Che cosa vuole da me l’Altro?
di JACOPO D’ALESSIO (FSI Verbania)
After hours (1985 – Fuori orario, di Martin Scorsese) si apre con la scena in cui un impiegato, appena assunto presso un’agenzia di stampa, racconta le proprie ambizioni al collega più anziano, Paul Hackett (Griffin Dunne), durante una consueta giornata trascorsa in ufficio. Ma con una lenta panoramica, accompagnata dalla melodrammatica Aria sulla 4a corda (di J. S. Bach), che attraversa tutto l’ambiente intorno a loro, Hackett riporta il discorso sotto il principio di realtà, polverizzando in pochi istanti le fantasie velleitarie del giovane. Difatti, l’unica dimensione sociale possibile sembra il lavoro che si trova davanti ai loro occhi, pervaso da una logica percepita con evidente estraneità.
È uno dei momenti del film in cui il punto di vista dell’eroe si sdoppia e coincide con quello onnisciente dell’autore nella medesima consapevolezza di rassegnazione al cospetto di una società dove il desiderio è stato seppellito da una soverchiante seconda natura che non è in grado di offrire alcuna speranza di sorta. Hackett rappresenta così la versione cinematografica di Joseph K, il protagonista de Il processo e Il castello di Franz Kafka, il quale, nonostante tutto, prova a lanciarsi egualmente nell’impresa disperata di cercare una propria collocazione esistenziale all’interno di questo labirinto. Pertanto, le domande che lo assilleranno per il resto del suo viaggio attraverso la notte newyorkese saranno: che significato c’è dietro tale logica? Che cosa vuole da me l’Altro?
Ciò riguarda in fondo il desiderio umano di comprendere il mondo e simultaneamente quello di comprendere come farne parte, scaturito a cominciare dall’incontro casuale in un fast-food con Marcy (Rosanna Arquette), che lo invita a visitarla nell’appartamento dell’amica scultrice, Kiki Bridges (Linda Fiorentino), a Soho, nel centro di Manhattan. Il fatto è che però la donna sarà per Hackett solo il primo di una lunga serie di esseri sfuggenti, un significante vuoto, che non è in grado di rimandargli la risposta che si aspettava. Anzi, i libri di infermieristica sulle ustioni, che la donna stava leggendo per un interesse personale, suggeriscono al personaggio che riguardino invece il suo corpo bisognoso di cure. Paul finisce così per credere che la bellezza di Marcy sia solo un’illusione in quanto rovinata dalle scottature, e che quella sera abbia cercato di sedurlo, ma che poi non avesse avuto più il coraggio di fare l’amore con lui per timore di essere respinta a causa di quelle cicatrici mostruose e indelebili. Pertanto, deluso e impaziente di fronte ad una circostanza poco chiara, fatta di lunghe attese e tentennamenti, disturbato inoltre dalla telefonata di un presunto fidanzato, ad un certo punto decide di piantarla in malo modo. Mentre in realtà non riesce a capire di trovarsi semplicemente di fronte ad una persona vulnerabile ed insicura. Marcy infatti, nel bel mezzo di una crisi relazionale, si è sentita abbandonata anche da Hackett, e in preda alla depressione decide infine di togliersi la vita con un overdose di tranquillanti. Solo più tardi Paul scoprirà che la pelle di Marcy era priva di cicatrici quando, ritornato nuovamente in quel luogo, troverà il suo cadavere.
Dunque, l’Altro, incarnato nella fitta trafila di uomini e donne incrociati in questo universo notturno, rimarrà sempre indecifrabile in un susseguirsi di episodi caratterizzati da puntuali violazioni del proprio orizzonte d’attesa. Altrimenti, susciterà nel protagonista un’insopportabile sensazione di angoscia dovuta alla mancanza di una via di fuga da personaggi persecutori, così come quella dell’impotenza di fronte alla difficoltà insormontabile di fare ritorno a casa, immagine che, sul piano metaforico, rimanda alla perdita di controllo. Fino a quando, di fronte a questa persistente alterità muta, Hackett giungerà alla resa incondizionata, per cui il suo unico scopo si limiterà a quello empirico-biologico della mera sopravvivenza: “Io voglio vivere”, sussurra sconfitto all’orecchio di June (Verna Bloom), mentre balla con la donna, prima di essere ricoperto dalla testa ai piedi di cartapesta nella cantina del locale dove l’ha incontrata, per camuffare le sue sembianze e rimanere nascosto al sicuro dai vigilantes che vorrebbero giustiziarlo dopo averlo scambiato erroneamente per un ladro di appartamenti. Tuttavia anche June, in questo modo, dispiega nuovamente la completa indifferenza di un dio del vecchio testamento, il cui gesto di imprigionare inutilmente Hackett all’interno della statua, sebbene sia ormai fuori pericolo, gli impedisce ancora una volta di trovare una soluzione alla propria impasse.
Se il nostro desiderio è realizzabile nella misura in cui viene riconosciuto però nel desiderio di un altro (ovvero, come sostiene Lacan, si tratta sempre del “desiderio di un desiderio” da parte di un altro soggetto) (1), Hackett, tuttavia, ha dovuto intraprendere il suo viaggio per arrivare a scoprire come tale dialettica sia stata irrimediabilmente recisa. In altre parole, l’Altro non ci desidera più e gli abitanti della metropoli moderna possono solo anelare ad una pulsione che li spinge semmai alla propria auto-conservazione, priva ora di alcuna trascendenza fuori di sè. Dio ha preferito disertare il mondo, così che soltanto la solitudine riesce a porsi come l’oggetto di una possibile immagine della propria condizione (2). In un universo reificato la volontà soggettiva viene puntualmente scavalcata dal caso e dalle coincidenze che dominano incontrastate il destino degli uomini. Perciò, quando tutto sembra perduto, sopraggiungono nella discoteca anche gli autentici ladri del quartiere che, nel frattempo, convinti di aver trovato un’opera d’arte d’immenso valore, portano via il pupazzo di cartapesta nel quale è stato avvolto Hackett e così lo salvano. L’evento è una chiara allusione all’antico artificio teatrale greco-latino del deus ex machina che, appunto, non lascia margine alla volizione umana ma rimette tutto nelle mani degli dei, così che la statua cade inoltre per caso fuori dal furgone dei ladri mentre passano davanti all’agenzia stampa dove lavora il protagonista.
Quindi, la scena conclusiva, con le prime luci dell’alba, ritorna sul luogo nel quale tutto era cominciato. Ma solo in apparenza ci troviamo innanzi ad un epilogo tautologico, in quanto è emersa soltanto ora, viceversa, un’esperienza significativa e allo stesso tempo vuota. Per meglio dire, il Sé nudo, finalmente auto-rivelato a se stesso, si fa consapevole del fatto che, malgrado le ripetute domande sulla vita, non potrà mai più ricevere alcuna risposta in merito. E’ questo ciò che sta a testimoniare l’Aria sulla 4a corda all’inizio del film quando accompagna solennemente il disincanto sul mondo di Hackett. E cioè che l’arte, incluso quindi lo stesso cinema di Scorzese, riesce ancora a donarci un significato mentre denuncia paradossalmente il suo venire meno, a dispetto di un’umanità indifferente che non è in grado di avvertirne nemmeno la perdita. Nonostante il grigiore di quell’ufficio, la forma estetica, insomma, continua sempre a rimandarci indietro una rappresentazione esemplare ed organica sia pure quando quest’ultima ha smarrito il contenuto della totalità.
NOTE
1) Per Lacan, durante l’infanzia, il Sé del bambino comincia a costruirsi secondo la teoria dell’immagine allo specchio mediante lo sguardo della madre, e in ciò che, prima di tutto, la madre si aspetta da lui, in Jaques Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicanalisi (1964), Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2016.
2) Faccio allusione ai versi di Camillo Sbarbaro, Taci anima stanca di godere, poesia che apre la raccolta del 1914, Pianissimo: “Perduta ha la sua voce \ la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso“, dove si esprime la stessa idea di una realtà sociale che non è più in grado di trasmettere ai suoi abitanti un significato trascendente, ponendo l’autore, come il resto dei poeti vociani, nell’ambito di una lettura della modernità che si propone come allegoria vuota, Romano Luperini, Il Novecento: apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea. Volume I, Loescher Editore, Torino, 1981.
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