Il mito consolatorio del regno felice
di GIAMPIERO MARANO (RI Varese)
Una delle piaghe da cui è afflitta l’Italia meridionale ha un’origine psicologica, oltre che storica, e consiste nella vergogna di sé, nella sudditanza culturale nei confronti del Nord o meglio, di ciò che si presume sia il Nord.
L’aspetto peculiare, e forse il compito, del revanscismo neoborbonico sta proprio nell’incanalare un disagio antico e terribile ribadendo sistematicamente tale subalternità, benché rovesciata di segno. Intendo dire che il sudismo non contesta per nulla il modello “settentrionale”, a sua volta periferico rispetto a quello europeo e occidentale. Non mette in dubbio che i pregi più invidiabili di una nazione derivino unicamente dalla modernizzazione economica, industriale, tecnologica ecc. Il gioco (a perdere) dei sudisti è semmai, riguardo all’interpretazione “ufficiale” e “italiana” dei fatti storici, quello di elaborare una contro-immagine del Meridione che ne “padanizza” il passato. Ma che si spinge, in verità, anche oltre la padanizzazione.
Nelle fantasie disperate di Antonio Ciano, per esempio, il Regno delle Due Sicilie diventa addirittura oggetto di una trasfigurazione edenica: “Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: dappertutto scuole gratis, teatri, opere di ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo. Non c’era disoccupazione. Era nato il primo stato interclassista, il primo stato socialista, il primo stato illuminato del mondo”.
Estrapolo la citazione dal bel libro di Pino Armino, Il fantastico regno delle Due Sicilie, edito quest’anno da Laterza (133 pagine, 14 euro). In dieci agili e documentati capitoletti Armino smonta uno per uno tutti i miti neoborbonici: il Risorgimento come genocidio del popolo meridionale; la Massoneria inglese regista occulta dell’impresa dei Mille; i giudizi pesantemente diffamatori su Garibaldi, Pisacane e Mazzini e, di contro, l’idealizzazione sperticata dei briganti; il saccheggio del Regno di Napoli (ovviamente ricco, industrializzato e colto) a opera degli avidi invasori Piemontesi; l’emigrazione come conseguenza dell’Unità. Quanto ai presunti “primati” dello Stato borbonico rispetto al resto dell’Italia, Armino ne certifica soltanto quattro sui venti e passa rivendicati (in modo un po’ infantile) dai sudisti: la prima cattedra di economia, il primo museo mineralogico, la prima linea ferroviaria, la prima nave a vapore.
La verve polemica non impedisce però all’autore di sottolineare con forza come politiche serie di sviluppo del Sud siano state efficacemente promosse soltanto molti anni dopo l’unificazione nazionale, e cioè con l’avvento della Repubblica: “L’intervento pubblico straordinario degli anni ‘60 produsse la prima (e ultima) significativa inversione di rotta con il PIL pro-capite meridionale cresciuto sino al 66% di quello settentrionale (…) A partire dagli anni ‘80 la fine della politica di investimenti nel Mezzogiorno ha comportato nuovamente l’allargamento della forbice tra il Nord e il Sud Italia e oggi ci dirigiamo nuovamente verso i massimi segnati durante il fascismo”. Per questa ragione, conclude Armino, al Sud “serve una nuova, grande stagione di investimenti pubblici”.
Meno condivisibile, invece, l’affermazione secondo cui, assodato che “le bugie neoborboniche sono spesso così rozze da non poter essere semplice frutto dell’ignoranza”, nel revanscismo meridionale siano attive maligne componenti antieuropeiste che intenderebbero disintegrare l’unità nazionale per intralciare l’integrazione continentale. Le cose stanno davvero così? Non è invece la proiezione sovranazionale dell’europeismo a dare l’abbrivio ai movimenti secessionisti, che vi hanno sempre visto un’occasione ghiotta per raggiungere il proprio obiettivo?
Commenti recenti