Finanziamento e struttura del Servizio Sanitario Nazionale (documento per l’assemblea nazionale del FSI – 9 giugno 2019
FINANZIAMENTO E STRUTTURA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
PRIMA PARTE: ANALISI
- Premessa: la sussidiarietà verticale e orizzontale
Negli anni recenti gli effetti della costruzione europea sull’economia e sulla società italiana sono diventati sempre più chiari a chi volesse vederli. L’Unione Europea ha reso impossibile l’impresa pubblica, tramite il divieto di aiuti di stato, e ha spinto e di fatto imposto ad una classe dirigente liberale di smantellare le tutele sul lavoro acquisite faticosamente durante la Prima Repubblica, vietando la politica del cambio e il vincolo alla circolazione dei capitali; giusto per limitarci agli effetti principali.
Non è ancora altrettanto chiaro, invece, come l’Unione Europea sia riuscita ad innescare la sostanziale privatizzazione dei servizi pubblici fondamentali, a partire dalla Sanità universalistica derivata dall’art.32 della Costituzione italiana. Nessun trattato, in effetti, vieta esplicitamente un servizio sanitario a gestione totalmente pubblica e ad erogazione quasi esclusivamente pubblica, come era quello delineato nella legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, la 883 del 1978.
L’innesto dei principi concorrenziali e aziendalistici nel corpo della nostra Sanità è avvenuto più sottilmente, facendo leva sul concetto apparentemente democratico di sussidiarietà, che non trova spazio nel testo originale della Costituzione del ’48 ma che è al centro del Trattato sull’Unione Europea e della Costituzione novellata tramite la legge costituzionale 3/2001.
Secondo questo principio è l’istituzione più vicina al territorio la più adatta a svolgere la principali funzioni legislative ed amministrative, perché sarebbe per definizione più efficiente nell’utilizzo delle risorse e più efficace nel predisporre servizi di qualità. I livelli di governo superiori dovrebbero intervenire solo in via sussidiaria per coordinare l’attività locale e indicare gli obiettivi di massima. Se l’istituzione locale non si dimostra all’altezza viene in soccorso il concetto di sussidiarietà orizzontale, secondo cui non è necessariamente il settore pubblico a dover soddisfare tutta l’offerta, in questo caso sanitaria, ma può esserci una virtuosa collaborazione tra ente territoriale e istituzioni private, che siano a scopo di lucro o di volontariato. La sussidiarietà, quindi, coincide giuridicamente con la concorrenza legislativa e amministrativa tra Stato ed enti territoriali, da un lato, e con la concorrenza tra erogatori pubblici e privati, dall’altro.
- Breve storia del Servizio Sanitario Nazionale
2.a Il Federalismo nella Seconda Repubblica, una secessione mascherata
È spettato al federalismo, fenomeno tornato in voga sin dagli anni ottanta-novanta del secolo scorso, tradurre nella prassi politica il nuovo principio di sussidiarietà, ancora prima che questo fosse formalmente inserito nella Carta costituzionale.
Federalismo costruito pezzo dopo pezzo grazie al contributo ideologico fondamentale della Lega Nord, e quindi una particolare declinazione di federalismo di tipo razzista e a tratti esplicitamente secessionista verso le regioni del centro e del sud Italia.
Non va mai dimenticato a questo proposito che la Lega Nord amava identificarsi come il partito più europeista in assoluto per bocca del suo segretario Umberto Bossi, e che la Lega autonomista lombarda, nel primo numero della rivista Lombardia Autonomista uscito nel 1983, identificò esplicitamente il significato della sua esperienza con l’obiettivo di affermare la «socialità federalista, per l’autonomia lombarda nel quadro dell’unità federale dell’Europa»[1]; ma non va dimenticato neppure che il federalismo non è l’ideologia di un singolo partito estremista, bensì il sostrato ideologico di quel Partito Unico Liberale che ha occupato lo Stato negli ultimi 25 anni, dichiarandosi alternativamente di destra e di sinistra. Tutti i partiti della Seconda Repubblica sono stati in senso lato leghisti, abbandonandosi alla retorica dell’efficienza e della produttività nordica senza considerare le ragioni politiche strutturali della relativa arretratezza centro-meridionale; arretratezza che dopo due decenni di politiche liberali e federaliste è oggi evidente come non mai.
Il federalismo è stato introdotto ufficialmente nel nostro ordinamento con la riforma costituzionale del 2001, che ha preparato il terreno alla fiscalità autonoma degli enti territoriali e al graduale azzeramento dei trasferimenti centrali. Anche il testo originario della Costituzione, naturalmente, prevedeva un certo grado di concorrenza legislativa tra enti territoriali e Stato, comprendendo nell’alveo di questa concorrenza anche la salute, ma la natura ipocrita del federalismo di matrice europeista si evince dal peso specifico che sono venute ad assumere le regioni, cioè il terzo livello di governo a partire dal basso, e dal contestuale svuotamento di risorse e funzioni che hanno dovuto subire i comuni e le provincie, con queste ultime ormai da anni sull’orlo dell’estinzione. Più che ad una reciproca sussidiarietà abbiamo assistito ad un accentramento di potere verso le regioni e ad uno svuotamento parallelo degli enti locali e dello Stato. Quest’ultimo ha però mantenuto la funzione di garante dell’austerità: è lo Stato che stabilisce l’entità del Fondo sanitario nazionale tenendo conto, oltre che dei Livelli Essenziali di Assistenza, anche dell’“economicità nell’impiego delle risorse”, come recita il decreto legislativo 502 del 1992 che dà sostanza alla precedente riforma Amato del Servizio Sanitario Nazionale. È sempre lo Stato, inoltre, che può commissariare la politica sanitaria regionale se non vengono riassorbiti i disavanzi delle Asl.
In un contesto in cui l’intervento dello Stato nell’economia è fortemente limitato dai Trattati europei e la classe dirigente ha il solo obiettivo di entrare, prima, e di rimanere, poi, nell’euro – rispettando il percorso di abbattimento del deficit e del debito – il federalismo è diventato per le regioni più ricche la via di fuga per continuare a prendersi la stessa fetta nonostante la torta avesse smesso di crescere. Per la classe dirigente nazionale, invece, attraverso il federalismo si sono potuti imporre alle regioni meridionali gli aggiustamenti necessari a compensare le minori entrate (frutto dell’autonomia tributaria) con minori spese, risparmiando così sui trasferimenti centrali.
Lo Stato interventista della Prima Repubblica, che tendeva a redistribuire le risorse delle aree ricche del Paese verso quelle relativamente più povere e a produrre direttamente sviluppo in queste ultime, negli anni novanta ha lasciato il posto allo Stato regolatore, il quale si limita ad indicare alcune vaghe linee di indirizzo sanitario alle regioni attraverso il Piano Sanitario Nazionale e consente loro di organizzarsi come credono, chi con maggiore capacità fiscale e chi con meno, dato il diverso reddito pro-capite della popolazione residente. È un principio di disgregazione territoriale che trova il suo culmine nella legge delega del 2011, con la quale si stabilisce che dal 2013 i fabbisogni sanitari regionali non sono più calcolati a seconda della spesa storica delle singole regioni, ma prendendo a riferimento le tre regioni più “virtuose”. Il fatto è che per ponderare il fabbisogno di ogni regione si considera solo l’ampiezza della popolazione residente e la sua età media, notoriamente maggiore nel nord, mentre non viene riservato alcun peso alle condizioni socio-economiche, notoriamente peggiori in molte regioni del centro e sud Italia. A partire dal 2013 per finanziare i servizi sanitari le regioni centro-meridionali dovranno avere le stesse risorse pro-capite delle tre regioni che, anche grazie alle maggiori risorse fiscali, sono riuscite a vincere la sfida della sanità concorrenziale, sfruttando le economie di scala con la chiusura degli ospedali più piccoli e la concentrazione in grandi poli all’avanguardia e godendo di infrastrutture e tecnologie al passo con i tempi. È il meccanismo dei cosiddetti costi sanitari standard, dove lo standard è quello dei più ricchi che viene applicato brutalmente ai più poveri.
La spesa sanitaria in eccesso rispetto allo standard diventa automaticamente disavanzo e le regioni che inevitabilmente finiscono in disavanzo devono entrare in una sorta di braccio correttivo, del tutto simile a quello ideato dall’Unione Europea per gli Stati che fuoriescono dal tracciato del Patto di Stabilità e Crescita. In gergo si chiamano Piani di Rientro: le regioni che non riescono a rispettarli possono aumentare, se necessario anche oltre il massimo consentito dalla legge, le imposte e le tariffe locali come l’Irap e l’addizionale Irpef. Se ancora non vi è rientro, lo Stato può commissariare la sanità regionale per imporre l’aggiustamento al riparo dalla democrazia. Questo processo allarga rapidamente il perimetro della sanità concorrenziale perché costringe le Asl ad affidarsi agli erogatori più economici, spesso e volentieri quei privati che intanto stanno godendo di condizioni sempre più favorevoli per accreditarsi col Servizio Sanitario Nazionale.
2.b La riforma Amato e il Trattato di Maastricht
Lo spartiacque in tema di concorrenza sanitaria è la riforma Amato del 1992. Se il 1978 fu l’anno in cui lo Stato rivoluzionò il sistema frammentato delle mutue per istituire un Servizio Sanitario Nazionale, il 1992 è stato l’anno in cui il virus della concorrenza è entrato nel corpo performante ma ancora fragile di una Sanità che stava fungendo da modello avanzato, con tassi di mortalità evitabile fra i più bassi del mondo e, al netto di una certa propaganda, un’efficienza della spesa invidiabile.
Già da inizio anno ci pensò l’evento di Tangentopoli a decimare la classe dirigente della Prima Repubblica e a delegittimare il Parlamento. Un terzo dei parlamentari venne indagato e da maggio iniziarono i movimenti speculativi sulla lira, che dal 1987 era inserita in un sistema di cambi fissi molto simile all’euro e come quest’ultimo foriero di gravi squilibri. Sotto i colpi di Tangentopoli e dei mercati il parlamentarismo cedette il passo alla governabilità, impersonata in quella fase da Giuliano Amato che aveva intanto sostituito Giulio Andreotti al governo. Il governo Amato ci portò in dote l’introduzione dei ticket sanitari e la tassa sul medico di famiglia, oltre al prelievo del 6 permille sui conti correnti e a 100.000 miliardi di lire di manovre finanziarie in pochi mesi; ma soprattutto, tra ottobre e dicembre, la riforma del Servizio Sanitario Nazionale. L’Italia era uscita nel frattempo dall’emergenza finanziaria, perché la lira si era slegata dal Sistema Monetario Europeo svalutandosi a settembre, ma c’era già un nuovo vincolo esterno che ci impediva di realizzare le politiche che imporrebbe la Costituzione, ed era appunto quel Trattato di Maastricht che tuttora disciplina i vincoli di finanza pubblica e che allora indicava anche il percorso verso l’euro.
La riforma Amato ha risposto a quattro parole d’ordine diffuse ossessivamente nell’opinione pubblica per tutti gli anni ’80: “depoliticizzare la Sanità”, “aziendalizzazione”, “federalismo” e “concorrenza”. Queste parole d’ordine si sono poi tradotte in decisioni politiche:
1) il comitato di gestione delle Usl introdotto nel 1978 ed eletto dai consiglieri comunali fu sostituito dal direttore generale, un manager monocratico nominato dalla Regione; e non da tutto il consiglio, ma dal solo assessore regionale alla Sanità. Le Usl, prima strutture funzionali dei comuni, si trasformarono in Asl, Aziende sanitarie locali con forte autonomia economico-patrimoniale e gestionale affiancate anche dalle Ao, Aziende ospedaliere. Le Asl passarono così dalla dimensione comunale, vicina al territorio, ad una dialettica diretta con la giunta regionale;
2) la riforma diede vita al privato accreditato, favorito in un sistema concorrenziale dato che i capitali privati che lo finanziano a scopo di lucro competono con ospedali e ambulatori pubblici via via definanziati;
3) soprattutto, però, dal modello integrato in cui le Asl erogavano direttamente le cure attraverso i presidi ambulatoriali e ospedalieri si passò a quello contrattuale, con la separazione tra le Asl, che a causa dei minori trasferimenti regionali diventarono semplici committenti, e gli ospedali, gli erogatori pubblici e privati, chiamati ad attrarre la domanda sanitaria mediata dalle Asl facendosi concorrenza al ribasso tra loro sui costi delle prestazioni;
4) ultimo e decisivo tassello della riforma fu il rimborso a tariffa o a prestazione. Prima del 1992 le regioni rimborsavano i presidi ospedalieri a piè di lista, cioè in base a quanto effettivamente speso per le cure. Con la riforma Amato venne introdotto un rimborso standard, con un tariffario variabile a seconda della diagnosi, sul modello americano, che incentiva il privato interessato al profitto e il pubblico obbligato ad aggiustare i bilanci a ridurre i costi delle cure al di sotto della tariffa, così da lucrare la differenza.
2.c Dal Decreto Bindi alle politiche di austerità
Il Decreto legislativo 229 del 1999, conosciuto come riforma Bindi – pur con qualche passo indietro sulla libera professione poi immediatamente archiviato dai governi Berlusconi – confermò l’impianto aziendalistico della precedente riforma. A causa di queste ultime il processo di privatizzazione strisciante del Servizio Sanitario Nazionale ha acquisito forza particolare nel secondo decennio degli anni duemila, in parallelo alla doppia crisi economica dell’Unione Europea (2008 e 2011).
Quando si tratta di spesa sanitaria è necessaria una premessa: qualsiasi tipologia di spesa per continuare ad acquistare la stessa quantità di beni e servizi deve incorporare una rivalutazione in termini nominali anno dopo anno così da rispondere all’aumento dei prezzi, ma la spesa sanitaria necessita di una rivalutazione aggiuntiva causata dal continuo invecchiamento della popolazione, che riguarda in questa fase storica l’Italia in particolare, e dall’aumento del costo dei macchinari e della tecnologia in genere. Si può star certi che una diminuzione in termini reali della spesa sanitaria causi danni alla qualità del servizio, ma anche un aumento reale inferiore al fabbisogno va considerato a tutti gli effetti un taglio.
Dopo lo sforzo fiscale gravoso per entrare nell’euro, nei primi anni duemila il finanziamento del Fondo sanitario nazionale ha mostrato un andamento oscillatorio, che ad onor del vero ha raggiunto i suoi picchi positivi durante i governi di centro-destra mentre è rimasto piuttosto modesto quando ha governato il centro-sinistra, nel triennio 2006-2008.
Dal 2011, tuttavia, la cosiddetta “crisi dei debiti sovrani” ha agito da ulteriore vincolo esterno sulla spesa pubblica e ha consentito al governo Monti e ai successivi esecutivi di centro-sinistra di ridurre considerevolmente anche la spesa sanitaria.
Il governo Monti, intento a distruggere la domanda interna per recuperare competitività esterna e riequilibrare la bilancia commerciale, ha decurtato per la prima volta la spesa sanitaria pubblica in termini nominali, con la legge finanziaria per l’anno 2013. I successivi governi hanno mantenuto la dinamica della spesa sanitaria su livelli bassissimi, appena sufficienti a compensare l’inflazione[2].
Nel complesso del periodo considerato, “a fronte di un tasso di crescita medio annuo [della spesa sanitaria pubblica] del 7,4% nel quinquennio 2001-2005, il tasso di crescita del quinquennio successivo scende al 3,1%. Tale andamento si è ulteriormente consolidato nel periodo 2011-2016, dove la spesa sanitaria registra un tasso di variazione medio annuo leggermente negativo pari a -0,1%”. È bene specificare che si parla di livelli nominali, al lordo dell’inflazione e naturalmente dell’invecchiamento della popolazione.
Se invece consideriamo il fabbisogno sanitario stimato dagli stessi governi che si sono succeduti da Monti in poi, nel 2019 il Fondo sanitario nazionale sarebbe dovuto ammontare a 139 miliardi di euro. Nel 2019, invece, il Fsn si attesterà poco sopra i 114 miliardi di euro, 25 miliardi in meno del fabbisogno, che corrispondono ad un taglio del Servizio Sanitario Nazionale pubblico nell’ordine del 20% in soli sette anni di politiche di austerità.
Di fronte a questa cura violentissima è naturalmente aumentata la spesa sanitaria privata, cosiddetta “out of pocket”: +11,6% sul totale della spesa sanitaria e +25% per quanto riguarda la spesa privata pro-capite rispetto al 2011. Una dinamica simile a quella spagnola ma dissimile, ad esempio, a quella francese e giapponese[3].
Oltre che con l’urgenza della crisi si è tentato di giustificare questo assalto al Servizio Sanitario Nazionale con l’ipertrofia della spesa sanitaria pubblica e con gli incredibili sprechi che vi avrebbero albergato, almeno secondo la narrazione di certa stampa gestita direttamente dal grande capitale. Ad uno sguardo appena meno superficiale, tuttavia, è subito evidente il contrario.
- Valutazioni sul Servizio Sanitario pubblico e universalistico
Negli anni duemila, ancora prima dell’austerità vera e propria, la spesa sanitaria pubblica sul Pil si è attestata in Italia su livelli inferiori a quelli di tutti gli altri Paesi del G7 escluso il Regno Unito. Questo nonostante l’Italia sia da tempo il secondo Paese in termini di incidenza degli ultra-sessantacinquenni sul totale della popolazione con il 20% circa, fattore che richiederebbe una spesa sanitaria superiore e non inferiore alla media degli altri paesi avanzati[4].
Riferendoci ai dati della Banca Mondiale e delle Nazioni Unite, possiamo concludere che la spesa sanitaria italiana, oltre che ridotta, sia stata anche molto efficace (nel periodo 2000-2013 ci posizioniamo quarti in assoluto tenendo in considerazione l’aspettativa di vita e secondi considerando un dato più significativo: il tasso di mortalità evitabile ogni 100.000 abitanti, che ci vede piazzati appena dietro la Francia sopravanzando abbondantemente paesi come la Germania, la Spagna e il Regno Unito, per non parlare degli Stati Uniti).
La nostra spesa sanitaria pubblica, in barba ai luoghi comuni, si è rivelata infine molto efficiente (nello stesso periodo storico ci posizioniamo secondi in assoluto, dietro il solo Giappone, calcolando il rapporto tra efficacia del sistema e ammontare della spesa sanitaria pubblica)[5].
Sono evidenze confermate da un celebre studio, quello dell’Organismo Mondiale della Sanità del 2000, nel quale ci piazziamo nell’intervallo di incertezza che va dal primo al quinto posto mondiale in una classifica che tiene conto sia di criteri di efficacia che di efficienza della spesa[6].
Infine, partendo dai dati Ocse, è interessante notare la correlazione significativa tra la spesa sanitaria pro-capite e il grado di efficacia complessiva del servizio sanitario. I sistemi sanitari più efficaci sono solitamente quelli con più alta spesa pubblica pro-capite, anche se il servizio sanitario pubblico italiano ha presentato fino agli anni dieci del ventunesimo secolo particolari livelli di efficacia pur in presenza di un livello di spesa pro-capite relativamente contenuto[7].
PARTE SECONDA: PROPOSTE
Il federalismo sanitario, insieme all’austerità che sta funzionando da agente lievitante della concorrenza tra gli erogatori sanitari pubblici e privati, ci ha condotto ad un servizio sanitario che di nazionale ha ormai poco o nulla, sempre più frammentato e diseguale.
Occorre dunque tornare ad applicare i capisaldi della legge istitutiva del 1978:
- UNIVERSALITÀ DEL SERVIZIO;
- UGUAGLIANZA DEI CITTADINI DI FRONTE AL SERVIZIO;
- GLOBALITÀ DELLA CURA;
- PROGRESSIVITÀ DEL FINANZIAMENTO.
In effetti laddove la legge del 1978 prescriveva universalità del servizio si ha oggi una crescita impressionante degli italiani che rinunciano alla cure per ragioni economiche; laddove il principio era l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alle cure si ha oggi un tangibile divario territoriale; laddove la cura era concepita come globale – abbracciando insieme prevenzione, cura della fase acuta e riabilitazione – si ha oggi intensità di cura, per ridurre i posti letto e la durata media delle degenze ospedaliere; laddove, infine, si finanziava il servizio attraverso un sistema fiscale altamente progressivo si ha oggi la crescita della spesa sanitaria privata, il fiorire della cosiddetta sanità integrativa (inserita spesso e volentieri anche nei contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati) e l’affacciarsi delle polizze assicurative private.
Più nel dettaglio occorre agire con forza sulle politiche occupazionali, dato che le politiche di austerità e la concorrenza tra erogatori sanitari pubblici e privati hanno prodotto gravi carenze del personale sanitario pubblico o convenzionato con il pubblico, sia medico che infermieristico.
Secondo le stime dell’Associazione medici dirigenti (ANAAO Assomed) già oggi il Servizio Sanitario Nazionale sconta una carenza di circa 10.000 medici. Considerata l’età media molto elevata del personale medico italiano, in assenza di una politica occupazionale espansiva il deficit si amplierà a dismisura nei prossimi dieci anni, quando matureranno il diritto alla pensione oltre 47.000 medici specializzati. Discorso analogo vale per i medici di base, che non rientrano nel servizio sanitario pubblico ma sono inquadrati nel sistema di assistenza territoriale attraverso una convenzione. Di qui al 2028 andranno in pensione più di 33.000 medici di base, mentre si calcola un potenziale di assunzioni a legislazione vigente di appena 11.000 unità di personale. Il deficit stimato sarà quindi intorno alle 22.000 unità, ciò che priverà del medico di famiglia fino a 14 milioni di italiani già entro il 2023[8].
Il problema non risiede nella quantità di medici laureati, ma piuttosto nel numero di borse di specializzazione offerte dalle Regioni. Negli anni, infatti, il ridimensionamento del Servizio Sanitario Nazionale ha provocato quello che i sindacati del settore definiscono “imbuto formativo”: secondo l’Associazione medici dirigenti i posti resi disponibili per le scuole di specializzazione sono ad oggi circa 6.500 l’anno, a fronte di un fabbisogno stimato di almeno 8.500 unità e di un numero di laureati che si attesterà in media nei prossimi anni intorno a 10.000[9]. Ciò significa che a mancare è la domanda di lavoro da parte del Servizio Sanitario Nazionale, non l’offerta di medici. Lo stesso si può dire per i medici di base, per i quali le borse per il corso di formazione in medicina generale è stagnante intorno alle 1.100 annue, a fronte di un fabbisogno e di un’offerta di lavoro ben più alti[10]. L’imbuto formativo tende naturalmente a provocare l’emigrazione all’estero dei medici che non possono specializzarsi o formarsi in Italia.
Ancora più grave è il deficit di personale infermieristico, se pensiamo al dato di partenza: nel 2017 l’Italia aveva 1,4 infermieri per ogni medico, quando la media OCSE allargata ai 35 Paesi più avanzati si attestava a 2,8, esattamente il doppio, la Germania a 3,1, la Danimarca, la Finlandia e il Giappone addirittura a 4,6[11]. Secondo le stime della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) la carenza attuale è di oltre 51.000 infermieri, nonostante un rapporto infermieri/medici stimato a 2,5[12].
Politiche di rilancio occupazionale nel settore sanitario possono giovare non solo all’efficacia e all’efficienza del servizio, la cui produttività deve oggi scontare l’alta età media del personale e l’accumularsi delle ore di lavoro straordinario, ma anche più in generale al ritmo di crescita dell’intera economia. In un’ottica puramente macroeconomica, infatti, è scientificamente condivisa la tesi secondo la quale il maggiore moltiplicatore delle politiche economiche riguarda gli investimenti pubblici e le assunzioni nella pubblica amministrazione, seguiti a più ampia distanza dai trasferimenti sociali e dalla riduzione della pressione fiscale[13].
Invertendo la retorica nuovista dei nostri tempi, si può ben dire che la classe dirigente liberale ci sta facendo tornare indietro, ad un’epoca in cui la Sanità non era un diritto soggettivo riconosciuto ma una questione di profitto privato e di mero ordine pubblico, nel caso eccezionale di epidemie; un sistema in cui lo Stato “lasciava fare” alla solidarietà di ispirazione operaia, mazziniana o cristiano sociale attraverso il sistema delle mutue volontarie; un’epoca, non a caso, liberale.
Nel difendere e rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale delineato dalla legge istitutiva del 1978, perciò, si tratta di “tornare avanti”, recuperando le leve economiche e fiscali -ciò è possibile soltanto liberando l’Italia dai vincoli europei- al fine di rendere nuovamente possibile una sanità universale, eguale, globale e finanziata dalla fiscalità generale, da ricalibrare quest’ultima in senso altamente progressivo.
Simone Garilli per “Fronte Sovranista Italiano”
NOTE:
[1] http://www.limesonline.com/cartaceo/leuropa-secondo-la-lega?prv=true
[2] http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Attivit–i/Spesa-soci/Attivit-monitoraggio-RGS/2017/IMDSS-RS2017.pdf pag.34
[5] Dati contenuti nello studio di Gaetano Perone pubblicato su Economia e Politica: https://www.researchgate.net/profile/Gaetano_Perone/publication/272681091_In_difesa_della_sanita_pubblica_italiana_Un’indagine_sui_Paesi_OCSE/links/57768ac608ae4645d60d7b96.pdf
[6] https://www.eticapa.it/eticapa/wp-content/uploads/2013/12/WORLD-HEALTH-REPORT-2000.pdf
[7] Dati contenuti nello studio di Gaetano Perone pubblicato su Economia e Politica: https://www.researchgate.net/profile/Gaetano_Perone/publication/272681091_In_difesa_della_sanita_pubblica_italiana_Un’indagine_sui_Paesi_OCSE/links/57768ac608ae4645d60d7b96.pdf
[8] http://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2018/02/09/-allarme-carenza-medici-45.000-in-pensione-in-5-anni-_aaa943db-7592-4649-8c1e-f80f4952e196.html
[9] http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato8665268.pdf
[10] http://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2018/02/09/-allarme-carenza-medici-45.000-in-pensione-in-5-anni-_aaa943db-7592-4649-8c1e-f80f4952e196.html
[11] https://www.oecd-ilibrary.org/sites/health_glance-2017-56-en/index.html?itemId=/content/component/health_glance-2017-56-en
[12] http://www.fnopi.it/archivio_news/pagine/95/42%20-%20Comunicato%20stampa%2006-09-2018.pdf
[13] https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1483.pdf
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