di FRANCESO BASILE, ENRICO BONFATTI, GIOVANNI TURRA (FSI-Riconquistare l’Italia reg. Veneto)
Un importante fenomeno, che ha caratterizzato lo scenario del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) negli ultimi vent’anni, è stato il processo di aggregazione delle Aziende Sanitarie. A partire dalle riforme del 1992, e successive, il SSN è stato soggetto a grandi cambiamenti i quali hanno avuto il fine dichiarato di ottimizzare la gestione o di contenere i costi della spesa sanitaria. Si sono invece avute evidenti ricadute negative sulla qualità e la quantità dei servizi forniti. Quest’andamento, dopo essersi sviluppato nel corso degli anni, ha visto una nuova accelerazione nel 2015 a livello regionale con l’attuazione di una serie di riforme, che hanno coinvolto anche la Regione Veneto. Per comprendere l’evoluzione del Sistema Sanitario Nazionale, recepita, nonostante le ricadute negative, con zelo e noncuranza dalla Regione Veneto è opportuno illustrare una sintesi normativa sia nazionale che regionale.
ANALISI DELLA NORMATIVA
Normativa Nazionale:
1. Legge n. 281 del 16 maggio 1970 – Introduzione regioni a statuto ordinario.
2. Decreto Legge (D. L.) n. 386 del 17 agosto 1974 – “Norme per l’estinzione dei debiti degli enti mutualistici nei confronti degli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri”.
3. Legge n. 833 del 1978 – Istituzione del SSN.
4. Decreto Legislativo (D. Lgs.) n. 502 del 30 dicembre 1992, le seguenti modifiche ed integrazioni apportate dal Decreto Legislativo del 17 dicembre 1993 n. 517, e il Decreto Legislativo n. 571 del 1992 stabiliscono che le Asl (Aziende Sanitarie Locali), nate dalle vecchie Usl, debbano coincidere con il territorio della Provincia e, come risultato della loro conversione in Aziende, abbiano personalità giuridica pubblica e siano riconosciute Enti strumentali della Regione. Le Asl cessano di essere quindi un’espressione dei territori, come erano le Usl, e in onore al loro nome sono caratterizzate da un impianto organizzativo fortemente verticistico e monocratico in cui i processi decisionali vengono totalmente sottratti alle realtà locali e affidati a un Direttore Generale di nomina regionale.
5. L’accorpamento, iniziato nel 1992, porta nel 1995 ad avere una diminuzione significativa del numero di Asl all’interno del territorio nazionale con la soppressione di 431 unità; questo processo lo subisce anche la Regione Veneto che passa dall’avere 36 Aziende iniziali ad averne 22.
6. L’1 gennaio 1999, con l’adozione della moneta unica, entra in vigore il Patto di Stabilità e Crescita che a livello locale si articola nel Patto di Stabilità Interno il quale impone a Regioni, Comuni e Province di ottenere ogni anno un avanzo di gestione a garanzia del debito pubblico stabilito grazie a criteri rivisti ogni tre anni. In seguito alla crisi del 2008 tali avanzi arriveranno a percentuali a doppia cifra, condizionando pesantemente le politiche di investimento e la spesa corrente di tutto il settore pubblico.
7. D. Lgs. n. 229 19 giugno 1999 – “Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della Legge del 30 novembre 1998, n. 419”.
8. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M.) del 29 novembre 2001. Fornisce le modalità per definire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) da garantire a tutti gli assistiti del Servizio Sanitario Nazionale.
9. Legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, riforma del Titolo V della Costituzione che completa l’iter della riforma.
10. Conclusasi la prima fase di aziendalizzazione, che comprende gli anni dal 1995 al 2001, comincia un nuovo periodo di ingegneria istituzionale. Il processo di accorpamento continua, quindi continua la diminuzione del numero di Asl, e, di conseguenza, si modificano le dimensioni dei bacini di utenza anche con cambiamenti significativi: nel 2005 in media, a livello nazionale, i bacini di utenza vedono la loro dimensione quasi quadruplicata rispetto al 1992 (da 86.962 abitanti a 321.601). Nel caso del Veneto l’aumento è piuttosto modesto rispetto ad altre Regioni (come ad esempio Marche, Molise e Lombardia) tuttavia importante: da 127.150 abitanti in media per Ulss si passa a 221.090, quindi quasi il doppio.
11. La Legge 311/2004 art. 1, comma 169 prevede, per la prima volta, la fissazione di “standard qualitativi, strutturali, tecnologici, di processo e possibilmente di esito, e quantitativi” allo scopo di “garantire l’obiettivo del raggiungimento dell’equilibrio economico finanziario da parte delle regioni”, recependo gli obblighi in materia di finanza pubblica derivanti dalla nostra adesione ai trattati UE che, com’è noto, non prevedono invece nessun obbligo in materia di erogazione di servizi pubblici essenziali.
12. D. Lgs. n. 150/2009 con il piano di performance triennale, il quale dispone che ogni azienda o ente pubblico sia tenuto a valutare la rispettiva performance in relazione all’amministrazione nel suo complesso, alle aree di responsabilità nelle quali si articola e ai singoli dipendenti, sempre cercando la valorizzazione del merito e la trasparenza dei risultati ottenuti in rapporto con le risorse adoperate.
13. Pubblicazione del documento denominato “Un New Deal della Salute” il 27 giugno 2006 da parte del Ministero della Salute dove si definisce un quadro dei principi fondamentali.
14. Stipula del “Patto per la Salute” tra Governo e Regioni il 28 settembre 2006, il quale aveva l’intento di conservare e migliorare la qualità e l’efficacia dei servizi sanitari e riportare al tempo stesso la dinamica di tale voce di spesa nell’ambito dei vincoli della finanza pubblica.
15. Legge n. 42 del 5 maggio 2009: “Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione”.
16. Stipula del nuovo “Patto per la Salute” tra il Governo e le Regioni il 29 ottobre 2009, che impegna queste ultime ad assicurare l’equilibrio finanziario della gestione in condizioni di efficienza e appropriatezza.
17. D. Lgs. n. 6812 del 6 maggio 2011, il quale inserisce Veneto, Umbria e Emilia tra le tre Regioni benchmark per la definizione dei costi e dei 13 fabbisogni standard usati per la ripartizione del Fondo sanitario sulla base di un indicatore della qualità e dell’efficienza (IQE), che prende in considerazione il requisito fondamentale dell’erogazione dei LEA nel rispetto dell’equilibrio economico, oltre che di una serie di indicatori di appropriatezza e di economicità.
Normativa regionale:
· Fra le prime regioni in Italia, il Veneto nel 1993 applica il sistema di classificazione e remunerazione delle prestazioni che si basa sui Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi (DRG, Diagnosis Related Group).
· La Legge Regionale (L. R.) 14 settembre 1994, n. 55 determina gli strumenti e le modalità della programmazione, le modalità e le fonti di finanziamento delle Aziende Sanitarie, ed il loro assetto contabile, gestionale e di controllo.
· La L. R. del 14 settembre 1994, n. 56 prevede l’integrazione delle politiche sanitarie e sociali e la delega alla direzione dei servizi sociali da parte dei Comuni alle Unità Locali Socio-Sanitarie.
· La L. R. n. 22 del 16 agosto 2002, individua i requisiti indispensabili per l’autorizzazione all’esercizio e all’accreditamento delle strutture sanitarie e socio-sanitarie al fine di promuovere la qualità ed efficienza gestionale, secondo i principi introdotti dal D. Lgs. 502/1992.
· La L. R. n. 9/2011, modificata dalla L. R. n. 22/2011, stabilisce che il giudizio sulla performance del personale delle aziende del Servizio Sanitario Regionale debba aderire ai principi dei Titoli II (MISURAZIONE, VALUTAZIONE E TRASPARENZA DELLA PERFORMANCE) e III (MERITO E PREMI) del D. Lgs. n. 150/2009.
· La L. R. 19/2016 istituisce Azienda Zero e riduce ulteriormente le Asl da 22 a 9
STRUTTURA DEL SSR (SISTEMA SANITARIO REGIONALE) DEL VENETO
Dal punto di vista strutturale, la Regione Veneto presenta un modello di governance di tipo accentrato e fondato su alcuni principi essenziali:
1. la logica di sistema;
2. la crescita controllata della spesa (tramite la programmazione strategica centrale e l’attuazione locale, la procedura di budgeting e di verifica dei risultati);
3. la collaborazione tra tutte le componenti, pubbliche e private;
4. la responsabilizzazione finanziaria e fiscale in relazione alle scelte operate;
5. la sussidiarietà verticale e orizzontale. Inoltre
6. la Regione si struttura come una holding operativa che crea relazioni con le Asl “basate sull’ascolto” ma esclude l’opportunità di negoziare sugli obiettivi (esclusione dei territori dalle capacità decisionali). È inoltre indirizzata ad un modello di organizzazione dei servizi sanitari di tipo “integrato” con poche Aziende Ospedaliere, le quali vengono controllate centralmente senza la facoltà di delegare la contrattazione alle Asl.
Va altresì considerato che:
a) Alla spesa sanitaria (dati sino al 2016) per assistenza territoriale viene assegnato un peso relativamente maggiore rispetto alla media nazionale (54,1% contro il 48,8%). La spesa per l’assistenza ospedaliera pesa invece per il 42,5% (sotto la media nazionale pari al 47%); infine, quella per la prevenzione per il 3,2% (anch’essa sotto la media nazionale pari al 4,2%).
b) Per quanto concerne la spesa farmaceutica territoriale il Veneto si colloca tra le regioni più virtuose (spende meno!), con un valore pari al 9,36% del finanziamento complessivo ordinario del SSN, secondo solo alla Provincia Autonoma di Bolzano (8,79%), a fronte di una spesa farmaceutica media a livello nazionale dell’11,2% e di nove regioni che registrano percentuali superiori all’11,35% (in ordine decrescente di incidenza: Sardegna, Puglia, Calabria, Campania, Abruzzo, Lazio, Sicilia, Marche e Basilicata, che attestano percentuali che vanno dal 14,14% all’11,45%).
c) Il PSSR (Piano Socio Sanitario Regionale) 2012-2016 approvato con L. R. n. 23 del 29/06/2012, poi modificato dalla L. R. n. 46 del 3/12/2012; L. R. n. 19 del 25/10/2016 e successive scritture, si riferiscono alla riforma che istituisce Azienda Zero in qualità di ente di governance della sanità regionale;
d) I Documenti di programmazione sono redatti con speciale rimando al Bilancio Economico Preventivo (BEP) 2018 e al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e la Trasparenza 2018-2020.
e) Gli obiettivi di salute e di funzionamento dei servizi per le Aziende ed Istituti del SSR (Sistema Sanitario Regionale) per l’anno 2018, sono determinati come previsto dall’art. 3 bis, comma 5, del D. Lgs. n. 502/1992 (Deliberazione Giunta Regionale (D.G.R.) Veneto 230 del 6/03/2018 Indirizzi annuali per l’attività di Azienda Zero), ai sensi dell’articolo 2 comma 9 della Legge Regionale 19/2016 (D.G.R. Veneto 555 del 30/04/2018)
ANALISI DEI DATI
In cinque anni, dal 2012 al 2017, il Servizio sanitario nazionale ha perso 91 strutture di ricovero (60 pubbliche e 31 private), 401 strutture di specialistica ambulatoriale (299 nel pubblico e 102 nel privato). Nel settore dell’assistenza territoriale residenziale le strutture pubbliche si sono ridotte di 216 unità, mentre quelle private sono aumentate di 1062; per l’assistenza territoriale semiresidenziale si registra -31 unità nel pubblico e +330 unità nel privato; per l’altra assistenza territoriale -122 unità pubbliche e +96 unità private; per l’assistenza riabilitativa -1 unità pubblica e + 96 unità private. In sostanza il pubblico ha perso il 6,39% di strutture e il privato ne ha guadagnato l’8,84%. In valori assoluti il pubblico conta in tutto 11.412 strutture sanitarie e il privato 15.621.
Per poter meglio comprendere come il Veneto, in linea con i dati nazionali, abbia abbracciato il disegno di progressiva privatizzazione della sanità è opportuno esaminare quanto accaduto nel ventennio di governo regionale della Lega a partire dalle prime schede ospedaliere del 2002 che per la prima volta definiscono le dotazioni delle strutture di ricovero. I posti letto ospedalieri nel 1999 erano 23.802 di cui 20.382 pubblici (85,7%) e 3.420 privati (14,3%). A confermare la rilevante privatizzazione avvenuta in Veneto è la drastica riduzione dei posti letto. In totale sono rimasti solo 17.955 posti letto ospedalieri con un calo di 5.847 unità, pari al -24,5%. Questo saldo negativo è il gravissimo risultato di un’operazione che addirittura ha previsto il taglio di ben 6.137 (-30,1%) posti letto pubblici a fronte di un aumento dei posti letto nella sanità privata (+290 posti letto pari a +8,5%).
Le schede ospedaliere del Veneto, hanno dunque contribuito pesantemente al taglio di ben 3.629 posti letto, pari al -20,3% (da 17.955 a 14.250, taglio di un posto letto ogni 5), mentre sono stati assegnati 517 posti letto alle strutture private pari al +16,2% (da 3.188 a 3.705, circa un posto letto ogni 6 in più). Con la stessa deprecabile logica, è stato effettuato il taglio di ben 365 posti letto ospedalieri pubblici (da 1.114 a 749) in Area Intensiva, pari al -32,7%. Quasi un posto letto ogni 3. Se nel 2002 la sanità privata “valeva” (facendo il rapporto tra posti letto pubblici e posti letto privati) più o meno il 16%, oggi è balzata al 24% e i servizi per la riabilitazione gestiti dal privato sono aumentati del 62%. I risultati sono stati i seguenti:
Andamento dei posti letto per acuti
In 10 anni dal 2000 al 2009 il numero dei posti letto è passato da 21.400 a 16.700 (-20% circa).
Tasso di ospedalizzazione (esprime il numero dei ricoveri medio annuale che si verifica ogni 100.000 abitanti): dal 2001 al 2009 è passato da 200 a 150. Oggi è assestato sui 117 ed è il più basso d’Italia.
Va detto che tali tagli sono la conseguenza di un contesto normativo nazionale volto a soddisfare l’esigenza di derivazione UE di mettere la mordacchia alla spesa pubblica, urgenza rintracciabile sia nel Patto di Stabilità Interno sia nella legge 311/2004 i cui regolamenti attuativi fissano per la prima volta dei tetti al numero dei posti letto, alla durata delle degenze e ai tassi di ospedalizzazione, parametri che nel corso degli anni sono stati rivisti continuamente al ribasso arrivando nella nostra regione a 3.7 posti letto / 1000 abitanti e ad un tasso di ospedalizzazione massimo di 140 ab. / 1000 ab. (Allegato “A” alla D.G.R. Veneto 1527/2015). Tale media non è però rappresentativa della reale presenza di dotazioni ospedaliere sui singoli territori, caratterizzata da una distribuzione a macchia di leopardo dipendente probabilmente più da questioni di consenso elettorale che dalle concrete esigenze delle diverse realtà locali.
Per quanto riguarda la nostra regione, l’origine di questa politica ha una data precisa: l’approvazione della delibera regionale numero 4449 del 28 dicembre 2006 avente per oggetto “Assistenza ospedaliera: criteri e modalità per la determinazione dei volumi di attività e dei tetti di spesa degli erogatori pubblici e privati preaccreditati per gli anni 2007-2008-2009”. Presidente della regione era Giancarlo Galan, vice presidente Luca Zaia e assessore alla sanità era Flavio Tosi. Con tale discutibile normativa si stabilì il principio cardine fondamentale secondo cui non poteva essere superato il limite dei 160 ricoverati ogni mille abitanti. Una razionalizzazione, per usare un eufemismo, il cui fine ultimo sarebbe stato quello di diminuire le prestazioni complessive nella sanità pubblica a favore degli «erogatori privati preaccreditati».
Infatti, nella fattispecie, mentre da una parte gli «erogatori privati preaccreditati» vengono obbligati a rispettare, in proporzione, il limite imposto dal parametro dei posti letto, dall’altro i fondi complessivi ad essi destinati non diminuiscono in proporzione in quanto la delibera suddetta recita esplicitamente che «il budget finanziario destinato agli «erogatori privati preaccreditati» rimane invariato per tutto il triennio 2007-2009». Ma non basta ancora: «gli erogatori privati preaccreditati potranno modificare la produzione complessivamente erogata anche incentivando il passaggio al regime ambulatoriale delle prestazioni di ricovero previste» ovvero alla regione non interessa spendere meno, ma interessa far diminuire la percentuale dei ricoveri attraverso la riduzione dei posti letto.
Mentre il budget per il pubblico proporzionalmente cala, quello per i privati aumenta. Nella suddetta delibera difatti per gli «erogatori privati preaccreditati» viene mantenuto l’aumento del 3% previsto nel 2004, riconosciuto per il 2007 un incremento finanziario dell’8%, per il 2009 un altro 3,23% per compensare l’inflazione… Infine, sempre nella medesima disposizione si legge: «Qualora, in conseguenza della riduzione dei ricoveri, un erogatore privato preaccreditato non raggiunga il budget finanziario previsto, la quota finanziaria mancante sarà comunque garantita, in aggiunta al budget delle prestazioni ambulatoriali previsto per l’anno successivo e finalizzata alla riduzione delle liste d’attesa». Una garanzia fuorviante e onerosa che ha il fine ultimo di garantire favori agli «erogatori privati preaccreditati» con ogni mezzo pubblico possibile.
Altro capitolo significativo riguarda il personale del settore sanitario. I medici cessati nelle Ulss venete nell’ultimo anno sono centinaia, con un trend in aumento. Tanto per citare alcuni esempi: dal 2017 ad oggi i Dirigenti Medici che hanno lasciato, a vario titolo, l’Azienda Ulss 5 Polesana sono 112 e l’Azienda Ulss 8 Berica sono 108. Le Aziende Ulss con l’avallo degli organismi regionali come al solito hanno scovato il metodo per aggirare in modo illegale il problema. È così che entrano in gioco le Coop. Il facile e discutibile reclutamento di medici attraverso le coop, un affare plurimiliardario, è iniziato in sordina presso la Ulss 5 Polesana nel giugno 2016 ma si è diffuso rapidamente a quasi tutte le altre Ulss.
La Regione Veneto lamenta una carenza di organico complessiva pari ad oltre 1350 medici: a titolo di esempio, nella sola Ulss 5 Polesana, dal 2017 ad oggi, tra il raggiungimento della massima età e trasferimenti per mobilità volontaria, si sono persi circa 110 medici, rimpiazzati con lo strumento dell’affidamento diretto tramite la coop Novamedica di Bologna. Alla stessa cooperativa si sono altresì rivolti per la carenza di medici la Ulss Veneziana, per sopperire alla carenza di personale per le prestazioni ambulatoriali e chirurgiche, nonché la Ulss Euganea 6 Padovana che riscontra una mancanza di circa 100 medici.
Si tratta di pratiche che sono state dichiarate illegittime dal Consiglio di Stato (sentenza n. 1571/2018). Il ricorso ai cosiddetti “Medici in affitto”, che spesso non sono specializzati, riduce in modo significativo la sicurezza organizzativa delle strutture sanitarie e quindi anche la sicurezza e la qualità delle cure erogate. Questo è dovuto, non tanto alla preparazione teorica di questi medici che può anche essere di buon livello, quanto alla loro limitata esperienza clinica ed al fatto che vengono immediatamente messi ad operare in contesti che non conoscono. In alcuni Pronto Soccorso della regione i “Medici in affitto” non sono utilizzati per le guardie notturne e festive per il timore che si possa verificare più facilmente l’“errore umano”. Come di consueto capofila di queste pratiche discutibili, in Italia, è il Veneto, seguito dal Trentino Alto Adige. Per quanto concerne il personale infermieristico, il Veneto sembra in linea con le linee guida nazionali avendo un rapporto infermieri/medici di 3 a 1. Usiamo volutamente il termine “sembra” poiché, vista la carenza di medici, anche nel Veneto il rapporto 3 a 1 con gli infermieri è palesemente falsato.
Si giunge così al Piano Socio Sanitario Regionale (PSSR) del 2019-2021 e alle sue non poche criticità. Partendo dalle schede ospedaliere osserviamo che il confronto tra le schede ospedaliere 2019-2023 e la situazione al 2013 mostra inequivocabilmente una riduzione di posti letto di -816 unità (-4,29%) e un aumento dei letti a gestione privata accreditata +833 (+4,56%). Inoltre è netta la riduzione complessiva tra letti per acuti e post acuti, che è di 1414 unità (-6,67%). In premessa al PSSR in parola, se ne ricordano gli aspetti più qualificanti, per approfondire i quali occorre richiamare il Decreto Ministero della Sanità (D.M.S.) 70/2015. Il D.M.S. 70/2015 è un decreto di fondamentale importanza finalizzato alla riorganizzazione, all’aggiornamento e alla modernizzazione delle obsolete e costosissime reti ospedaliere del Paese.
Tale complessa riorganizzazione ha i seguenti obiettivi:
· deve rendere la rete ospedaliera adeguata a rispondere ai nuovi bisogni di salute e alle nuove modalità del loro manifestarsi;
· deve inoltre contribuire a promuovere la qualità dell’assistenza, la sicurezza delle cure, l’uso appropriato delle risorse, implementando forme alternative al ricovero, quando le stesse rispondano più efficacemente ai bisogni di una popolazione sempre più anziana e/o non autosufficiente.
Fra i suddetti standard assumono particolare importanza i seguenti:
· la riduzione dei posti letto al 3,7 per mille ab. (3,0 per gli acuti e 0,7 di riabilitazione);
· la classificazione delle strutture ospedaliere in livelli in base ai bacini di utenza e ai requisiti minimi necessari strutturali e tecnologici per ciascuno di questi;
· l’individuazione di standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi dei livelli essenziali di organizzazione per ciascuna disciplina;
· il vincolo della programmazione ai fini qualitativi al rapporto volume di attività/esiti;
· l’attivazione delle reti per patologia;
· l’adozione del modello Hub e Spoke per quanto riguarda la programmazione dei flussi di pazienti nei diversi ospedali della rete;
· l’adeguamento della rete Emergenza – Urgenza.
Criticità:
Nell’elaborato del PSSR è presente una forte contraddizione fra le affermazioni esistenti nel testo, p.es., “forte aderenza della rete ospedaliera in tutte le sue componenti alle disposizioni e agli standard minimi previsti dal suddetto D. M. Sanità”, e la reale attuazione e rispetto di tali standard.
Il D.M.S. presenta infatti due classificazioni degli ospedali della rete:
· la prima legata ai requisiti minimi strutturali, tecnologici e quantitativi necessari per rientrare in uno dei tre livelli minimi previsti (requisito fondamentale per individuare il ruolo dell’ospedale nella rete) e per poter garantire la condizione minima necessaria di sicurezza clinica ed organizzativa al paziente;
· la seconda articolata in due livelli (Hub e Spoke) in base al ruolo dell’ospedale nella dinamica dei flussi dei pazienti per quanto riguarda i ricoveri.
In realtà, nella proposta di nuovo PSSR si è tenuto poco conto della classificazione legata ai requisiti minimi.
La nostra attuale rete ospedaliera risale a prima della seconda guerra mondiale, con poche modifiche strutturali intervenute sulla stessa da allora ad oggi. Quest’ultima è caratterizzata attualmente dalla presenza di 68 ospedali, di cui 51 ritenuti ospedali generali e 17 che non possono essere considerati tali. Gli ospedali, ritenuti “generali”, a loro volta sono stati così classificati in base alla dinamica dei flussi dei pazienti per quanto riguarda i ricoveri:
– 5 HUB ospedali regionali (A. O. Padova, A. O. U. I. Verona, Treviso, Mestre e Vicenza),
– 2 HUB provinciali (Belluno e Rovigo),
– 44 ospedali SPOKE.
Per la Regione tutti i 51 ospedali “generali” possiedono già i requisiti previsti e richiesti dal D.M.S. 70/2015 in rapporto al loro ruolo nella rete ospedaliera regionale. In base a questa affermazione i suddetti ospedali sarebbero classificabili in base ai requisiti minimi teoricamente posseduti in:
– 7 presidi ospedalieri di II livello,
– 27 di I livello (ospedali nodi di rete),
– 17 di base (ospedali presidi di rete).
Se si esaminano però nel dettaglio i reali requisiti strutturali, organizzativi e tecnologici posseduti da questi ospedali e si confrontano con quelli minimi richiesti dal suddetto D.M.S. 70/2015 ci si rende conto che:
– dei 7 presidi ospedalieri di II livello, 5 solamente hanno i requisiti e 2 non li hanno;
– dei 27 presidi ospedalieri di I livello, 13 solamente hanno i requisiti, mentre 6 sono borderline e 8 sono ben lontani dal possederli;
– dei 17 presidi ospedalieri di base, 3 hanno i requisiti, mentre 4 sono borderline e 10 sono ben lontani dal possederli.
Esistono anche altre due importanti discordanze rispetto ai principi tecnici di buona programmazione e di buona organizzazione nominalmente presenti nel D.M.S. 70/2015.
1. Allocazione dei requisiti minimi.
Per il suddetto D.M.S. i requisiti devono essere posseduti dal singolo stabilimento ospedaliero (per il D.M.S. lo stabilimento ospedaliero è equivalente al presidio ospedaliero) al fine di ottimizzare le sinergie diagnostiche, terapeutiche e i percorsi clinici ed elevare al di sopra dei livelli minimi indispensabili le condizioni di sicurezza clinica ed organizzativa del singolo ospedale.
Per la Regione Veneto, invece, il presidio ospedaliero è l’insieme degli stabilimenti ospedalieri presenti in ciascuna azienda e pertanto i requisiti suddetti non devono per forza essere tutti presenti nel singolo ospedale, ma al loro possesso possono concorrere quelli presenti nell’Azienda Sanitaria di competenza, anche se distano parecchi chilometri l’uno dall’altro. Questa discordanza rende palese la poca considerazione da parte della Regione nei riguardi della sicurezza clinica ed organizzativa per i pazienti.
2. Numero di ospedali generali in rapporto ai bacini di utenza.
Il numero degli ospedali “generali” che dovrebbero essere presenti nel Veneto è ben superiore a quello che risulterebbe dal D.M.S. suddetto, se si tenesse conto dei bacini di utenza in esso previsti; se si utilizzassero dimensioni di bacini di utenza di livello medio rispetto a quelli dichiarati dal D.M.S., il numero massimo degli ospedali “generali” dovrebbe essere non più di 40-41, pur tenendo conto dell’orografia. I 10 o 11 ospedali, a cui togliere la qualifica di ospedale generale e trasformare in altra tipologia di struttura sanitaria a bassa complessità diagnostica & terapeutica (ospedali di continuità, di lungodegenza o di riabilitazione), sarebbero naturalmente quelli più piccoli, meno sicuri e meno strategici per la rete ospedaliera regionale. Questa discordanza, qualora si voglia ricercare veramente una maggiore sicurezza organizzativa e clinica, al fine di ridurre gli eventi avversi sui pazienti e gli elevati costi assicurativi per l’azienda, nonché in una situazione di carenza sempre più grave di medici specialisti e di risorse economiche per la Sanità Pubblica, ha fragili motivazioni sul piano tecnico e appare rischiosa per la sostenibilità e sicurezza clinica ed organizzativa del S.S. Regionale.
AZIENDA ZERO
Mentre i territori sono in sofferenza per la mancanza di servizi, Azienda Zero realizza 57 milioni di utile, come emerge dall’esame del bilancio economico consolidato. Soldi sottratti alle Ulss nel corso del 2017 che avrebbero consentito l’erogazione dell’assistenza, non solo ospedaliera, in modo più efficace. Infatti, la produzione di Azienda Zero ha un valore di 594 milioni e al suo interno spiccano i 168 milioni per ripianare i deficit delle Ulss, i 51,7 per il funzionamento di Arpav (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto), i 14,5 per gli specializzandi e infermieri, i 12 per indennizzi danni da trasfusione, 21 milioni per mobilità attiva, 47 per il pay back farmaceutico e altri 16 per fornitori elettromedicali e biomedicali, accantonamenti vari, manutenzioni e riparazioni. Alla fine, risulta un utile spendibile in investimenti in conto capitale di circa 57 milioni. Se tale somma fosse stata effettivamente iscritta in bilancio per la riorganizzazione e il potenziamento del territorio avrebbe consentito un’assistenza più efficace.
DISTRETTI SOCIO SANITARI DI BASE DEL TERRITORIO
Il capitolo dei Distretti Socio Sanitari di Base e dell’assistenza territoriale nel suo complesso rappresenta un altro dolente tasto.
· Nel 1980 nasce il Distretto Socio Sanitario di Base a livello nazionale con la Legge 833/78 e nel Veneto con la L. R. n. 13/80 che ha come oggetto il Servizio sanitario nazionale e regionale. Il distretto è inizialmente concepito come organo di decentramento al quale affidare attività di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione di base. Originariamente, i distretti erano di piccole dimensioni (in genere un comprensorio da 7000 a 30.000 abitanti).
· A metà anni ‘90 assistiamo a una riforma nazionale e regionale (Legge 502/92 e 517/93 Riordino del SSN – L. R. 56/94 e 5/96 Riordino del SSN e PSSR 96/98). Le dimensioni di ciascun distretto nel Veneto passano in nome della cosiddetta “razionalizzazione” ad una dimensione minima di 50.000 abitanti per distretto.
· Dal 2000 il distretto subisce un’ulteriore involuzione, determinata dalle disposizioni dettate dal D. L. 299/1999 (riforma Bindi) e a livello regionale dalla D.G.R. Veneto 3242/2001. Infatti, il costo del SSN, gravando sul bilancio dello Stato, non può contare su risorse illimitate e il distretto viene coinvolto nella governance delle prestazioni sanitarie con:
– la gestione diretta di servizi/attività;
– la realizzazione dell’integrazione socio/sanitaria;
– la gestione della domanda di prestazioni (farmaceutiche, specialistiche, ed ospedaliere). Il tutto attraverso l’attività di orientamento del cittadino e l’integrazione della organizzazione distrettuale. La dimensione minima è ora di 60.000 abitanti.
Nel 2012–2013 assistiamo ancora ad una nuova drastica riduzione delle potenzialità dei Distretti con la L. R. 23/2012 (PSSR 2012-2016), D.G.R. Veneto 975/2013 (vertente sulla nuova organizzazione del distretto socio-sanitario). Viene, infatti, ipotizzato:
· un bacino di Ulss ideale di 200.000-300.000 abitanti;
· un bacino di distretto con più di 100.000 abitanti ma con un orientamento al distretto unico della Ulss.
In pratica, l’ospedale si dovrebbe occupare dei malati acuti e il territorio di quelli cronici. Ma i numeri dimostrano, purtroppo, che non è tutto oro quello che riluce. La dimensione dei distretti corrisponde alla dimensione territoriale delle province, ossia circa 800/900.000 abitanti (ad eccezione di Venezia, scelta motivata dal flusso di turisti estivi, e di Vicenza, che possiede due distretti). Il nuovo assetto è stato molto dibattuto nella 5a Commissione regionale. È così che le Ulss aumentano di dimensione con la riduzione da 21 a 9, i distretti vengono ridotti a 22 (da 1 a 5 per ogni Ulss), ma con un bacino d’utenza molto critico da gestire.
Un tasto particolarmente dolente, riferito alla continuità assistenziale, è quello che riguarda le strutture intermedie, meglio definite come “strutture residenziali extraospedaliere” che devono fornire assistenza a tutte quelle persone le quali, pur non trovandosi in condizioni cliniche tali da richiederne il ricovero in ospedale, necessitano di livelli di assistenza e cura non garantibili a domicilio: un anello importantissimo dell’integrazione tra ospedale e territorio. La D.G.R. 2122/2013 prevedeva la realizzazione – concomitante alla soppressione di 1219 posti letto ospedalieri poi effettivamente realizzata – di 1263 posti letto nelle strutture intermedie. Di questi, ne sono stati realizzati solo 238 (portando il totale dai 1775 di sette anni fa ai 2013 del 2019), ma Regione Veneto dichiara oggi di avere sufficiente disponibilità di posti letto nelle strutture intermedie dato che il fabbisogno viene attualmente calcolato sulla base di 0.6 posti letto / 1000 abitanti di età superiore ai 45 anni (D.G.R. Veneto 614/2019), contro gli 1.2 posti letto / 1000 ab. di età superiore ai 42 anni del precedente PSSR. Quella stessa Regione che in un contesto di tagli alla spesa sanitaria garantisce al privato un incremento dei posti letto e delle entrate indipendente dalla tipologia di servizio erogato non trova i soldi per fornire un servizio pubblico essenziale per la continuità assistenziale.
La mancata realizzazione di oltre 1000 posti letto extraospedalieri diventa, alla luce della recente emergenza sanitaria non ancora del tutto superata, ancor più grave se si pensa che piccoli ospedali di comunità avrebbero potuto garantire una maggiore scalabilità nel predisporre ambienti idonei ad accogliere i malati di Covid19, con minori costi per le comunità locali. Invece, alcuni territori hanno dovuto accettare la chiusura di interi complessi ospedalieri (compresi i Pronto Soccorso) dinnanzi alla possibilità di una crescita esponenziale della pandemia, la quale poi per fortuna non si è verificata. Una buona parte di queste strutture intermedie potrebbe essere realizzata sfruttando quella decina di ospedali periferici che non corrispondono ai requisiti minimi richiesti dal D.M.S. 70/2015 che potrebbero venire riconvertiti – previo un trasferimento e non una soppressione dei posti letto in essi allocati – in ospedali di comunità o in qualche altra tipologia di struttura residenziale extraospedaliera.
Questo impressionante processo di accentramento territoriale e riduzione delle dotazioni ospedaliere, extraospedaliere, e territoriali è stato realizzato grazie anche all’accentramento dei processi decisionali che lo ha preceduto: difficilmente si sarebbe potuto ottenere un tale drastico ridimensionamento dei servizi senza spogliare gli Enti Locali della loro possibilità di incidere sulla programmazione sanitaria, cosa che fino al 1992 avveniva attraverso i Comitati di Gestione nominati dai Comuni e oggi sostituiti dalle “Conferenze dei Sindaci”, le quali possono al massimo esprimere il loro parere su scelte prese in stanze molto lontane dai territori che esse rappresentano.
Tale processo di accentramento si verifica non solo a livello politico e territoriale, ma anche al livello operativo-gestionale dove, grazie al progressivo accorpamento ed eliminazione di distretti e primariati, sono state ridotte le figure apicali ma al contempo, per chi occupava tali posizioni, è stata creata la figura del “dirigente intermedio”. In questo modo, chi tutti i giorni opera concretamente per fornire servizi sanitari ma soprattutto sociali alla cittadinanza si trova a dover rispondere di eventuali proprie iniziative a una pletora di superiori. Questo meccanismo umilia e inibisce la progettualità che nasce dalla base della piramide gerarchica e favorisce invece la trasmissione dall’alto verso il basso delle volontà espresse dai livelli superiori della catena di comando, che spesso con i reali bisogni dei territori hanno poco a che fare. Infatti, oggi i progetti nuovi sono quelli finanziati dai Fondi Sociali Europei gestiti in gran parte dalla Regione, e/o affidati alla gestione del privato.
In conclusione, possiamo affermare che la Regione Veneto, governata per quasi un ventennio dalla Lega, ha accettato e fatte sue le spinte neoliberiste nel settore sanitario, promosse a livello nazionale anche da partiti che da noi sono da sempre all’opposizione, facendo di tali spinte un vero e proprio cavallo di battaglia e trasformando il Veneto nella regione modello per quanto concerne le politiche di drastica riduzione della spesa, a scapito della qualità e della quantità dei servizi resi. Le liste d’attesa documentano inequivocabilmente tale deriva.
Le liste di attesa in Veneto sono presenti da sempre, ma ultimamente, con un artificio alquanto singolare, i tempi d’attesa risultano “ufficialmente” inferiori a quel che sono in realtà. Infatti, con un artificio ben congegnato, l’attesa per una prestazione richiesta viene di fatto ridotta dai CCUUPP (Centri Unici di Prenotazione) mediante un meccanismo di preavviso di prenotazione a cui poi segue un tempo variabile, generalmente lungo, dopo il quale l’utente riceve una telefonata con la data fissata per la prestazione stessa. In pratica non viene conteggiato come tempo d’attesa il tempo che intercorre tra il preavviso di prenotazione e la data di prenotazione effettiva risultando così falsato il tempo d’attesa reale.
A nulla è valsa l’introduzione dell’apertura serale e festiva degli ambulatori di diagnostica per immagini in termini di liste d’attesa; la qual cosa, di contro, ha portato ad un sicuro aumento della spesa sanitaria legata alla retribuzione dell’orario straordinario effettuato dal personale. Guardando i numeri, su 4,5 milioni di indagini eseguite in un anno in totale nel 2018 ne sono state effettuate in tali fasce orarie solo 136.000. In particolare sono 315 le mammografie effettuate nelle ore serali in un anno e 299 le Tac nei festivi. Differenti sono invece i dati relativi alle prestazioni serali e festive effettuate nelle strutture private accreditate dove le mammografie totali sono state 8.999 mentre le risonanze magnetiche sono state circa 27.500. Sono state inoltre 16.000 le ecografie e quasi 5.500 le Tac.
LA NOSTRA PROPOSTA
Ritornare ad applicare i capisaldi della legge istitutiva del 1978:
· UNIVERSALITÀ DEL SERVIZIO;
· UGUAGLIANZA DEI CITTADINI DI FRONTE AL SERVIZIO;
· GLOBALITÀ DELLA CURA;
· PROGRESSIVITÀ DEL FINANZIAMENTO;
· RITORNO DEI TERRITORI NEI PROCESSI DECISIONALI DI INDIRIZZO SOCIOSANITARIO;
· RECUPERO DI RISORSE TRAMITE RICORSO CONTRO LE CONDIZIONI CAPESTRO DEI CANONI SBORSATI PER L’UTILIZZO DELLE NUOVE STRUTTURE REALIZZATE CON LA FINANZA DI PROGETTO
In effetti, laddove la Legge del 1978 prescriveva universalità del servizio si ha oggi una crescita impressionante degli italiani che rinunciano alle cure per ragioni economiche; laddove il principio era l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alle cure si ha oggi un tangibile divario territoriale; laddove la cura era concepita come globale – abbracciando insieme prevenzione, cura della fase acuta, e riabilitazione – si ha oggi intensità di cura, per ridurre i posti letto e la durata media delle degenze ospedaliere; laddove, infine, si finanziava il servizio attraverso un sistema fiscale altamente progressivo si ha oggi la crescita della spesa sanitaria privata, il fiorire della cosiddetta sanità integrativa (inserita spesso e volentieri anche nei contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati) e l’affacciarsi delle polizze assicurative private.
Più nel dettaglio, occorre agire con forza sulle politiche occupazionali, dato che le politiche di austerità e la concorrenza tra erogatori sanitari pubblici e privati hanno prodotto gravi carenze del personale sanitario pubblico o convenzionato con il pubblico, sia medico che infermieristico. Secondo le stime dell’Associazione medici dirigenti (ANAAO Assomed) già oggi il Servizio Sanitario Nazionale sconta una carenza di circa 10.000 medici. Considerata l’età media molto elevata del personale medico italiano, in assenza di una politica occupazionale espansiva il deficit si amplierà a dismisura nei prossimi dieci anni, quando matureranno il diritto alla pensione oltre 47.000 medici specializzati. Discorso analogo vale per i medici di base, che non rientrano nel servizio sanitario pubblico ma sono inquadrati nel sistema di assistenza territoriale attraverso una convenzione. Di qui al 2028 andranno in pensione più di 33.000 medici di base, mentre si calcola un potenziale di assunzioni a legislazione vigente di appena 11.000 unità di personale. Il deficit stimato sarà quindi intorno alle 22.000 unità, cosa che priverà del medico di famiglia fino a 14 milioni di italiani già entro il 2023.
Il problema non risiede nella quantità di medici laureati, ma piuttosto nel numero di borse di specializzazione offerte dalle Regioni. Negli anni, infatti, il ridimensionamento del Servizio Sanitario Nazionale ha provocato quello che i sindacati del settore definiscono “imbuto formativo”: secondo l’Associazione medici dirigenti, i posti resi disponibili per le scuole di specializzazione sono ad oggi circa 6.500 l’anno, a fronte di un fabbisogno stimato di almeno 8.500 unità e di un numero di laureati che si attesterà in media nei prossimi anni intorno a 10.000. Ciò significa che a mancare è la domanda di lavoro da parte del Servizio Sanitario Nazionale, non l’offerta di medici. Lo stesso si può dire per i medici di base, per i quali le borse per il corso di formazione in medicina generale è stagnante intorno alle 1.100 annue, a fronte di un fabbisogno e di un’offerta di lavoro ben più alti. L’imbuto formativo tende naturalmente a provocare l’emigrazione all’estero dei medici che non possono specializzarsi o formarsi in Italia.
Ancora più grave è il deficit di personale infermieristico, se pensiamo al dato di partenza: nel 2017 l’Italia aveva 1,4 infermieri per ogni medico, quando la media OCSE allargata ai 35 Paesi più avanzati si attestava a 2,8, esattamente il doppio; la Germania a 3,1; la Danimarca, la Finlandia e il Giappone addirittura a 4,6. Secondo le stime della Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi) la carenza attuale è di oltre 51.000 infermieri, nonostante un rapporto infermieri/medici stimato a 2,5.
Politiche di rilancio occupazionale nel settore sanitario possono giovare non solo all’efficacia e all’efficienza del servizio, la cui produttività deve oggi scontare l’alta età media del personale e l’accumularsi delle ore di lavoro straordinario, ma anche più in generale al ritmo di crescita dell’intera economia. In un’ottica puramente macroeconomica, infatti, è scientificamente condivisa la tesi secondo la quale il maggiore moltiplicatore delle politiche economiche riguarda gli investimenti pubblici e le assunzioni nella pubblica amministrazione, seguiti a più ampia distanza dai trasferimenti sociali e dalla riduzione della pressione fiscale.
Occorre inoltre superare l’impianto sostanzialmente oligarchico e monocratico del SSN così come previsto dal D. L. 502/1992 re-istituzionalizzando la possibilità di controllo da parte dei territori sui processi decisionali di indirizzo sanitario. L’attuale meccanismo, il quale concede ai Sindaci l’espressione di un parere che il Sultano Regionale e i suoi Visir sono liberi di non ascoltare, è solo la foglia di fico dietro cui si nasconde un feroce paternalismo neoliberale che tratta i cittadini da minus habentes e vede i processi democratici come un ostacolo all’asservimento delle istituzioni pubbliche a interessi privati ben rappresentati all’interno della macchina sanitaria regionale. I vecchi Comitati di Gestione delle Usl, pur essendo organismi lottizzati e privi di competenze sanitarie specifiche, erano sicuramente un baluardo contro la spoliazione del SSN a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni.
Risulta difficile, nel contesto odierno di tagli generalizzati alla spesa pubblica, fatti per conformarsi allo spirito dell’UE, e di cessione totale della sovranità monetaria, trovare le risorse per finanziare la formazione del personale e l’adeguamento delle strutture ospedaliere e territoriali. Una strada percorribile potrebbe essere quella di ricorrere contro i contratti stabiliti, attraverso la finanza di progetto, tra Regione e Concessionari delle strutture realizzate, fenomeno strettamente connesso agli obblighi imposti dal Patto di Stabilità Interno. Infatti, tali contratti prevedono un esborso pluridecennale di canoni annuali che arrivano in alcuni casi a cifre intorno al 20% del capitale investito dal concessionario, un tasso di rimborso che non sarebbe eccessivo definire usurario.
Invertendo la “retorica nuovista” dei nostri tempi, si può ben affermare che la classe dirigente attuale ci sta facendo tornare indietro, ad un’epoca in cui la Sanità non era un diritto soggettivo riconosciuto ma una questione di profitto privato, e di mero ordine pubblico nel caso eccezionale di epidemie; un sistema in cui lo Stato “lasciava fare” alla solidarietà di ispirazione operaia, mazziniana o cristiano-sociale attraverso il sistema delle mutue volontarie; un’epoca, non a caso, non democratica bensì liberale.
Nel difendere e rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale delineato dalla legge istitutiva del 1978, perciò, si tratta di “tornare avanti” recuperando le leve economiche e fiscali, cosa che sarà possibile soltanto liberando l’Italia dai vincoli dell’Unione Europea al fine di rendere nuovamente possibile una sanità universale, eguale, globale e finanziata dalla fiscalità generale, da ricalibrare quest’ultima in senso altamente progressivo.
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