Il capitalismo non se la passa tanto male: la crisi economica non è globale
di Stefano D’Andrea
Sono anni che giornalisti economici ed economisti discorrono di “crisi globale” o di “crisi mondiale”, indagandone le cause e proponendo soluzioni. Anche gli economisti critici si interrogano sulla “crisi globale”.
La “Lettera degli economisti”, pubblicata ormai quasi due anni fa, muoveva dal presupposto che fosse in corso dal 2007, e non fosse mai terminata, una “crisi economica globale” o “crisi mondiale”; discorreva di un “un sistema economico mondiale senza una fonte primaria di domanda”; contestava chi “confida in un rilancio della crescita mondiale basato su un nuovo boom della finanza statunitense”; e considerava difficilmente realizzabile, su queste basi, “una credibile ripresa mondiale” (1).
Anche autori che hanno proposto ricostruzioni originali delle cause della crisi, hanno indagato le ragioni “della crisi” senza alcuna specificazione, lasciando intendere che si tratti di crisi del capitalismo tout court; ovvero di “crisi del neoliberismo”, inteso come teoria (o ideologia) e politica planetaria; come forma attuale – sia pure caratterizzata da “fasi” – del capitalismo (Bellofiore, La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Trieste 2012).
Tuttavia, sebbene le politiche globalizzatrici, volte ad aumentare gli scambi internazionali, comportino inevitabilmente che una crisi economica sviluppatasi in grandi economie nazionali abbia ripercussioni su economie di altre nazioni – le quali, a tacer d’altro, vedono ridurre le esportazioni – i dati sembrano suggerire che non sia in atto alcuna crisi globale e che nel “sistema economico mondiale” non vi sia alcuna carenza di domanda (perché il “sistema economico mondiale” è formula che non trova alcun riferimento concreto nella realtà). Se così stessero le cose, muovendo dal presupposto che oggi pressoché tutte le economie nazionali sono capitalistiche, se ne dovrebbe trarre il corollario che non è in corso una crisi del capitalismo. Saremmo in presenza di una crisi economica che affligge alcune grandi economie nazionali.
Consideriamo, in primo luogo, i dati relativi all’andamento del pil in alcune grandi economie negli anni 2007-2011. Poi, con riguardo al medesimo periodo di tempo, i dati relativi all’andamento del pil in alcune piccole economie; e infine verifichiamo la crescita del pil mondiale sempre con riguardo agli anni 2007-2011. I dati di seguito riportati sono tratti dalle rilevazioni della Banca Mondiale, salvo quelli, più incerti, relativi al 2011, i quali sono attinti da fonti giornalistiche di informazioni economiche.
Il Pil del Brasile è cresciuto del 2,7% nel 2011, del 7,5 % nel 2010, del 5,1% nel 2008, del 6,1% nel 2007 (soltanto nel 2009 ha avuto una decrescita dello 0,9%). Il Pil della Cina è cresciuto di circa il 9,2% nel 2011, del 10,4% nel 2010, del 9,2% nel 2009, del 9,6% nel 2008 e del 14,2% nel 2007. Il Pil dell’India è cresciuto intorno al 7% nel 2011, dell’8,8% del 2010, del 9,1% nel 2009, del 4,9% nel 2008, e del 9,8% nel 2007. Il pil della Federazione russa è cresciuto intorno al 4% nel 2011, del 4% nel 2010, del 5,2% nel 2008, dell’8,5% nel 2007 (soltanto nel 2009 è decresciuto del 7,8%).
Ora consideriamo quattro piccole economie. Il Pil del Vietnam è cresciuto del 6,8% nel 2010, del 5,3% nel 2009, del 6,3% nel 2008 e dell’8,5% nel 2007. Il pil dell’Argentina è cresciuto intorno al 9% nel 2011, del 9,2% nel 2010, dello 0,8% nel 2009, del 6,8% nel 2008, e dell’8,6% nel 2007. Il pil del Libano è cresciuto del 7% nel 2010, dell’8,5% nel 2009, del 9,3% nel 2008, e del 7,5% nel 2007. Il pil della Bielorussia è cresciuto del 7,6 nel 2010, dello 0,2% nel 2009, del 10,2% nel 2008 e dell’8,6 nel 2007.
Dunque esistono grandi nazioni e piccole nazioni le cui economie – pur subendo, talvolta, e in maniera ora più ora meno accentuata, i riflessi delle crisi di altre grandi economie nazionali – in nessun modo possono essere considerate in crisi. Presumibilmente, negli stati-nazione testé considerati non soltanto il pil cresce ma la disoccupazione diminuisce o non aumenta; le imprese che sorgono sono numericamente superiori a quelle che falliscono; il livello di insolvenza delle imprese è basso; in misura maggiore o minore, anche una parte delle fasce povere della popolazione beneficia della crescita economica e migliora le condizioni di vita.
Infine verifichiamo l’andamento del pil mondiale. La somma algebrica delle variazioni in percentuale del pil negli anni 2007-2011 (il dato per il 2011 è quello stimato dall’ocse nel gennaio 2012) è pari a 10,6 (muovendo dal 2007: +3,9; +1,5; -2,3; +4,2; + 3,3), con una crescita media di circa il 2,1% all’anno. Il valore è basso rispetto al corrispondente valore relativo ai quinquenni precedenti (16.1 negli anni 2002-2006, con una media del 3,1 circa). Tuttavia, il valore è più alto della crescita avuta in Italia e Germania nel quinquennio 2002-2006 (le somma algebriche delle variazioni del pil sono pari, rispettivamente a 4,2, e 5,1) e poco più basso di quello corrispondente relativo agli stati Uniti (11,3). Se “il capitalismo” non era in crisi negli anni 2002-2006 negli Stati Uniti, in Germania e in Italia, come è possibile asserire che è entrato in crisi nel “sistema mondo” negli anni 2007-2011?
Soprattutto, se i dati dimostrano che “il capitalismo globale” non è in crisi e che non se la passa tanto male, essi dimostrano anche che, se si depurano i dati del “sistema mondo” da quelli relativi alle economie della triade, il resto del capitalismo è in forma smagliante!
Possiamo trarre le conclusioni, riassumibili in due punti.
In primo luogo, è’ assolutamente falso che la crisi economica sia globale o mondiale. Non esiste alcuna crisi economica globale o mondiale. Le economie di molti stati-nazione, grandi o piccole, sono in grande espansione. Certo, esse sono esposte a contraccolpi derivanti da discese della produzione e dei redditi (e quindi, tra l’altro, diminuzioni delle importazioni) che si stanno verificando, e che si verificheranno, nella maggior parte delle economie degli stati-nazione rientranti nella cosiddetta triade (molti Stati Europei; Stati Uniti e Giappone). Tuttavia, le economie degli stati nazione che in questi anni vedono crescere il pil, eventualmente a ritmi sostenuti, hanno possibilità di diminuire e controllare la dipendenza dalla domanda estera degli stati nazione con economie in crisi, promuovendo programmi di opere pubbliche e introducendo barriere doganali, volte a stimolare la produzione e la domanda interna e a sostituire con quest’ultima la domanda estera. A tal proposito, il Ministro Brasiliano delle Finanze, Guido Mantega, ha recentemente dichiarato che se il Paese non subisse gli effetti della crisi europea e della lenta crescita degli Usa, «potremmo andare ancora meglio». Ed ha poi precisato: «La crisi internazionale ha avuto un impatto dallo 0,5 ad un punto percentuale sul Pil, a causa del calo della domanda esterna». Per questo, come già fanno altri Paesi della regione, in particolare l'Argentina, il Brasile «punterà come non mai sul consumo interno». Come? Con un programma di opere pubbliche e “alzando i dazi doganali” (2).
In secondo luogo, non ha alcun senso discutere di crisi del capitalismo tout court. C’è un’evidente triade-centrismo nella impostazione che contestiamo. Al più, siamo in presenza di crisi delle forme che il capitalismo di molti paesi della triade ha assunto senza valutare attentamente lo sviluppo e la concorrenza delle economie di molti stati-nazione che, al contrario, stanno emergendo velocemente. Forme pensate per lo sfruttamento delle economie di altri stati-nazione (o comunque per vincere la competizione), si stanno rivelando un boomerang per i lavoratori subordinati, i lavoratori autonomi e gli imprenditori di molti stati-nazione della triade (non per i gestori e i detentori del grande capitale finanziario o per i gestori e detentori del grande e medio capitale produttivo deglobalizzato, liberi – proprio per le forme che i paesi della triade hanno dato al loro capitalismo – di ottenere vincite, rendite e profitti in ogni luogo della terra). Il capitalismo non se la passa tanto male; e quello di moltissimi stati-nazione è in forma smagliante! Può dispiacere ma le cose stanno così.
(1) http://www.letteradeglieconomisti.it/
(2) http://www.lettera43.it/economia/macro/34832/pil-brasile-supera-italia-e-punta-alla-francia.htm
Cioé la causa della nostra crisi è da cercare nell'insieme di regole che ci siamo voluti dare. Ma allora perché non si introducono delle modifiche che ci aiuterebbero ad uscirne? Bisognerà aspettare di toccare il fondo e accendere le torce per bruciare tutto. Ha senso tutto questo?
No, non ha senso.
Tuttavia potenti forze spingono nella direzione che abbiamo intrapreso. Intanto l'interesse dei detentori e gestori del grande capitale finanziario e industriale disposto a (o desideroso di) delocalizzare; poi il "sogno europeo", che è presente davvero nelle menti dei cittadini, degli amministratori, dei politici e dei dirigenti, che di per sé ormai costituisce un problema; poi nel fatto che la soluzione sta nel tornare indietro (per esempio, sarebbe già un bel passo avanti, tornare al vecchio mercato comune senza moneta unica e distruggere il mercato unico europeo) ma è difficile che ci sia qualcuno disposto a tornare indietro. Io scrissi un articolo che si intitolava "I socialisti devono sinceramente e felicemente considerarsi reazionari", per esprimere questo concetto – invece tutti oggi se abbandonano una strada e per sceglierne un'altra nuova, anche se non si sa cosa sia. Quindi, la direzione da intraprendere sarebbe quella opposta rispetto a quella seguita: protezionismo anziché globalismo; dirigismo anziché mercatismo; risparmio e comunque nessun indebitamento (delle famiglie) anziché consumo a debito; moneta nazionale anziché moneta comune; ecc. ecc. E' obiettivamente difficile che ciò accada, fino a quando si arriva in fondo alla strada e ci si avvede che essa è una strada chiusa, senza uscita.
Una cosa che mi lascia fortemente perplesso è questa idea che ci sia un disegno intelligente dietro alle scelte economiche che vengono fatte.
Penso alle banche che si sono fatte modificare le leggi dai governi, poi sono andate in crisi, quindi si sono fatte salvare dagli stati e adesso li strozzano per via del debito. Detta potrebbe anche sembrare una strategia geniale pensata anni fa.
Oppure la scelta di fare un grande mercato globale: gli industriali vogliono produrre in luoghi in cui sosta meno, i governi acconsentono abbattendo le dogane, si sposta la produzione, si alza la disoccupazione nei paesi in cui l'industriale vorrebbe vendere, scatta la crisi per tutti.
Ho più l'impressione che siano delle scelte fatte di volta in volta per risolvere il problema contingente in una maniera che vada a favore della lobby di turno che influenza le scelte dei governi. Se fosse veramente così saremmo a bordo di un'auto senza conducente e adesso, dopo aver striciato un paio di volte il guardrail, stiamo aspettando di schiantarci contro qualcosa. Però d'altra parte vuol dire che il sistema di per sé funziona, ma che ci vorrebbe un governo che lavori per favorire la propria popolazione e non le lobby.
Credo che lei sia in errore. Il capitalismo è veramente giunto ai suoi limiti storici. Gli economisti classici (in particolare Smith, Malthus, Ricardo e Stuart Mill) sono stati gli unici ad aver previsto che lo sviluppo del capitalismo avrebbe incontrato il suo limite invalicabile nei rendimenti decrescenti della terra coltivabile nonchè nella sua limitatezza fisica, e quindi nei costi crescenti dei prodotti agricoli. Stuart Mill estese questo principio anche alle miniere, in particolare a quelle di carbone. L'esperienza, infatti, mostrava chiaramente che tali miniere, all'epoca già in pieno sfruttamento, non solamente erano destinate ad esaurirsi ma, anche quando non mostravano segni di esaurimento, dovevano essere lavorate a costi crescenti e, pertanto, la legge dei rendimenti decrescenti si applicava anche ad esse. Stuart Mill aveva quindi intuito, in maniera molto semplice ed empirica, che lo sfruttamento di una miniera di carbone richiedeva una quantità di energia crescente rispetto a quella che poi veniva ottenuta dal carbone estratto. Sono stati questi geniali pensatori i primi ad aver compreso ed evidenziato l'importanza del "contenitore geografico" e quindi "fisico" in cui si svolge l'attività economica e i determinanti limiti e condizionamenti che esso può porre a tale attività, al suo sviluppo e alla sua evoluzione verso un determinato probabile esito finale.
I giacimenti di energia fossile, in particolare del petrolio e del gas, hanno alimentato per più di un secolo lo sviluppo del capitalismo. Solo grazie alla gigantesca bolla di energia fossile contenuta nelle viscere della terra è stata resa possibile una così spettacolare espansione delle attività economiche. Ma proprio agli inizi del secolo questa bolla di energia, ancora prima di entarre in fase di decrescita per esaurimento dei giacimenti, ha raggiunto la sua massima espansione in termini di energia netta (EROEI) e cioè di rapporto tra energia impiegata per l'estrazione dei conbustibili fossili e quella ottenuta dagli stessi nel loro impiego, e sta manifestando forti rendimenti decrescenti. Come previsto da Stuart Mill per le miniere di carbone anche i giacimenti di petrolio e di gas a livello globale soggiacciono quindi alla legge dei rendimenti decrescenti (e quindi dei costi crescenti del prodotto) prima ancora di giungere al loro esaurimento. I rendimenti decrescenti dell’energia fossile non sono un’opinione ma un dato scientifico inoppugnabile. L’Eroei del petrolio è infatti in fortissima diminuzione e l’energia netta disponibile è in irreversibile decrestita ancor prima che la produzione mondiale di combustibili fossili sia entrata in fase declinante. I rendimenti decrescenti dell’energia fossile stanno incominciando a dispiegare i loro devastanti effetti sulle strutture portanti dell’economia mondiale globalizzata.
Perciò, la crisi dell’attuale sistema economico, basato sulla crescita indefinita, finora consentita dall’abbondante disponibilità di energia fossile a basso costo, è irreversibile e l’attività economica si avvia verso una spettacolare contrazione che destabilizzerà i sistemi politici e sociali del pianeta e avrà effetti devastanti sulle possibilità di sussistenza di gran parte della popolazione mondiale.
I marxisti neosmithiani, seguendo gli economisti classici, hanno chiaramente ribadito che il capitalismo globalizzato trova i suoi invalicabili limiti di sviluppo nei rendimenti decrescenti delle risorse naturali. Giovanni Arrighi nel libro "Adam Smith a Pechino" (pag. 84-86), spiega che si ha una trappola malthusiana di basso livello quando, per bassi livelli di reddito pro capite, il tasso di crescita della popolazione è superiore al tasso di crescita del reddito impedendo così lo sviluppo economico. Arrighi mostra chiaramente che se si riesce a sfuggire alla trappola malthusiana attraverso un miglioramento della produttività in virtù di un miglioramento delle tecniche di produzione, che permette un tasso di crescita del reddito superiore al tasso di crescita della popolazione, si avrà prima o poi, per alti livelli di reddito pro capite, una trappola smithiana di alto livello a causa dei rendimenti decrescenti della terra e cioè delle risorse naturali, compresi i combustibili fossili, come sta accadendo attualmente. Tutto ciò condurrà innanzitutto ad uno stato stazionario, un plateau in cui reddito e popolazione avranno lo stesso tasso di crescita e, successivamente, a un tasso di decremento del reddito superiore al tasso di crescita della popolazione , con inevitabile decrescita della medesima.
L'attuale capitalismo, (cioè, sostanzialmente, quello oggetto dell'analisi marxiana) presenta, in estrema sintesi, tra le sue caratteristiche fondamentali, uno sviluppo su basi di mercato, con elevati consumi di energia, alta intensità di capitale e bassa intensità di lavoro nonchè una subordinazione dell'interesse della collettività agli interessi del capitale, sopratutto finanziario. Al contrario il capitalismo teorizzato dal Smith, nella versione filologicamente rigorosa del suo pensiero fornita da Arrighi, in contrapposizione a quella volgare propagandata dagli economisti che fanno riferimento al paradigma dominante, è il capitalismo giunto all'inevitabile fine del suo sviluppo e cioè al cosiddetto stato stazionario; un'economia di mercato non capitalistica (in base all'assunto di Fernand Braudel che sia necessario distinguere capitalismo ed economia di mercato e che lo sviluppo su basi di mercato possa definirsi capitalistico non perchè caratterizzato dalla presenza di istituzioni e disposizioni capitalistiche ma per la relazione fra potere dello Stato e capitale) che sarebbe caratterizzata fondamentalmente da uno sviluppo economico con basso consumo energetico, bassa intensità di capitale ed alta intensità di lavoro nonchè da una concezione del mercato come strumento dello Stato indispensabile a perseguire efficacemente gli interessi della comunità, evitando così la subordinazione degli interessi collettivi agli interessi del capitale. Caratteristiche proprie di un sistema economico dello stato stazionario, che Arrighi sembra ritenere l'unica alternativa realistica all'attuale sistema economico, che oramai ha, con tutta evidenza, raggiunto i suoi limiti di sviluppo. L'avverarsi dei rendimenti decrescenti delle risorse naturali coglie l'economia occidentate in un fase particolare, quella della globalizzazione neoliberista. In questa fase, in presenza di consumatori – lavoratori con redditi decrescenti a causa delle massicce delocalizzazioni produttive nei paesi con un costo del lavoro molto più basso, l’unica maniera di far andare avanti l’economia occidentale è stata quella di favorire l'espansione dei consumi a mezzo di una smisurata espansione dell’indebitamento privato. I rendimenti decrescenti delle risorse naturali, manifestatisi platealmente all'inzio di questo secolo con la costante crescita dei prezzi del petrolio, hanno semplicemente messo fine al gioco, per sempre. L'aumento generalizzato dei prezzi ha, infatti, destabilizzato il fragile equibibrio basato sul consumo a credito, mettendo in crisi il sistema finanziario allorquando i consumatori non hanno più potuto sostenere i propri consumi se non con la concessione di ancora più credito a tassi più elevati.
E poichè ogni tentativo di ripresa dei consumi e quindi della produzione porta inevitabilmente a sempre più elevati aumenti del prezzo del petrolio e quindi dei prezzi in generale, i consumatori continueranno a non disporre di redditi sufficienti per consumare e le imprese a non produrre profitti. E, naturalmente, questo significa la fine del sistema finanziario e dell'economia capitalistica in generale.
Nei paesi emergenti, invece, che sono ancora in piena accumulazione capitalistica, i costi crescenti del petrolio non costituiscono ancora un freno alla crescita economica perchè il costo del lavoro e il costo dello stato sociale non hanno ancora raggiunto i loro asintoti e pertanto consentono ancora una crescita sostenuta. Tra qualche anno anche loro raggiungeranno il limite dello sviluppo visto che, allora, i costi del petrolio saranno veramente proibitivi anche per un paese con costi del lavoro e dello stato sociale molto bassi.
Il 2013 sarà, molto probabilmente, l’anno in cui cominceranno a manifestarsi i segni inequivocabili del collasso sistemico, sopratutto dell'iperconsumistico capitalismo americano.
Troppe previsioni direi. Non amo prevedere cicli lunghi. Penso in termini di sei o sette anni; e il mio è un pensiero politico.
L'articolo riguardava il presente e diceva: guardate che non è in corso alcuna crisi globale; molti popoli non sono mai "cresciuti" come stanno crescendo adesso; sono nella fase di massima spansione della "crescita"! E se non c'è la crisi globale, allora vuol dire che in questo momento il capitalismo non è in crisi. Non è in corso la crisi del capitalismo del sistema mondo.
Lei prevede che tra un certo tempo, magari breve o brevissimo, la crisi ci sarà? Ha studiato autori che hanno previsto il futuro o hanno scoperto leggi credute eterne universali e senza eccezioni? Può darsi che abbia ragione. Può darsi che abbiano ragione. Però non può dire che io ho sbagliato. Non lo può dire perché non ho detto che la crisi del capitalismo non ci sarà. Ho detto che non è in atto; che adesso, in questo momento, non c'è. E' una scoperta importante, perché taglia le gambe a tanti libri ed articoli dedicati a descrivere la crisi in corso del capitalismo. Una crisi che ancora non c'è; che non è in corso
Ciao stefano ho letto l'articolo e le 2 lettere che hai postato, vorrei sapere che ne pensi della MMT (Modern Money Theory); il primo in Europa (e in Italia naturalmente) a darne spazio è stato Paolo Barnard. A presto.
Alessandro, benvenuto.
I concetti espressi negli articoli che ho letto e negli interventi espostio in video mi persuadono. Alcuni profili (almeno apparentemente) tecnici mi interessano meno, come l'affermazione che le imposte sono richieste dallo Stato per far accettare la moneta. Per quanto riguarda l'inflazione, non soltanto mi sembra ovvio che di per sé la spesa pubblica non produca inflazione (loro dicono che la produce soltanto raggiunto il livello dipiena occupazione), ma non ho il terrore dell'inflazione e credo che avremmo "bisogno" di un'inflazione all'8% e di un meccanismo di scala mobile (o adeguamenti per legge a fine anno. Insomma un certo livello di inflazione non mi terrorizza, anzi.Tuttavia il programma contenuto nel Documento di Analisi e Proposte dell'Associazione Riconquistare la Sovranità prevede la riconquista della sovranità monetaria e una autonoma politica espansiva, due cardini della politica economica sostenuta dalla mmt. Certo non so cosa pensino i sostenitori della mmt sul protezionismo e sulla limitazione della libera circolazione dei capitali. Sono però contento che alcuni giovani che partecipano ai gruppi regionali della MMT abbiano aderito all'associazione e che tra essi vi sia anche uno dei più stretti collaboratori di Barnard.