2. Un breve commento agli artt. 2, 4, 5 e 6 del D. L. 6 giugno 1956, n. 476
La circolazione dei capitali
Questo post costituisce il seguito di Un provvedimento normativo cinese, bielorusso o fascista?
2 Un breve commento agli artt. 2, 4, 5 e 6 del D. L. 6 giugno 1956, n. 476
Merita svolgere una breve esegesi degli artt. 2, 4, 5 e 6 del D. L. 6 giugno 1956, n. 476, perché non si può afferrare la ragion d’essere di una disciplina prima di averne ricostruito, almeno nelle linee essenziali, il contenuto. Per la medesima ragione, sarà necessario svolgere i principali collegamenti sistematici, con altre disposizioni della medesima fonte e con ulteriori disposizioni normative, appartenenti all’ordinamento italiano e generate da altre fonti. Per il momento considereremo soltanto l’ordinamento nazionale, escluse le norme introdotte in esso mediante ratifica di trattati internazionali.
La regola posta dall’art. 2 vietava al residente tutti gli atti idonei a produrre obbligazioni. Il residente non soltanto non poteva accettare proposte (di contratti di appalto, fideiussione, mandato, assicurazione, locazione, trasporto, ecc.) provenienti da non residenti; non poteva nemmeno inviare proposte senza aver previamente ottenuto l’autorizzazione ministeriale: una eventuale accettazione avrebbe dato luogo alla violazione del divieto (la dottrina anzi tendeva a configurare la violazione del divieto nel semplice invio della proposta; ed effettivamente, almeno nei casi in cui fosse configurabile il tentativo di un reato, l’opinione era fondata). La regola era estesa dall’art. 6 anche alle “cessioni, gli acquisti e ogni altro atto di disposizione fra residenti e non residenti, concernenti i titoli di credito di qualsiasi specie”. L’art. 6 chiariva che l’autorizzazione serviva non soltanto per assumere obbligazioni cartolari (fondate su titoli di credito) – come si ricavava già dall’art. 2 – bensì anche per trasferire diritti cartolari.
Per escludere il dubbio circa la riconducibilità del peculiare contratto di società nella categoria degli gli atti idonei a produrre obbligazioni ai sensi dell’art. 2, l’art. 5, comma 1° vietava ai residenti il possesso di quote di partecipazione di società aventi la sede fuori dal territorio della repubblica nonché il possesso di titoli azionari ed obbligazionari emessi o pagabili all’estero se non in base ad autorizzazione ministeriale. Ottenuta l’autorizzazione il residente aveva l’obbligo di dichiarare le partecipazioni e i titoli alla Banca d’Italia e di depositare i titoli ai sensi del 3° comma dell’art. 5.
Cosa doveva intendersi per possesso di partecipazioni e titoli? La disposizione era intesa nel senso che il residente era destinatario del divieto di acquistare (il possesso) senza autorizzazione. Il divieto era dunque molto ampio: riguardava le quote di società personali e le quote (e le azioni) di società di capitali; l’acquisto originario (al momento della costituzione della società) e quello successivo, mediante trasferimento; e il trasferimento per contratto come per successione mortis causa. La disposizione inoltre non riguardava soltanto l’acquisto del residente dal non residente ma anche quello del residente dal residente.
Quali erano le conseguenze giuridiche della violazione dei divieti di porre in essere atti idonei a produrre obbligazioni tra residenti e non residenti, atti di trasferimento di diritti cartolari (fondati su titoli di credito) tra residenti e non residenti, atti di acquisto di partecipazioni di società aventi sede fuori dal territorio della Repubblica, nonché atti di acquisto di titoli azionari o obbligazionari emessi o pagabili all’estero, senza aver previamente chiesto ed ottenuto la (e quindi, eventualmente, nonostante il diniego della) prevista autorizzazione ministeriale?
L’art. 15 del D. L. 6 giugno 1956, n. 476 prevedeva che “Salva l'applicazione delle norme penali, a coloro che effettuano operazioni in violazione del presente decreto-legge si applicano le sanzioni determinate con decreto del Ministro per il tesoro di cui al R.D.L. 5 dicembre 1938, numero 1928, convertito nella L. 2 giugno 1939, n. 739, e successive modificazioni”. Dunque sanzioni amministrative e, se il fatto costituiva reato o era parte di una fattispecie di reato, sanzioni penali. Peraltro, come sempre accade in casi simili, in dottrina non vi era accordo circa la qualifica privatistica (di diritto privato) da attribuire ai contratti costitutivi o traslativi vietati, compiuti senza le prescritte autorizzazioni. Per alcuni i contratti erano validi ed efficaci. Per altri i contratti erano sempre nulli perché contrari a norma imperativa o inefficaci, perché mancanti di un presupposto di efficacia. Per altri ancora erano nulli soltanto se la condotta di entrambe le parti dava luogo ad un illecito penale (reato). La giurisprudenza accoglieva ora l’uno ora l’altro orientamento. L’orientamento più severo da prevalente che era inizialmente divenne con il tempo recessivo.
La giurisprudenza e la dottrina costituiscono un potente strumento di diffusione e supporto delle ideologie dominanti. Lo statalismo, prevalente ancora fino a tutti gli anni settanta, venne pian piano sostituito dal neoliberismo. Nella nostra materia dà prova dei mutamenti ideologici intervenuti una fondamentale raccolta di scritti di giuristi anche molto autorevoli datata 1981: pochi autori (quelli veramente autorevoli) mantengono un atteggiamento distaccato e si limitano all’esegesi e alla interpretazione sistematica (al più dispiacendosi del diritto vigente e ammettendo onestamente il contrasto tra la propria valutazione e quella dell’ordinamento); i più tendono a superare la lettera delle disposizioni, a dare prevalenza alle fonti internazionali con chiara forzatura dei dati e persino a contestare il fondamento costituzionale della disciplina, trascurando molteplici norme costituzionali, che forse la rendono addirittura obbligatoria (2). Ma di tutto ciò diremo in modo analitico nel seguito.
La regola che richiedeva l’autorizzazione per compiere atti idonei a produrre obbligazioni era derogata per le vendite di merci per l'esportazione nonché per i contratti di acquisto di merci per l'importazione. Con riguardo a questi contratti al legislatore era parso inopportuno pretendere una autorizzazione preventiva. Il “residente” poteva proporre o accettare proposte volte a concludere contratti di vendita per l’importazione o l’esportazione di merci. Una volta concluso il contratto, sorgeva l’obbligo del residente di chiedere l’autorizzazione ministeriale: “Ai residenti è fatto divieto di effettuare esportazioni ed importazioni di merci se non in base ad autorizzazioni ministeriali”. In caso di esecuzione del contratto di importazioni ed esportazioni, senza la prescritta autorizzazione, certamente si applicavano le sanzioni richiamate dall’art. 15 del D. L. 6 giugno 1956, n. 476; mentre, sotto il profilo privatistico, la qualifica doveva essere quella dell’inefficacia dell’atto per mancanza di una condizione prevista dalla legge (l’autorizzazione successiva è evento futuro e incerto); con conseguente possibilità di ottenere la restituzione della prestazione eseguita. Insomma il contratto era valido ma non efficace (3).
Infine, giova chiarire che nel (sotto)sistema valutario il concetto di residenza non coincide con quelli accolti in altri sotto-sistemi dell’ordinamento italiano (e che sono diversi tra loro). L’art. 1, primo comma, del D. L. 6 giugno 1956, n. 476 prevedeva che “Agli effetti del presente decreto-legge sono considerati residenti: 1) le persone fisiche di nazionalità italiana aventi la residenza nel territorio della Repubblica; 2) le persone giuridiche aventi la sede nel territorio della Repubblica; 3) le persone fisiche di nazionalità straniera e gli apolidi aventi la residenza nel territorio della Repubblica, limitatamente all'attività produttrice dei redditi ivi esercitata; 4) le persone fisiche di nazionalità italiana, aventi la residenza all'estero, limitatamente all'attività produttrice di redditi esercitata nel territorio della Repubblica; 5) le persone giuridiche aventi la sede all'estero, limitatamente all'attività produttrice di redditi esercitata nel territorio della Repubblica” (continua).
NOTE
(2) A.A.V.V., Il sistema valutario italiano, a cura di Francesco Capriglione e Vincenzo Mezzacapo, voll. I, L’ordinamento valutario, e II, La gestione valutaria, Milano, 1981
(3) Ma in dottrina si giungeva a sostenere la tesi della nullità per mancanza della “causa in concreto” (OPPO, Ordinamento valutario e autonomia privata, in AA.VV. Il sistema valutario italiano, I, cit., p. 357).
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