Federico Caffè: “La sfida della disoccupazione giovanile”
Alcuni atteggiamenti che hanno avuto occasione di manifestarsi, a seguito della pubblicazione delle cifre del primo elenco dei giovani alla ricerca di lavoro, non possono non destare un certo stupore. Indubbiamente i dati ora disponibili accrescono i «dettagli» delle nostre conoscenze e non sono privi di utilità. Sarebbe, peraltro, mera ipocrisia dare a intendere che la gravità del fenomeno non fosse già nota, anche nelle sue connotazioni inerenti alla rilevanza della componente femminile e alla distribuzione territoriale. In realtà, sebbene gli addetti ai lavori, nel campo della statistica, non perdano occasione nel metterci in guardia contro la innata tendenza a generalizzare i fatti che cadono sotto la nostra osservazione immediata; proprio con riguardo alla disoccupazione giovanile, ciascuno di noi aveva avuto numerose occasioni per esservi coinvolto e per aver acquisito una dolorosa esperienza di quanto fosse logorante e mortificante la ricerca di un posto di lavoro, sia per i diretti interessati che per i loro familiari.
Ora, di fronte alla eloquenza della documentazione statistica, la preoccupazione prevalente sembra essere quella di «non alimentare delusioni» e di lasciare ben intendere che le possibilità effettive di lavoro sono enormemente al di sotto delle richieste espresse. Ma il discorso non può, chiaramente, fermarsi a questo punto. Se i posti di lavoro non si improvvisano, va almeno apertamente riconosciuto che la incapacità di assicurare la «dignità» del lavoro a coloro che vi aspirano rappresenta, indipendentemente da ogni richiamo al dettato costituzionale, la manifestazione evidente di una disfunzione fatale all’accettabilità di un sistema economico. Rilevare che il fenomeno della disoccupazione giovanile non è unicamente italiano, ma investe l’intero mondo industrializzato, per limitarsi soltanto a questo, non fa che rafforzare la gravità e il carattere intrinsecamente eversivo di questa disfunzione. Ma un confortarsi con il mal comune sarebbe chiaramente aberrante. Né, del resto, il fenomeno è del tutto simile nei vari Paesi, ma presenta anzi differenziazioni accentuate, non solo per i suoi caratteri propri, ma anche per il clima di opinione che prevale nelle diverse economie nazionali.
Per quanto concerne il nostro Paese, accade che le misure di intervento rivolte a dare qualche rimedio alla disoccupazione giovanile siano destinate a trovare applicazione in un periodo in cui prevale un’atmosfera intellettuale particolarmente avversa all’azione dei poteri pubblici in generale, all’azione del settore pubblico dell’economia in particolare, alla spesa pubblica con asprezza del tutto acritica e indiscriminata. È difficile dire se si rimane maggiormente colpiti dal carattere anacronistico di questa liberalizzazione di seconda ondata e riferita questa volta al mercato interno; o dalla spregiudicatezza con la quale torna ad applicarsi con rinnovato vigore la vecchia pratica di «privatizzare gli utili e collettivizzare le perdite»; o dalla supposizione che i cittadini veramente non siano in grado di rendersi conto della misura in cui le difficoltà del presente siano collegate alle collusioni, alle soluzioni e alle omissioni del passato.
Una politica di serio e concorde impegno nazionale per elevare i livelli di occupazione non può fondarsi su basi equivoche e senza un serio ripensamento autocritico delle «linee» perseguite nel recente e meno recente passato. È necessario dare maggiore impulso a fattori «interni» di ripresa dell’economia anziché continuare a considerarli un sottoprodotto della espansione economica internazionale. È necessario esaminare in modo approfondito la composita struttura del settore terziario e individuarvi le possibilità di occupazione «produttive» che contiene in vari suoi rami. Occorre evitare di dar credito a suggerimenti, veramente incongrui, quale ne sia la provenienza, di sospensione indiscriminata nelle assunzioni negli impieghi pubblici, poiché l’oculatezza non si realizza con l’ottusità.
Occupazione è creazione di qualificazioni professionali per il futuro e salvaguardia di specializzazioni di mestiere acquisite con costo nel passato. Non vi è dissipazione peggiore, per un sistema economico, che lo sperpero delle capacità lavorative umane già disponibili, o da creare con l’apprendimento e la preparazione. È la considerazione del costo sociale di questo sperpero che sta alla base della concezione dello Stato «occupatore di ultima istanza». Non si tratta di populismo assistenzialistico, ma proprio dell’inverso: si tratta di tradurre in termini operativi una linea di pensiero consapevole dei fallimenti del mercato e ispirata al principio che «lo spirito pubblico, guidato dalla conoscenza, può essere l’artefice del miglioramento sociale».
Federico Caffe, “La sfida della disoccupazione giovanile”
(pubblicato su Il Messaggero del 18 agosto 1977)
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