Tornare a camminare con le proprie gambe
di GIANLUCA BALDINI (FSI Pescara)
La sovranità popolare è l’elemento che contraddistingue le repubbliche democratiche dalle altre forme di governo. Chi mette in dubbio il fatto che la sovranità appartenga al popolo, come recita il primo articolo della nostra Costituzione, in effetti mette in discussione la stessa democrazia e i principi che da essa derivano, ivi inclusi i diritti e le libertà che questa garantisce.
La sovranità nazionale, invece, è uno status dipendente da numerose variabili: dal ruolo geopolitico di uno Stato, dal livello di indipendenza dall’approvvigionamento di risorse fondamentali per il funzionamento di un’economia moderna (fonti energetiche e materie prime), dall’articolazione delle sue istituzioni, dalla composizione della sua demografia industriale e dal peso della sua valuta, che è strettamente correlato a tutte le altre variabili.
Il tema centrale per chi mette in discussione il sovranismo, dunque, dovrebbe essere la legittimità della pretesa di rivendicare un’autonomia nel contesto globale, cioè di essere in grado di camminare sulle proprie gambe, mentre il tema della sovranità popolare non dovrebbe essere affatto oggetto di discussione, a meno che non si ritenga utile e auspicabile instaurare una dittatura.
Quindi la domanda a cui dovremmo dare una risposta è: l’Italia è un paese che può rivendicare ed esercitare una sovranità nazionale? Quali sono i fattori che determinano la capacità di ambire all’esercizio di questo “privilegio”?
Opinione diffusa e ritenuta acquisita dall’ortodossia economica è che un paese possa definirsi autonomo e dunque in grado di esercitare la sovranità nazionale nella misura in cui riesca a mantenere in equilibrio il saldo delle partite correnti, con particolare attenzione alla bilancia commerciale. Sarebbe necessario, cioè, riuscire a conseguire un minimo surplus commerciale o per lo meno un pareggio tra importazioni ed esportazioni. Questo convincimento fa leva sull’evidenza che molti paesi che hanno sperimentato persistenti squilibri commerciali si sono avvitati in spirali di debito estero che si sono inevitabilmente risolte in default sovrani. A questa visione mainstream si contrappone una lettura opposta, che nega il ruolo cruciale delle partite correnti, concentrando l’attenzione sugli aspetti monetari e sul ruolo di garanzia giocato dalle istituzioni. Gli eterodossi che hanno prodotto questa lettura alternativa portano l’esempio dei paesi che, al contrario, sperimentano deficit delle partite correnti di lungo periodo senza mai incorrere in crisi di debito.
Il mio livello di conoscenza e la mia estraneità al circolo degli autorevoli leader di opinione impone estrema cautela nel giudicare la validità dell’uno o dell’altro approccio interpretativo. Tuttavia non posso fare a meno di osservare che entrambe le posizioni muovono dalla semplice osservazione di indicatori economici, ignorando le altre variabili in gioco succitate e dunque peccando di economicismo, cioè di riduzionismo a meri fattori economici. Tanto la visione mainstream quanto quella eterodossa, infatti, pretendono di far assurgere a regola generale fattispecie particolari che rilevano questioni che andrebbero sottoposte ad analisi interdisciplinari più approfondite. Spiegare il default dell’Argentina o i disavanzi costanti degli USA e dell’Australia ricorrendo alla mera osservazione delle dinamiche dei saldi commerciali o delle politiche monetarie rischia di negare l’influenza determinante delle altre variabili, che contribuiscono innegabilmente a incidere sulla sostenibilità dei debiti, sulla percezione di affidabilità di un paese e della sua valuta e dunque sulla fiducia dei creditori e sulle scelte di politica economica adottate.
Questa lettura parziale della realtà è alla base della pretesa di paragonare periodicamente il caso italiano a quello turco, venezuelano, argentino, greco e via discorrendo. È evidente che nessuno dei paesi citati è paragonabile all’Italia, perché nessuno di questi stati ha mai raggiunto i livelli di sviluppo economico e di benessere dell’Italia, così come non sono paragonabili gli assetti istituzionali, gli ordinamenti giuridici, il ruolo geopolitico, il peso dell’industria avanzata e manifatturiera e il conseguente valore delle divise nazionali sui mercati valutari internazionali.
Tornando sul tracciato segnato dal tentativo di fornire una replica sensata alla domanda iniziale, mi spingo ad azzardare una risposta realistica desumendola dalla storia recente. Credo che l’Italia abbia tutte le carte in regola per esercitare una piena sovranità nazionale. Sulla base di quale considerazione? Per la banale constatazione che il nostro paese ha già raggiunto, in quel formidabile periodo postbellico che va sotto il nome di “trentennio glorioso”, le vette del mondo in termini di sviluppo socioeconomico, partendo dalle macerie di una guerra di fatto persa (non ci è mai stato riconosciuto lo status di cobelligeranza). Abbiamo dimostrato al mondo intero che è possibile contemperare il capitalismo moderno e la vivacità imprenditoriale con il ruolo centrale di uno Stato forte che interviene nell’economia garantendo l’erogazione gratuita dei servizi essenziali e la produzione dei beni necessari a prezzi calmierati, la ricerca e lo sviluppo tecnologico nei settori industriali strategici, l’adozione di politiche estrattive disinvolte nel tentativo di garantirsi autonomia nell’approvvigionamento delle fonti energetiche. Lo Stato imprenditore italiano ha giocato, per un lungo periodo, il ruolo di primo competitor internazionale nei mercati dei capitali privati (pensiamo all’ENI di Mattei che ha minacciato l’oligopolio delle “Sette sorelle”), contribuendo al crescente prestigio del nostro paese che era rappresentato dagli osservatori internazionali come esempio di “miracolo economico”.
L’Italia è stata in grado di esercitare con decisione la propria sovranità nazionale ritagliandosi un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale delle potenze economiche, scalando la classifica dei paesi più ricchi del pianeta, vedendo riconosciuto il ruolo della propria moneta sui mercati internazionali (nel 1960 il Financial Times assegnò alla lira il titolo di “valuta dell’anno”) grazie alla qualità e al prezzo competitivo dei beni acquistabili con questa divisa, entrando nel 1975 ufficialmente nel “Gruppo dei sette” ed arrivando, alla fine degli anni ‘80, a conseguire il famoso sorpasso che ha visto il bel paese imporsi come quarta potenza economica del pianeta dopo USA, Giappone e Germania.
Cosa mancherebbe dunque oggi al nostro paese per tornare ai fasti di un non lontano passato? Evidentemente la volontà di tornare a esercitare quella sovranità, che richiede una rinnovata adesione a quel modello di ispirazione socialista espresso dalla nostra Costituzione. Questo orizzonte è stato abbandonato già nel corso degli anni ‘80 e soppresso negli anni ‘90 in favore del modello liberale promosso dall’Unione Europea, che vede nello Stato un inutile peso di cui liberarsi e che promuove l’avanzamento del capitale privato in ogni settore dell’economia, negando la necessità di sottrarre alle logiche del profitto quei servizi essenziali per il progresso sociale e umano degli individui e quei prodotti che consideriamo ormai indispensabili per la conduzione di un’esistenza dignitosa.
Tornare a camminare sulle nostre gambe vuol dire, in altre parole, abbandonare il modello liberale promosso dall’UE e tornare sul tracciato socialista delineato dalla nostra meravigliosa Costituzione repubblicana del 1948. Questo è quello che credo e questa consapevolezza è via via sempre più diffusa nella popolazione. La lotta di liberazione è solo agli inizi, ma sono certo che anche stavolta, sapremo ricostruire un impianto solido dalle macerie che ci sta lasciano questa classe dirigente asservita a interessi terzi. L’Italia tornerà ad essere un modello di sviluppo socioeconomico per il mondo intero.
Ci libereremo!
Salve Gianluca, ho avuto il piacere di conoscerti all’incontro in Confcommercio constatando che sei davvero l volto nuovo dei competitori sindaci, mi hai incuriosito ed ho cercato notizie che ti riguardasse. Trovate, così come le tue idee. Sinceramente però, non riesco a capire l’ulteriore ennesima etichetta politica FSI, cosa si vuol dire? Dobbiamo uscire dall’Europa? E come? Con quale forza? Il messaggio non è chiaro (almeno per me).
Perché non cooptare con altri movimenti già esistenti come ad es. i 5 stelle che raccolgono varie anime democratiche e non corrotte dai preesistenti partiti politici? Aggiungere e ancora aggiungere genera ancora più confusione e la vittoria inevitabilmente sarà scarsa e frammentaria