L’ingranaggio della manipolazione mediatica in una società liquida (cioè liberista)
di ANDREA TUMMINELLI (FSI-Riconquistare l’Italia Roma)
Alcuni episodi – si dice in genere – non possono essere rappresentativi di una manifestazione o di una forza politica: non sta bene inquadrare la parte, l’episodio o il singolo personaggio, e presentarla come se fosse il tutto. In altri casi, tuttavia, siffatto modo di procedere per arrivare alla condanna morale sembrerebbe invece lecito, se non addirittura doveroso, consentito in particolare ai “professionisti dell’informazione”. Perché, ad esempio, un organo di stampa filogovernativo (oggi la stragrande maggioranza) dovrebbe fornire un’informazione equilibrata sulle istanze che i promotori di una manifestazione scomoda avrebbero realmente inteso portare all’attenzione del pubblico, quando si può semplicemente concentrare il chiacchiericcio su qualche episodio e affibbiare, grazie a tale espediente, etichette diffamatorie, trancianti ed efficaci nella demonizzazione dell’evento e delle organizzazioni promotrici?
Se una persona mentalmente sofferente o anche solo eccessivamente esaltata si presenta ad una manifestazione in luogo pubblico organizzata dal Partito Democratico (come, peraltro, è suo diritto costituzionalmente garantito) incitando vistosamente alla violenza contro i cosiddetti “negazionisti” del Covid-19, alla loro carcerazione, alla revoca della potestà genitoriale o del diritto di avvalersi del Servizio Sanitario Nazionale, etc., non è corretto – vi spiegherà verosimilmente un dotto “opinionista” da salotto televisivo – ritenere l’episodio rappresentativo di un intero partito di «persone per bene». Non sta bene secondo il galateo, signora mia!
Se, invece, sulla scena di una manifestazione sovranista, regolarmente convocata nel rispetto dei principi costituzionali e delle procedure di comunicazione alla Questura, si presenta un branco di operatori dell’informazione mal pagati e famelici e tuffatori d’area di rigore desiderosi di fare carriera, che caricano a testa bassa per riuscire a consegnare a fine giornata la carcassa della «manifestazione negazionista» (testuale), già annunciata con lauto anticipo, allora la caccia ai personaggi sopra le righe ai margini del raduno, la provocazione insolente alla ricerca dello spintone o della rissa per ottenere “visibilità”, lo screening ossessivo della piazza per scovare il trasgressore con la mascherina abbassata o il personaggio col tatuaggio del fascio littorio o della svastica in vista e pronto a sollevare il braccio teso (magari dopo un paio di carte da cinquanta euro allungate da qualcuno? È lecito domandarsi se non si potrebbe anche arrivare a tanto…) diventano tutte pratiche ammesse. In questo caso gli episodi e i singoli possono, e anzi devono, diventare il tutto. Nient’altro deve venire in rilievo. Nient’altro deve essere raccontato al pubblico.
I sovranisti non sono «persone per bene»; sono dei subumani, come si incaricheranno immancabilmente di “dimostrare” le immagini volutamente acquisite, tagliate, rimontate e mandate in onda, a seguito di una ricerca maniacale dell’episodio da copione e la cronaca scritta di accompagnamento: parziale, tendenziosa o addirittura fattualmente distorsiva. Dunque, se i sovranisti sono dei subumani, perché al pubblico dovrebbe interessare sapere di più sulla loro manifestazione e sulle loro ragioni? L’opinionista con il doppio petto e la erre moscia, forse, queste conclusioni non le esprimerebbe apertamente – ché non sta bene, madama! – ma, prese per buone le premesse, il pubblico ingenuo non potrà che trarle da sé.
Dove sta allora la differenza tra il simpatizzante di Renzi o di Calenda che chiede a gran voce, in pubblico o sui social, la «abolizione del suffragio universale» (un episodio cui forse nessun giornalista darebbe rilievo o che, al massimo, sarebbe giustamente minimizzato come delirio di un povero squinternato) e il «populista» senza mascherina sbattuto in home page, con la bandiera di partito intenzionalmente inclusa nell’inquadratura, per aver urlato in faccia ad un professionista al soldo di una testata web? La differenza sta nella rappresentazione (e nella correlata valutazione secondo una, quasi sempre non esplicitata ma subliminalmente somministrata, cornice valoriale). Il linguista americano Lakoff ci illumina su questi aspetti – peraltro da posizioni dichiaratamente liberali – nel suo, ormai celebre, Non pensare all’elefante! (George Lakoff, Don’t think of an elephant! Know your values and frame the debate, Chelsea Green Publishing, 2014, prima ediz. 2004). Rappresentazione e valutazione, in un assetto istituzionale liberista, finisce inevitabilmente per deciderle chi paga e tiene in piedi la baracca. Ed ecco che, allora, irridere gli elettori «ignoranti» e invocare la «abolizione del suffragio universale» è diritto di satira del singolo individuo burlone; berciare «buffone!» contro un operatore informativo che adotta comportamenti provocatori è invece un intollerabile attacco alla libertà di stampa che, per di più, sarebbe generalizzabile al fine di screditare un’intera piazza o un intero partito sovranista.
Attenzione – è bene precisarlo a scanso di equivoci – “chi paga” non è il pubblico. Come mostrato già decenni fa da Noam Chomsky e Edward S. Herman (La fabbrica del consenso, 1988), il pubblico non è il vero cliente dei media, e negli ultimi decenni di informazione “gratuita” sul web questo dovrebbe essere ancora più chiaro. Un ormai celebre adagio dell’“era google” mette in guardia sul fatto che «se non paghi, vuol dire che non sei il cliente: tu sei la merce». Il pubblico è infatti la materia prima da manipolare e modellare grazie al “semilavorato” sapientemente prodotto e somministrato dai professionisti dell’informazione. Laddove il prodotto finale deve essere una “opinione pubblica” condizionata, cotta a puntino, fatta per reggere anche sotto i colpi di vento più forti e improvvisi. «Il circo mediatico finge di essere al servizio della domanda [del pubblico] e invece costruisce e determina l’offerta» (Costanzo Preve, Il ritorno del clero, Petite Plaisance, Pistoia, 1999, pag. 21).
In verità, il circo mediatico asseconda la domanda di chi veramente lo finanzia e tiene in piedi la baracca all’interno di cui operano i suoi «specialisti della mediazione simbolica e della coltivazione dell’immaginario di un’intera società» (Costanzo Preve, Il ritorno del clero, cit., pag. 5). L’immaginario di un’intera società è «un legame sociale complessivo, che “tiene insieme” dimensioni economiche, politiche, tecniche e scientifiche che altrimenti si disgregherebbero e si frantumerebbero» (Ibidem). Le opportunità che lo stato di eccezione da Covid-19 fornisce all’oligarchia “vincolista” che governa in Italia, inimmaginabili solo pochi mesi fa, sono spaventose. Eppure il rischio di incidenti che «disgregherebbero e … frantumerebbero» non è da sottovalutare.
Il 2021 sarà un anno vissuto pericolosamente per il regime. Le maglie devono allora stringersi ulteriormente e l’ingranaggio della manipolazione deve diventare ancora più rozzo e prepotente: si restringono ulteriormente gli spazi che il singolo operatore ha per fornire al pubblico informazioni incompatibili con il frame impresso per volontà dell’oligarchia globale e nazionale. Secondo i modelli idealtipici nella concezione liberale, il dipendente (in senso lato) esegue ciò che chiede il padrone e tace. Non importano le implicazioni in tema di libertà costituzionali. Nello stato hayekiano, infatti, sostanzialmente solo i proprietari (nel senso di “capitalisti”) sono soggetti portatori di diritti. Tali modelli idealtipici, attivamente promossi da decenni e in pratica oggi pienamente realizzati grazie alle famose “riforme” chieste dall’Ue, si possono schematizzare sinteticamente come segue (traendo spunto dal lavoro di un ricercatore russo sui meccanismi di potere nella società liberale: Anton N. Oleneik, The Invisible Hand of Power, Pickering & Chatto (Publishers) Ltd, 2015):
1) il servo astuto, ambizioso, competitivo e senza scrupoli: può fare carriera, ottenere ruoli direttivi e stare tra i “privilegiati” ma deve essere disposto a sporcarsi le mani e vendere persino sua madre, se necessario;
2) il precario che non può permettersi richiami dei capi se vuole coltivare la speranza di continuare a pagare l’affitto;
3) la partita iva o la Srl costituita con un euro che lavora in outsourcing e deve vendere il prodotto commissionato: è fatta apposta per non far sapere al suo committente troppi dettagli su come prepara le salsicce nella bassa cucina. Il dipendente, ricattabile o disposto ad essere “eticamente flessibile” pur di far carriera o anche solo mettere il pane in tavola, esegue e basta, dicevamo. Chi esegue deve solo riportare l’osso quando il padrone lo desidera. Nell’ambito dei media, i padroni pagano – se occorre non badano a spese – per avere una ben precisa rappresentazione e pretendono quella rappresentazione. Quella e non altre.
Questo dovrebbe indurre anche alla riflessione su un altro tassello delle “riforme” degli ultimi anni: l’abolizione del finanziamento pubblico ai giornali e agli altri mezzi di informazione (siti, radio). Se le multinazionali e i confindustriali italiani che pagano le inserzioni pubblicitarie, i padroni dei media (magari in conflitto di interessi, come la famiglia Agnelli-Elkann) che pagano stipendi e fatture, fanno intendere univocamente di essere interessati alla «manifestazione negazionista», e a quella il pubblico è stato da giorni preparato – come quando si manipola un impasto per fare la pizza e lo si lascia a lievitare la sera prima – bisogna consegnare la rappresentazione della «manifestazione negazionista». Zero discussioni, zero chiacchiere, zero difformità nel prodotto (ad esempio, il materiale audiovisivo presentato da una società che lo vende alle testate, in presenza di difformità rispetto ai desiderata dei padroni del discorso non verrebbe acquistato). Il padrone non deve neanche sporcarsi la bocca a chiedere. Deve essere il servo astuto, sempre alla ricerca di promozioni e gratificazioni, a capire come tira il vento e quello che il padrone desidera sia pubblicato.
Dove voglio arrivare? Spero di peccare di eccessivo pessimismo ed essere, pertanto, sconfessato dai fatti tra qualche giorno. Tuttavia, è bene non farsi illusioni: temo che le pochissime interviste in cui a promotori della Marcia della Liberazione o personalità dei partiti aderenti è stato consentito di fornire una rappresentazione veritiera e corretta di sé stessi e delle loro organizzazioni – senza sgradevoli domande provocatorie infarcite di slogan preconfezionati e di incisi tendenziosi spacciati per osservazioni “oggettive”, senza etichettature infamanti, senza interruzioni o altre azioni di disturbo per il tempo minimo indispensabile ad articolare un ragionamento di senso compiuto e rispondere, spiegare le ragioni della manifestazione, presentare il programma del partito che rappresentano – (faccio riferimento, ad esempio, all’intervista rilasciata ad una rete televisiva dal nostro Presidente Stefano D’Andrea e da altre personalità del nostro partito) non saranno mandate in onda o pubblicate.
Il prodotto, secondo la logica prima esplicata, “non funziona”. Nel senso che chi lo paga non lo vuole; lo troverebbe, anzi, sgradevole (e credo non occorra dilungarsi a spiegare perché). Inoltre, il momento è delicato. Soltanto un colpo di fortuna, magari l’ingenuità o l’atto di disobbedienza di qualche operatore informativo (che per ciò potrebbe pagare un prezzo alto in termini di carriera o di sicurezza del posto di lavoro), potrebbe regalarci questa rara e (dal sottoscritto) inaspettata opportunità. L’appartenente al “clero secolare” mediatico, che «dà e toglie la parola a chi vuole» (Costanzo Preve, Il ritorno del clero, cit. pag. 25), se ha fatto carriera fino a ricoprire il ruolo di chi decide discrezionalmente la conformità alla “linea editoriale”, sa bene cosa è opportuno mandare in onda e cosa no. Questo è – a mio avviso – il motivo per il quale tutte le interviste anche in passato rilasciate da esponenti del FSI a trasmissioni televisive con diffusione nazionale e notorietà tra il pubblico non sono, finora, mai state mandate in onda. Un sovranista che argomenta con toni civili, in modo lineare, per molti spettatori magari condivisibile, è inaccettabile perché incompatibile con il frame. L’unico sovranista buono in onda deve essere il sovranista rozzo, “analfabeta funzionale” che urla frasi sconnesse. Meglio se travisabile come leghista o come fascista.
Il presente testo, oltre che sintetica analisi di un “meccanismo impersonale” ben oliato (uno dei tanti) al servizio dell’oligarchia liberale ed europeista, vorrebbe essere anche uno spunto di riflessione offerto a tutti i lettori sulla questione del funzionamento degli odierni media e dei meccanismi di condizionamento psicologico del popolo tramite l’utilizzo di tali apparati. Una questione che, a parere di chi scrive, si pone evidentemente come una delle più importanti nel tempo storico in cui viviamo – se non la più importante – per chi si interessa di politica, soprattutto se auspica un rovesciamento del paradigma liberista restaurato dagli anni ’90 del secolo scorso.
Commenti recenti