Democrazia e relativismo
di ALESSANDRO CASTELLI (FSI-Riconquistare l’Italia Trento)
Il saggio di cui vado a parlare, Il libero pensiero. Elogio del relativismo (trad. it. Elèuthera 2007), è stato pubblicato da Tomás Ibáñez (Saragozza, 1944), psicologo, attivista libertario e teorico anarchico. Vorrei esporre qui alcune osservazioni che mi sento di fare al campo relativista e non tanto all’autore che in realtà, oggettivamente parlando, ha fatto un buon lavoro nel presentare la causa del relativismo stesso, dando al saggio un taglio non tanto da pamphlet, ma da precisa ricognizione del tema in esame. Per questo, tralascerò varie parti del libro, in particolare l’intero secondo capitolo, consistente in una presentazione di alcuni autori ascrivibili alla corrente di pensiero trattata. Queste critiche hanno un fondamento comune: si tratta dell’obiettivo di revocare in dubbio che il relativismo sia un’arma a favore della democrazia, mentre la verità assoluta sia invece un’arma a favore del totalitarismo e dell’oppressione. E tutto questo indipendentemente dal fatto se il relativismo sia teoreticamente ed eticamente migliore, come profilo filosofico, dell’assolutismo o meno.
Ma partiamo con il testo di Ibáñez, con l’introduzione a un profilo affine a quello del relativista, ossia quello dello scettico.
Lo scettico ci dice più o meno questo: «Lei ha la pretesa che si possa stabilire la verità delle nostre conoscenze o delle nostre convinzioni. Molto bene! Non intendo metterlo in discussione in linea assoluta. Ma, ecco: mi dica qualcosa che considera vero e vediamo di verificare, lei e io, se è capace di giustificarne la veridicità». A quel punto, di fronte agli argomenti avanzati, lo scettico chiede di giustificare, a sua volta, la «verità» di tali argomenti, scatenando-provocando in questo modo la temuta regressione infinita… «Ecco: vede che non ci riesce… Ergo… la convinzione nella verità non ha alcuna conseguenza pratica, non si sostanzia in nessuna formulazione contrastabile; se la tenga pure così, se le fa piacere, è un suo problema; ma non venga più a scocciare me sostenendo la possibilità di enunciare affermazioni vere».[pag. 23]
Certo, però anticipo qui la risposta che Ibáñez stesso, più avanti, dà alla domanda: perché uno dovrebbe sostenere una posizione scettica? Secondo Ibáñez, come vedremo, si tratta di opporsi all’assolutismo, nel senso che quel ‘se la tenga pure così, se le fa piacere, è un suo problema; ma non venga più a scocciare me sostenendo la possibilità di enunciare affermazioni vere,’ per Ibáñez ha un’eco anarchica, di colui che si oppone alle pretese del Governo di normare la sua esistenza. Purtroppo, a me invece sembrano invece tolte da un manifesto liberale: sono sempre le parole di colui che si oppone alle pretese del Governo di normare la sua esistenza, ma le pretese sono quelle legittime di comportarsi in modo tale da partecipare alla vita comunitaria. O peggio, sono le parole, magari, di uno che vuole fare soldi sulla pelle di qualcun altro appellandosi al fatto che determinati lavori non è vero che siano nocivi.
Dicevamo prima che lo scetticismo è ritenuto logicamente coerente, che si ammette sia esente da autocontraddizione, ma questo non significa che non si sia cercato di presentarlo come tale. In effetti l’affermazione scettica secondo la quale «nulla può essere conosciuto con certezza» implica che nemmeno questa stessa affermazione possa «essere conosciuta con assoluta certezza», e quindi la fa cadere nella figura retorica dell’autocontraddizione. Tuttavia gli scettici hanno trovato il procedimento per rendere nulla l’autocontraddizione. La prima mossa è consistita nell’annullare l’aspetto autoreferenziale della propria affermazione, riformulando la proposizione nei seguenti termini: Nulla può essere conosciuto con certezza, salvo questa stessa affermazione. In questo modo si concede uno status di eccezione alla conoscenza discussa dallo scettico: si dice che l’affermazione non si applica all’affermazione stessa e si evita l’autocontraddizione. È come se Socrate avesse detto: «So solo di non sapere nulla di più di quanto sto affermando di sapere». Si può mettere in dubbio la legittimità di sottrarre ciò che uno afferma dall’ambito in cui lo afferma, ma formalmente l’affermazione non è più autocontraddittoria. Chiaramente se chiediamo allo scettico di giustificare la sua affermazione, egli si troverà nell’impossibilità di fornire una giustificazione definitiva; si troverà intrappolato nella stessa spirale di regressione infinita. E tuttavia, non solo questo non indebolisce la sua posizione, ma la rafforza ancora di più, dato che tale impossibilità è pienamente congruente con ciò che lo scettico afferma.[pag. 23 – 24]
Ancora: come ci si potrà rendere conto meglio in seguito, lo scettico e il relativista in linea di massima non affermano l’impossibilità della verità nell’ottica di colui che vorrebbe sì la verità, ma che a malincuore sviluppa argomenti ragionevoli che escludano la verità attraverso la suddetta regressio ad infinitum, ma nell’ottica di colui che, da militante, ritiene la verità una limitazione della sua libertà. Pare chiaro quindi che lo scettico, nonostante tutto, ritenga vero il nesso verità – libertà. Non solo: come ci si sta sempre più rendendo conto da qualche anno a questa parte, per gli scettici e i relativisti questa è una verità assoluta. Ma passiamo al relativismo tout court: l’autore, dopo una breve digressione nel campo della storia della filosofia va a rubricare i diversi tipi di relativismo.
Ricordiamo infatti che, nella sua espressione più condensata, il relativismo sostiene che:
– X non è incondizionato (dove X è qualunque cosa desideriamo prendere in considerazione);
– ogni X è condizionato;
– X è relativo a Y (dove X è ciò che viene relativizzato mentre Y è l’istanza che pone la condizione di relatività).
Abbiamo già visto che il catalogo delle specificazioni di X è molto ampio e che i «valori» di X sono molteplici. X può essere le credenze, la verità, la conoscenza, i principi etici, eccetera. Ma anche il catalogo delle specificazioni di Y è vario: infatti, l’istanza che pone la condizione di relatività può essere il linguaggio, la cultura, le forme di vita, eccetera. Il risultato di questa varietà è che una persona può essere, al tempo stesso, relativista riguardo ai principi etici – affermando, ad esempio, che i principi etici sono relativi alla cultura – e difendere una posizione antirelativista riguardo alla conoscenza scientifica, affermando, ad esempio, che «il valore di verità delle proposizioni scientifiche è incondizionato».[…] In funzione delle differenti entità che vengono poste in condizione di relatività, o che servono da elemento che pone la relatività, si danno varie modalità di relativismo. Tra queste evidenziamo quelle che si menzionano più spesso: il relativismo etico, il relativismo epistemico, il relativismo concettuale, il relativismo culturale, il relativismo linguistico, il relativismo percettivo, il relativismo ontologico, il relativismo della verità e il relativismo storico. All’interno di queste modalità, le versioni più polemiche e anche le più interessanti, a nostro parere, sono: il relativismo ontologico (per i critici, irreale), il relativismo epistemico (per i critici, irrazionale), il relativismo della verità (per i critici, falso) e il relativismo etico (per i critici, immorale).[…]. In caso non fossimo ancora sufficientemente convinti che il relativismo è ben più complesso, vario e sofisticato di quanto non si dica, possiamo menzionare un’ulteriore differenziazione, trasversale a tutte le modalità del relativismo, che possiamo definire in questi termini: «descrizione» contro «normatività». Il relativismo descrittivo si compone di un insieme di proposizioni empiriche sulle differenze effettivamente osservate tra diversi gruppi umani per determinati valori di X. Ad esempio, osservazioni empiriche sulle variazioni degli «schemi percettivi» secondo le diverse culture. Il relativismo normativo si compone di un insieme di proposizioni teoriche sulle ragioni che ci portano a pensare che determinati valori di X siano condizionati da determinati valori di Y.[pag. 40]
Subito, però, come avevo anticipato, Ibáñez va a spiegare l’aspetto per me fondamentale per una critica del relativismo, ovvero l’aspetto pratico del relativismo stesso: “sgombrato il campo dagli equivoci, la prima delle versioni del relativismo che esporremo si inscrive in coordinate di natura politica”[pag. 44]. E lo fa dicendo testualmente: “precisiamo fin dall’inizio che, in questo libro, l’interesse manifestato verso il relativismo non ha origine da una riflessione puramente epistemica, non proviene da un’indagine sulla natura della conoscenza, né ha motivazioni di ordine accademico. La propensione al relativismo qui manifestata nasce da una preoccupazione di carattere politico.” [ibidem]
Prendiamo atto, pertanto, che il relativismo abbia un legame con la politica, facendo osservare fin da subito l’intenzionalità con la quale l’autore sta costruendo il suo discorso.
Possiamo anche invertire l’argomentazione di quanti sostengono che il dibattito epistemico è prioritario, in quanto la sua soluzione condiziona la pertinenza di un’analisi del relativismo in altri ambiti, e affermare che non abbiamo motivo di dibattere il relativismo su un piano diverso da quello etico-politico. In primo luogo perché il dibattito su qualunque altro piano si conclude sempre mettendo in gioco implicazioni etico-politiche e dunque rinviandoci all’ambito etico. In secondo luogo perché nulla ci impedisce di ritenere che l’ambito etico-politico sia più rilevante del piano epistemico nella discussione delle grandi questioni che riguardano la nostra esistenza.[pag. 46]
Questo obiettivi, ci viene detto, devono affrontare una serie di accuse. In particolare:
Ci viene detto che se non possiamo dare fondamento ai valori in modo indiscutibile […] ci priveremmo di ogni legittimità a opporci o condannare determinate pratiche, per quanto spregevoli od offensive possano risultare sul piano morale: l’Olocausto e l’azione di Medici senza Frontiere sarebbero poste sullo stesso piano, a un medesimo livello di accettabilità etica [ibidem]
Ma vediamo quali sono gli argomenti dell’arringa della difesa.
È evidente che per il relativista nessun valore etico è «incondizionato», è evidente che il relativista sostiene la stretta equivalenza di tutti i valori etici per quanto riguarda la qualità della loro fondatezza ultima. Essa è semplicemente nulla in tutti i casi ed è proprio dal punto di vista dell’assenza di una qualsiasi fondatezza ultima che si traccia una relazione di stretta equivalenza tra tutti i valori etici. Dall’equivalenza riguardo al grado di fondatezza non si può estrapolare la conclusione dell’equivalenza tout court, dell’equivalenza senza altre specificazioni. Dall’affermazione secondo cui non ci sono valori che siano oggettivamente migliori di altri perché tutti quanti mancano di fondatezza ultima, non si può estrapolare l’affermazione secondo cui non è possibile far differenza tra i valori. Inoltre, se la fondatezza o l’oggettività fosse il criterio decisivo, come affermano gli assolutisti, e si giungesse a dimostrare che i valori che autorizzano il genocidio hanno una fondatezza più salda dei valori opposti, l’assolutista, per coerenza con questo suo criterio, si troverebbe obbligato ad accettarli, mentre il relativista potrebbe continuare a rifiutarli, dato che nega l’idea stessa di una fondatezza ultima dei valori. [pag. 47]
Vedo due punti deboli in queste argomentazioni, peraltro legati fra di loro. Da una parte, l’autore evidentemente non riesce nemmeno a concepire il fatto che un vero assolutista, ovvero qualcuno che prenda molto sul serio la fondatezza e l’oggettività – e dunque il processo razionale soggiacente – non potrebbe mai autorizzare un genocidio, proprio perché il genocidio nella sua intrinseca non universalizzabilità è per sua natura irrazionale e dunque – hegelianamente – irreale. E siccome prende molto sul serio la fondatezza o l’oggettività, sarà costretto pertanto a scendere a patti con una verità che non è la sua verità, ovvero la verità come gli viene dettata dai suoi interessi, al netto della necessaria ideologia. Sarà costretto a scendere a patti con la sua coscienza e con la ragione. Cosa che il relativista – vero assolutista con inclinazioni totalitarie, non sarà costretto a fare.
E lo dice Ibáñez stesso: “proprio come l’assolutista, il relativista proclama che certi valori sono migliori di altri, che preferisce certe forme di vita ad altre e che è disposto a lottare per esse se necessario. Ma allo stesso tempo, al contrario dell’assolutista, il relativista proclama che quei valori riconosciuti migliori mancano di ogni fondatezza ultima e sono equivalenti a qualunque altro valore, ma esclusivamente dalla prospettiva di questa assenza di fondatezza ultima.” [ibidem]
In altre parole: non mi interessa se una cosa è giusta o sbagliata, la voglio e farò di tutto per ottenerla. Ed è questo il secondo punto debole: togliendo dall’equazione la forza della ragione – l’unica forza non sottoponibile in linea di principio all’arbitrio del potere, e proprio per questo motivo in grado di unire fatto e valore, normatività e descrittività – rimane per l’appunto l’arbitrio del potere e basta.
Per quanto riguarda la seconda e terza accusa al relativismo, ovvero che “2. provocheremmo una demotivazione e smobilitazione di ogni tipo di interesse e impegno politico per la semplice ragione che svanirebbero le esigenze che li stimolano; 3. lasceremmo che il ricorso alla forza diventi l’unica procedura per appianare il conflitto tra opzioni conflittuali” [pag. 46], l’autore si difende così:
Tutto sembra indicare che la conclusione vada piuttosto nella direzione opposta. Infatti, proprio quando si crede, come fa l’assolutista, che i valori sono lì e che, essendo oggettivi, rimarranno lì per i secoli dei secoli (sia che si faccia qualcosa perché questo si ve rifichi, sia che non si muova un dito); proprio quando si crede nella trascendenza dei valori, diviene allora secondario e prescindibile difenderli o meno. Al contrario, se affermiamo, come fa il relativista, che i valori non hanno altra giustificazione al di là delle pratiche stesse che articoliamo per giustificarli, e che non riposano su altra base all’in fuori della decisione di accettarli, allora appare chiaro che non c’è altro modo di difenderli se non mantenendo e sviluppando quelle stesse pratiche che li sostengono. Nel momento in cui i valori «si difendono da sé», in quanto oggettivamente fondati, è molto meno urgente impegnarci a proteggerli rispetto a quando dipendono unicamente dalla nostra decisione di difenderli. Paradossalmente, sembra che il relativismo favorisca la mobilitazione politica, mentre l’assolutismo la renda trascurabile.[pag. 49]
A questo proposito: la militanza politica in realtà non ha niente a che vedere con relativismo o assolutismo in questo senso, ma ha tutto a che vedere, come ho già detto più sopra e come pare che tutto sommato sia d’accordo anche l’autore, su quali interessi – usando questa parola nel senso più ampio possibile – si va ad agire. Pertanto le parole dell’autore a difesa del relativismo si inchiavardano perfettamente anche sull’assolutismo. Anche se, in effetti, qui fa capolino un tema fondamentale che però non c’è spazio per sviluppare adeguatamente qui: lo statuto della verità. Ovvero: una volta acclarato che c’è una verità nel senso di unione di fatto e valore, bisogna combattere per difenderla oppure ci si può sedere e aspettare che questa si autoponga? Ammetto di non avere una risposta univoca, ma un indizio, paradossalmente mi viene proprio dalla terza critica al relativismo e alla risposta che ne dà Ibáñez:
Ovviamente, la terza accusa si presenta come l’infamia più schiacciante, tanto più che il relativista riconosce, senza il minimo imbarazzo, che le cose stanno proprio così, che nel momento in cui si esauriscono tutte le risorse argomentative, rimangono solo, in ultima analisi, i rapporti di forza per appianare le differenze.
Ma il relativista domanda: quali differenze mi separano dall’assolutista su questo punto?
E la risposta è… che non esiste alcuna differenza [pag. 50]. Qui la questione si fa importantissima. Quello che l’autore ci sta dicendo è infatti che anche ponendosi dal punto di vista dell’assolutista, è vero che c’è la forza della ragione che fa vedere le cose in una prospettiva veritativa, ma dal momento che la verità è un processo e non una dato c’è bisogno di un soggetto che la metta in pratica. E se la sua messa in pratica passa anche, per non dire solamente, per la ragione della forza, come pare ammettere anche l’autore, allora mi pare chiaro che la violenza viene qui elevata a componente strutturale del politico. Ma allora, poco importano le parole seguenti:
In effetti, nonostante l’assolutista esibisca la sua posizione come quella che permette di evitare l’esercizio della forza, in realtà anche lui ricorre alla forza per appianare le differenze con quanti non aderiscono alle sue regole del gioco. Anzi, lo fa con due circostanze aggravanti, scaturite proprio dalla sua volontà di occultare la forza che esercita. La prima circostanza aggravante è la seguente: se i criteri etici non dipendono da decisioni nostre, se hanno un valore oggettivo responsabile del fatto che «sono validi per tutti» e «obbligano tutti ugualmente», è chiaro che il fatto di dissentire da tali valori non solo è erroneo, cosa che si può sempre correggere, ma è anche irrazionale nel momento in cui ci ostiniamo a perseverare nel nostro errore. In effetti, se ci rifiutiamo di accettare ciò che è stato stabilito oggettivamente come moralmente buono, non siamo del tutto normali e una qualche perversione ci rende incapaci di partecipare al dialogo della convivenza umana. Tale perversione ci esclude dal trattamento che si applica ai membri della comunità degli esseri razionali: siamo selvaggi, o una qualche sorta di bestia ripugnante, e bisognerà dunque curarci con le terapie più adeguate, ricorrendo alla forza visto che non sentiamo ragioni. In definitiva, anche in questo caso rimane solo la forza come ultima risorsa. Ma la pretesa di mascherare questo fatto, di nasconderlo dietro il proclama che il bene è oggettivamente tale e che quando lo si scopre l’unica alternativa è quella di accettarlo, aggiunge un’ulteriore violenza. Si tratta di quella violenza che consiste nel mettere in discussione la razionalità stessa di chi non condivide un sistema di valori, che non solo è il nostro, ma che, oltretutto, essendo oggettivo, è ugualmente obbligatorio per qualsiasi membro della comunità degli esseri razionali, ossia per l’intera comunità umana. La seconda circostanza aggravante consiste nel fatto che, quando l’assolutista occulta i rapporti di forza mobilitati nelle sue stesse impostazioni, di fatto sta rivendicando per se stesso il monopolio dell’uso della forza. Infatti, trasformare una situazione effettivamente esistente implica, quasi sempre, l’articolazione di nuovi rapporti di forza per squilibrare, o sovvertire, i rapporti di forza che la sorreggono. Lo stesso accade nell’ambito dei valori. Ad esempio, potremmo considerare che i valori che attualmente ci governano non sono i più adeguati, e potremmo volerli cambiare. Ma i valori etici sono oggettivi, quindi l’idea stessa di agire per alterare i rapporti di forza che li sorreggono nel tentativo di crearne di nuovi non ha senso. L’unica forza investita di indiscutibile legittimità è quella da impiegarsi, eventualmente, contro l’iniquità, per impedire che si trasgrediscano i valori esistenti; cioè per mantenere la situazione esistente.[pag. 50 – 51]
Quello che importa è casomai la democraticizzazione e la ridistribuzione dell’uso della forza, visto che non se ne può fare a meno. Ma per quanto riguarda le due circostanze aggravanti? Vediamo. Parto dalla seconda, che mi sembra meno valida, per il semplice motivo che, come abbiamo visto prima, storicamente una posizione dominante – di qualsiasi tipo sia – non cade dal cielo, ma è comunque frutto di un conflitto precedente, e nessuno, che sia relativista o meno, è disposto a modificare le carte in tavola tanto facilmente – non realmente, come stiamo vedendo tante e tante volte.
Per quanto riguarda la prima, sarei quasi tentato di dare ragione all’autore, tenendo ben fermo però un particolare che per questi non esiste: stabilire “oggettivamente come moralmente buono”[[ibidem] qualcosa, se colui che lo stabilisce è onesto, è il processo di una coscienza normale, al netto del necessario orientamento ideologicizzante. E non concepisce nemmeno, quando afferma che “la pretesa di mascherare questo fatto, di nasconderlo dietro il proclama che il bene è oggettivamente tale e che quando lo si scopre l’unica alternativa è quella di accettarlo, aggiunge un’ulteriore violenza” [ibidem], che non c’è alcuna violenza nel far riconoscere una certa realtà come vera, altrimenti sarebbe violento anche spiegare a qualcuno che un certo animale appartiene a un certo genere o che un certo procedimento matematico è corretto e un altro no, oppure che relativismo e politica sono collegati. Casomai, la vera violenza è costruire le circostanze che impediscono la coscienza normale di svilupparsi, a ben pensarci.
Comunque, l’autore riconosce che: “in definitiva, per difendere i propri valori o il proprio «modo di vivere», sia il relativista che l’assolutista ricorrono all’esercizio della forza quando tutte le altre risorse si sono esaurite.” [pag. 51] Ma ancora una volta ribadisce: “ma la differenza sta nel fatto che il relativista ricorre all’esercizio della forza e basta, mentre l’assolutista ha bisogno di aggiungere che è pienamente legittimato a farlo. Non si tratta certo di una differenza di sfumature, poiché in questo modo si naturalizza l’uso stesso della forza, escludendolo dall’ambito, sempre opinabile, delle semplici decisioni e rivestendolo con gli attributi di una necessità estranea alla propria volontà.” [ibidem] Non posso fare altro che ribadire a mia volta: ma quella necessità estranea alla propria volontà è davvero la necessità a cui si è arrivati onestamente alla fine di un processo logico-razionale veritativo, e non, come evidentemente pensa l’autore, una scusa per giustificare una violenza che peraltro lui stesso ha riconosciuto come inevitabile.
Ed è inevitabile perché, dopotutto, chiunque può avere delle preferenze per un tipo di vita rispetto un altro, e quindi combattere per il tipo di vita che preferisce: la mera esistenza è la base di ciò. In un mondo di relativisti, la legge verrà imposta poi dalla ragione della forza. Accettare invece le difficoltà del percorso logico non soltanto porta a un’accettazione della forza della ragione, ma presuppone a priori un percorso educativo pregresso. E davvero una qualsiasi delle vite che possono essere scelte è migliore di quest’ultima, che in in realtà le contiene e le fonda tutte, giustificandole o respingendole sulla base dell’essenza umana come animale razionale?
Ma è qui in fondo che assolutismo e relativismo divergono. Ibáñez non potrebbe mai accettare un qualcosa come l’essenza umana incondizionata. Ma ancora una volta, io non discuto questo a livello teoretico. Faccio solo notare una cosa: rifiutare l’essenza umana come zoon logon echon è certamente un’opzione, ma non mi si dica che serva a qualcosa dal punto di vista della lotta contro l’autoritarismo. È vero il contrario: ad esempio, è una scusa perfetta per rifiutarsi di implementare programmi accessibili di educazione e di miglioramento del popolo, con l’obiettivo della democrazia diretta. Qualcosa che un liberale vede sicuramente con favore, certo, ma mi è francamente incomprensibile come un pensatore anarchico non si accorga come questo sia la conseguenza necessaria della sua scelta di campo.
Ora, il capitolo prosegue parlando del relativismo della verità e del relativismo ontologico, ma in questa sede sarebbe troppo lungo andare avanti. Per concludere, riporto solo un altro commento, tratto dal capitolo il relativismo della libertà: “la seconda conseguenza pratica è che il relativismo costituisce un dispositivo teorico che agevola il cambiamento, mentre l’assolutismo tende a bloccarlo,” [pag. 58] dice Ibáñez. Forse, ma perché il cambiamento dovrebbe essere migliore del non cambiamento?
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