equilibrio interno all’organismo stesso. L’azione dissolutiva, entropizzante del sistema si traduce, in modo tutt’altro che metaforico, nella malattia come rottura dell’equilibrio organico. Il mondo cui siamo esposti materialmente è un mondo che, rispetto ad ogni epoca passata, presenta un tasso di variazione inedito: variazione delle condizioni in cui operiamo, di credenze ed aspettative, di relazioni (sempre più effimere), fino alla variazione costante delle molecole cui siamo esposti. Ogni mutamento nelle condizioni di relazione ambientale o consentono un adattamento nei limiti di adattamento ontogenetico disponibili all’individuo, o degenerano in malattia (organica, ma anche mentale). L’esposizione a condizioni di mutamento che travalicano i margini di adattamento ontogenetico non conducono a mutamenti adattivi (alla Lamarck), ma semplicemente alla patologia e all’estinzione. Può essere utile ricordare, a titolo di suggestione, come condizioni con elevato tasso di variazione ambientale siano favorevoli solo ad organismi semplici, con genomi meno strutturati e variazioni intergenerazionali rapide. Un mondo come quello che andiamo creando è un mondo premiale per batteri, moscerini e scarafaggi, un po’ meno per i mammiferi in generale, ancora meno per quei delicati e pretenziosi mammiferi che siamo…
- Limitandosi a questi tre aspetti principali, il quadro che emerge è quello di una tendenza progressiva e costante all’isolamento e all’esposizione ad un ambiente circostante in continuo cambiamento, sia dal punto di vista ambientale che sociale. Il risultato netto di questo processo è la crescita di una forma di vita che gravita intorno a due disposizioni di fondo: l’angoscia sul piano esistenziale (vedi prima parte) e la paura sul piano operativo. L’angoscia come destrutturazione identitaria e assiologica, e la paura come incapacità costante di pre-occuparsi in maniera sufficiente ed efficiente (è sempre ‘prudente’ pre-occuparsi più di quanto già si faccia).
Il sistema di autoriproduzione del capitale è dunque un sistema che genera sistematicamente insicurezza, nel senso più estensivo del termine.
Sarebbe a questo punto interessante procedere a mostrare come questa forma crescente di insicurezza si ripercuota concretamente sul piano politico ed economico. Questo sarebbe tema per un’analisi successiva, ma senza la pretesa di avviare qui un ragionamento a proposito, possiamo limitarci, assertivamente, a identificare due tendenze politico-economiche prevedibili:
- Un incremento delle richieste di sicurezza agli Stati, il cui ruolo si allontana sempre di più dal modello patriarcale antico (lo Stato come versione ampliata dell’organismo e della famiglia), avvicinandosi invece costantemente al modello liberale dello “Stato Sentinella”. Gli Stati si ritraggono sempre di più da tutti quei compiti che appartenevano alle comunità su base personale (assistenza, educazione, cura, ecc.), mentre vengono chiamati in sempre maggior misura ad assumere oneri di sorveglianza, controllo, eventualmente repressione.
- Un’esacerbazione di uno dei tipici, e più studiati, meccanismi autodistruttivi della produzione capitalistica, ovvero le crisi di sottoconsumo (o come si chiamavano una volta, di ‘sovrapproduzione’): il bisogno di sicurezza si converte infatti in modo crescente in forme di tesaurizzazione, con parziale uscita di capitali dalla circolazione, ovvero in varie forme di eccesso di ‘risparmio’ (per gli agenti economici che sono in grado di risparmiare). Tale risparmio, concepito in funzione di cuscinetto di ‘sicurezza’ è di fatto scarsamente interessato all’investimento, e disposto persino a sopportare l’erosione inflattiva, pur di mantenersi disponibile. Queste forme di tesaurizzazione di sicurezza sottraggono grandi quantità di capitale dalla circolazione, e dunque dal consumo, innescando o incrementando le tendenze al sottoconsumo, con ciò che ne segue (disoccupazione, sottoccupazione, ecc.).
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