Il carattere degli Italiani
di WALTER BARBERIS
Cosa sia la nazione italiana, chi sia l’italiano, se vi sia un carattere italiano sono interrogativi che forse è bene lasciare alla molta letteratura che si è esercitata sul tema. Tutt’al più, vale la pena ricordare che quando si trattò di disegnarne un profilo unitario, quando tra la fine del Settecento e il corso dell’Ottocento si avviò il gran movimento che doveva portare gli italiani all’unità politica e istituzionale, molti uomini di pensiero e d’azione dissero la loro. Ovviamente, ciascuno a suo modo, per gettare le fondamenta di un uomo nuovo su quel tanto di antico che ciascuno degli italiani chiamati in causa portava con sé. Chi li voleva “arditi”, chi “virili”, o “frementi”, senza dubbio di più alto sentire, meno inoperosi, pusillanimi, ambigui.
Carlo Cattaneo, con grande realismo, li sapeva differenti fra loro, gli italiani, e diversi da altri popoli; e non si faceva scrupolo di dire che non sarebbe stato facile modellare una nazione nuova come se fosse stata di cera. Non a caso si devono proprio a lui le uniche riflessioni non peregrine sul tema di un eventuale federalismo italiano.
Con altri accenti Vincenzo Gioberti dichiarava l’inesistenza dell’italiano e segnalava la pluralità come un tornante assai duro da superare per imbastire il discorso unitario: un contro era il “presupposto”, il “desiderio”, il “nome”: altro erano la “cosa”, la “realtà”. Come fare a ricomporre l’Italia che fin lì era stata sì “congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustra; ma divisa di governi, di leggi, d’istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini”?
In effetti, sembrava meno facile che altrove costruire per gli italiani un edificio unitario che oltre ad una cornice giuridica sapesse dare una comune coscienza di sé e una condivisa volontà di azione. Non era come per gli inglesi che per primi si erano dati un inno nazionale nel 1742, tenuti insieme dall’insularità e da consuetudini millenarie; né come per i francesi, che la Marsigliese e il tricolore se li erano conquistati rovesciando per sé e per gli altri un’intera epoca; e neppure come per quei popoli sui bordi della grande storia che si contentavano di un modesto profilo autonomo, fatto magari di piccole cose inventate, come il kilt e la cornamusa per gli scozzesi.
La situazione degli italiani era assai più complicata. Erano diversi, lo dicevano pressoché tutti. La qual cosa era preoccupante, naturalmente, perché dichiarava difficoltà, impotenza persino: comunque qualcosa di storto, o sfortunato, difficile da rimettere in sesto. Manzoni si lamentava moltissimo di questa opinione diffusa: scriveva al Lamartine che all’Italia “non c’era una parola più dura da lanciare contro di diversità”, poiché era chiaro che con quel termine si voleva richiamare “un lungo passato di disgrazia e umiliazione”.
Le voci erano molte e di tonalità differente in quel giro d’anni; sembravano tuttavia accordarsi quando dicevano delle prime soluzioni da adottare per educare gli italiani. Mazzini sopra tutti parlava di rinuncia all’egoismo individuale. Gioberti di superamento della “patria municipale”, dove da sempre “casa, famiglia, parenti, amici, poderi, traffico, industria, clientele, cariche, reputazione” erano un tutt’uno in cui si confondeva ampiamente il bene comune con la più viscerale difesa del bene proprio.
E a cose fatte, dopo l’Unità, l’indice puntato di Massimo d’Azeglio non cambiava direzione: erano lo spirito settario, la ricerca di un tornaconto personale – le “dappocapggini e miserie morali” che erano state ab antico la rovina degli italiani – il vero nemico del “dovere”, cioè la risposta necessaria a un bisogno generale. Riflettendo sul carattere degli italiani, Benedetto Croce avrebbe detto mezzo secolo dopo: “Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia”.
[da Il bisogno di patria, Einaudi 2004]
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