Foglie di fico: quando Tartarin s'en va-t-en guerre
di MAURO POGGI (ARS Liguria)
ANSA
Una vera e propria pioggia di fuoco su Raqqa, la ‘capitale’ dello Stato islamico in Siria: lo riferiscono gli attivisti anti-Isis nella città. “Almeno 30 i raid aerei” nelle ultime ore, “che si sono intensificati in serata”. La Francia conferma, attraverso il ministero della Difesa, il massiccio bombardamento dei suoi jet su Raqqa, la ‘capitale’ dell’Isis in Siria.
France 24
Aerei Francesi hanno lanciato il più grande attacco aereo ad oggi in Siria contro la roccaforte dello Stato Islamico a Raqqa, due giorni dopo l’attacco terroristico a Parigi. Il ministro della difesa ha affermato: “L’attacco, con dieci aerei da combattimento, è stato lanciato simultaneamente da basi degli Emirati e della Giordania. Sono state sganciate venti bombe. L’operazione, condotta in coordinamento che le forze americane, ha colpito un centro di comando, un centro di reclutamento, undeposito di munizioni e un campo di addestramento.
Il primo ministro Manuel Valls, durante una conferenza stampa seguita all’operazione, la ha definita l’operazione impitoyable. Un giornalista gli ha banalmente chiesto come mai, questa “spietata operazione” non è stata eseguita prima, dal momento che gli obiettivi erano conosciuti non certo da ieri. La risposta di Valls è stata più o meno che “noi combattiamo l’ISIS da quattro anni”, o qualcosa del genere.
La risposta vera, forse, è nell’ammonimento e implicita accusa che Bashar al-Assad aveva rivolto agli occidentali nel 2013: “A quei politici vorrei spiegare che il terrorismo non è una carta vincente che si possa estrarre e utilizzare in qualsiasi momento si voglia, per poi riporla in tasca come se niente fosse. Il terrorismo, come uno scorpione, può pungerti inaspettatamente in qualsiasi momento“.
Oggi la Francia e l’Occidente si accorgono che lo scorpione ha punto, e benché non sia la prima volta che lo fa essi tornano a stupirsi che accada.
Da anni il delirante neocolonialismo francese contribuisce attivamente alla mattanza di persone a centinaia di migliaia, e alla “destabilizzazione permanente di una fascia di migliaia di chilometri e centinaia di milioni di abitanti che con poche soluzioni di continuità ormai attraversa il pianeta dall’Est della Mauritania fino al Pakistan” (cfr Fabrizio Gatti su L’Espresso).
Tuttavia i media francesi titolano “Questa volta siamo in guerra“, come se le guerre che l’Occidente conduce lontano dalle nostre case fosse meno guerra; come se la foglia di fico della “democrazia esportata” e delle “missioni umanitarie” non servisse a nascondere, malamente, le pudenda oscene di interessi economici e geopolitici, e da sola bastasse a ridimensionare la portata delle devastazioni inflitte a quei popoli.
Devo confessare che provo un profondo disagio per il cordoglio peloso che la buona educazione impone ai nostri cari leader:
– Angela Merkel :”Noi, gli amici tedeschi, vi sentiamo così vicini. Noi piangiamo con voi. E combatteremo insieme la battaglia contro coloro che vi hanno fatto quel che non si può concepire”;
– Ban-Ki Moon: “attacchi vergognosi”;
– Matteo Renzi: “Insieme ai nostri fratelli francesi, contro l’atroce attacco a Parigi e all’Europa”;
– David Cameron: “Sono scioccato dagli eventi a Parigi questa notte. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con i francesi. Faremo qualsiasi cosa per dare aiuto”;
– Il Presidente egiziano al-Sisi: “Simili attacchi non piegheranno la volontà dei Paesi che amano la libertà”;
– Barak Obama: “Non è un attacco solo contro la Francia ma contro l’umanità e i valori universali che condividiamo. Abbiamo assistito a un tentativo oltraggioso di terrorizzare civili innocenti”.
Il compitino, velocemente sbrigato da spin doctors in comprensibile crisi di creatività, esonera questi personaggi dal dovere rendere conto delle pesanti responsabilità che gli appartengono. E tanto peggio se la puzza di stantio esalata da queste frasi è inconfondibile.
Il 15 novembre Hollande era in prima fila, con il Primo Ministro Valls, per l’accorato minuto di silenzio alla Sorbona, a cui idealmente ha partecipato tutta l’Europa. Lo era a gennaio alla manifestazione per Charlie Hebdo insieme agli altri “grandi della terra” (mentre il resto della folla veniva tenuto a debita distanza di sicurezza).
Di nuovo chiederà ansiosamente ai suoi esperti di comunicazione quanto gli è valsa l’attuazione in termini di recupero di consenso elettorale.
Quanto a noi, la gente comune, siamo stati tutti americani, poi spagnoli, poi inglesi. Siamo stati tutti Charlie, e ora tutti parigini. Ma la nostra capacità di empatia è limitata alle sole sofferenze che riconosciamo come nostre: non abbiamo osservato il minuto di silenzio per le vittime dell’attentato di qualche giorno prima a Beirut, né per quelle di Ankara ad ottobre, né per nessuna strage che laggiù viene perpetrata con impressionante regolarità – quando da fondamentalisti islamici, quando da eserciti regolari, quando da bombe sganciate da aerei o droni occidentali.
È pur vero che se ci imponessimo di osservare un minuto di silenzio per ogni volta che accade un eccidio in quelle zone rischieremmo di dover tacere per anni.
Alla fine, è ancora Bashar al-Assad, il tiranno sanguinario, a darci uno spunto di riflessione: “Ciò che la Francia ha subito dal selvaggio terrorismo è ciò che il popolo siriano soffre da oltre cinque anni“.
E non solo il popolo siriano.
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