Ricciotti e altri eroi dimenticati del Risorgimento (2)
Il presente articolo costituisce seguito e parte integrante del precedente “Ricciotti e altri eroi dimenticati del Risorgimento (1)”
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Nicola uscì dal carcere nel marzo del 1831, quando Gregorio XVI decise di esiliarlo in Corsica. Nell’isola ebbe a che fare con soldati francesi massoni, circostanza che gli procurò, essendo lui stesso affiliato alla Massoneria dal 1820, la conoscenza del rivoluzionario Giovanni La Cecilia, carbonaro e massone, stretto collaboratore di Mazzini.
Fu così che Ricciotti poté conoscere personalmente l’apostolo del Risorgimento e venire direttamente a contatto con le idee di quest’ultimo.
Presto Nicola riuscì a rientrare in Italia, alla ricerca dei vecchi contatti. A Cesena ritrovò l’ex compagno di cella Fattiboni. A gennaio del 1832 raggiunse il fratello Domenico a Roma.
Domenico Ricciotti, già nel 1824 fu trasferito per motivi di salute da Civita Castellana a Castel Sant’Angelo, dove divenne il capo dei detenuti politici. Riottenuta la libertà, nel 1830 aprì una bottega e si mise subito in contatto con i patrioti romani, intraprendendo un intensa attività di proselitismo.
La presenza di Nicola a Roma nel 1832 fu determinante per l’introduzione degli ideali repubblicani nell’ambiente romano. In una riunione a casa di Domenico, i patrioti romani accettarono a maggioranza il programma mazziniano.
Lo stesso Nicola, sul finire dell’anno a Marsiglia e alla presenza di Mazzini, aderì alla Giovine Italia. Adottò lo pseudonimo di Botzaris (in memoria di Marco Botzaris, rivoluzionario greco morto nel 1824).
Sempre a Marsiglia, nel 1833, Nicola conobbe Garibaldi.
Nello stesso anno, ad Ancona, organizzò autonomamente un tentativo insurrezionale senza successo.
Nel 1834, in contemporanea con i tentativi di Mazzini in Savoia e di Garibaldi a Genova, organizza dei moti in Abruzzo, dove poteva contare sulla presenza di Luigi e don Nicola Marcocci, suoi parenti e vecchi sodali, che nel frattempo avevano tessuto una rete di contatti a Teramo.
Dopo il fallimento di Mazzini e Garibaldi, è costretto a tornare a Marsiglia, senza dar corso ai suoi propositi in Abruzzo.
Grazie ad importanti amicizie ai vertici del governo francese, riuscì ad ottenere una raccomandazione per potersi recare in Spagna e combattere contro i carlisti. Il suo proposito era quello di ricevere una vera formazione militare, specializzandosi in particolare nell’arte della guerriglia.
Fu nominato tenente del I battaglione franco dei Tiratori di Navarra.
In Spagna raggiunse in breve tempo i più alti gradi militari combattendo con valore. Fu ripetutamente ferito e catturato, riuscendo sempre a sfuggire e a combattere nuovamente. Trovandosi come unico superstite del battaglione dei Tiratori, dapprima addestrò un gruppo di indios, poi riuscì a ricostituire una sua squadra composta da 13 italiani, tra i quali Francesco Alzani, Enrico Cialdini, Nicola Fabrizi di Modena, Manfredo Fanti e Giuseppe Napoleone Ricciardi.
Il pensiero ricorrente di Nicola, in questo periodo, era la rivoluzione italiana, da compiere con le medesime tecniche insurrezionali sperimentate in Spagna.
Dopo essere stato decorato al valore, nel 1841, il Nostro si congedò con il grado di comandante e si diresse alla volta dell’Italia, dove – rifornito di documenti falsi dal cugino Domenico – toccò tutti i centri in cui beneficiava di supporto logistico. Fu ad Acquapendente, accolto dal vescovo Nicola Belletti (zio della moglie di suo cugino Domenico) ignaro della sua vera identità. Quindi, vestito da frate, si recò a Roma presso il fratello Domenico, a Teramo presso i fratelli Marcocci, a Ravenna presso Luigi Bianchi e la nipote Domenica Vittoria Ricciotti, a Terni presso Ludovico Sconocchia e la nipote Rosa Ricciotti, e ad Ancona presso il cugino Pietro Ricciotti.
Nel 1843 si recò a Parigi presso Giuseppe Lamberti, quindi a Londra presso Giuseppe Mazzini, quale indiscusso capo militare. Con il profeta, memore dei fallimenti dei moti del 1821 e di quelli a cavallo tra il 1831 e il 1834, condivideva l’idea di una serie di piccole sollevazioni da organizzare contemporaneamente in più luoghi della Penisola.
Dopo le passate esperienze fallimentari era attentissimo a non tralasciare nessun dettaglio prima di dar vita ad una rivoluzione sul campo.
Di ritorno in Italia nel marzo del 1844, nuovamente rifornito di documenti falsi dal cugino, evitava di lasciare tracce scritte per non palesare la sua presenza. Si serviva delle nipoti Rosa e Domenica Vittoria come corrieri tra la Romagna e il Lazio.
Tuttavia, fu tradito e tratto in arresto mentre si trovava a Marsiglia, dove perse tutti i suoi soldi. Espulso in Inghilterra, tornò a Londra dal Mazzini, presso il quale apprese dei propositi rivoluzionari di due giovani fratelli veneziani: Attilio ed Emilio Bandiera.
Di fronte all’impossibilità di attraversare nuovamente l’Italia internamente senza essere intercettato, maturò l’idea di raggiungere le coste adriatiche via mare, passando per lo stretto di Gibilterra.
Come agente indipendente della Giovine Italia, in qualità di capo militare, seguì i suoi propositi e salpò alla volta dell’Italia. Giunto a Corfù, il 5 giugno del 1844, invece di dirigersi subito verso Ancona secondo i piani, attese qualche giorno.
Nell’isola greca si trovavano alcuni esuli italiani tra cui i fratelli Bandiera, disertori dell’esercito austriaco.
Da una nota di Attilio Bandiera al Mazzini sappiamo che Ricciotti aspettava una lettera durante la sua permanenza a Corfù. La lettera avrebbe dovuto contenere importanti istruzioni sui luoghi da raggiungere e sugli abboccamenti previsti dopo lo sbarco atteso in Ancona.
La lettera arrivò per mano di Rosa Ricciotti – la figlia ventiquattrenne di Domenico Ricciotti – che si imbarcò in compagnia del marito in una delle navi che trasportavano il grano tra la Grecia e la Puglia. La giovane donna per evitare la Casilina, continuamente percorsa dalla polizia, attraversò le paludi pontine dove contrasse la malaria. Morì l’anno seguente a causa delle febbri malariche.
Nicola apprese dalla lettera dell’impossibilità di muoversi secondo i piani, e quindi dovette per l’ennesima volta desistere dai propositi iniziali. Fu probabilmente questa la ragione che spinse il rivoluzionario ad unirsi al gruppo capeggiato dai Bandiera.
I due fratelli avevano appena scelto di partire verso Cosenza nell’errata convinzione di trovare un gruppo di liberali pronti alla sollevazione (nel marzo dello stesso anno a Cosenza era scoppiata una rivolta che portò alla condanna a morte di 21 persone coinvolte).
Per parte sua, Ricciotti ritenne di poter offrire la sua perizia militare al servizio di un gruppo di giovani coraggiosi ma inesperti di tecniche di guerriglia; prese il comando militare della spedizione, ma non riuscì a frenare l’irruenza e la giovanile incoscienza di Attilio Bandiera.
Il giovane veneziano – avendo la maggioranza del gruppo dalla sua parte – volle procedere verso Cosenza nonostante la notizia della fine della rivolta appresa dopo lo sbarco sulle coste calabresi. Diversamente, Nicola intendeva puntare prima su Crotone. Quest’ultima infatti non aveva i dispiegamenti militari di Cosenza, blindata in seguito al moto represso nel mese di marzo. Un primo e più probabile successo su Crotone avrebbe consentito al gruppo di acquisire rinforzi essenziali.
A far precipitare la situazione concorse il tradimento del corso Pietro Boccheciampe, il quale – certo del fallimento – preferì salvare la propria pelle denunciando i compagni.
Dopo un breve conflitto a fuoco con le guardie borboniche, il gruppo fu catturato. La corte marziale condannò a morte i superstiti dello scontro: i fratelli Bandiera, Nicola Ricciotti, Giovanni Venerucci, Anacarsi Nardi, Giacomo Rocca, Domenico Moro, Francesco Berti e Domenico Lupatelli.
L’esecuzione avvenne il 25 luglio del 1844 nella contrada Vallone di Rovito. Nicola venne colpito alla bocca mentre gridava Viva l’Italia.
Il Mazzini, che vedeva in Ricciotti un’importante arma, commentò l’accaduto scrivendo che “la catastrofe dei Bandiera e Ricciotti […] m’ha empito l’anima di tale amarezza che non ho provato da un pezzo”.
I martiri di Vallone di Rovito (al centro N. Ricciotti)
Emilio Bandiera, in un’ultima drammatica lettera ai genitori, espresse un cocente senso di colpa cercando di riabilitare il nome di Ricciotti: “La morte è all’uomo inevitabile, val meglio dunque incontrarla per ciò che la coscienza fa credere onesto e virtuoso è […] Muoio contento; ciò solo che mi rincresce si è che il soverchio mio ardore trascinò forse nell’estrema rovina questi illustri disgraziati che mi fanno corona, e più di tutti Nicola Ricciotti, onore, speranza e conforto dell’Italia derelitta. […] Questa lettera vi sarà permesso, o miei genitori, far pubblica come l’ultima che dai vostri ricevete. Perciò vi preghiamo di attestare all’Italia ed al mondo intero, che N. Ricciotti non ebbe parte alcuna alla sciagurata determinazione che ci condusse a morte. Giunto appena in Corfù e diretto da tutt’altra parte, cedette ad un’amicizia breve di tempo, ma veemente d’affetto; invitato da noi, con noi volle dividere gloria o pericolo. Beneditelo miei cari, poiché i vostri figli saran morti nelle sue braccia, col solo dolore, ripeto di avergli dimandato una tanto triste prova di fratellanza. L’ultima preghiera che vi addrizziamo si è di fare risuonare più che sia possibile questa solenne verità” (in Riccardo Pierantoni, Storia dei fratelli Bandiera e loro compagni in Calabria. Milano, Cogliati, 1909., pagg. 501 e 502).
La spedizione calabrese divenne il simbolo stesso del coraggio e della lotta per la libertà, infondendo nell’animo di tanti giovani patrioti la spinta all’azione e al sacrificio. Tanto è vero che nel settembre del 1860 Nino Bixio schierò il suo esercito di fronte ai resti mortali dei caduti di Cosenza, pronunciando le seguenti parole: “soldati della rivoluzione italiana, soldati della rivoluzione europea, noi che non ci inchiniamo che davanti a Dio e a Garibaldi, noi ci inchiniamo dinnanzi alle ossa di Nicola Ricciotti, dei fratelli Bandiera e di tutti i fucilati loro compagni che sono i nostri santi” (in A. Fortuna, Nella inaugurazione de monumento a Nicola Ricciotti, martiri e patrioti della Regione”, numero unico della Nuova Gazzetta Latina, Frosinone 9 ottobre 1910, pag. 14).
Il risveglio del popolo oppresso avvenne dunque per un’azione isolata, impulsiva e apparentemente insensata, in grado di scavare in profondità nelle coscienze, di far riscoprire la strada per l’autodeterminazione e rinvigorire il senso della lotta per il progresso materiale e spirituale.
Gianluigi Leone
(ARS Lazio)
NOTA: Per gli approfondimenti, si segnala il volume “Nicola Ricciotti e il Risorgimento Nazionale: il caso Frosinone” (Comune di Frosinone, Assessorato alla Cultura, collana “L’Archivio della Memoria”, vol. 1, 2004) di Domenico Ricciotti, da cui sono tratte le notizie storiche e biografiche contenute nel presente articolo.
Ho letto l articolo con interesse: in mio avo è tra I dimenticati. Due fratelli e in figlio del notaio Magriè furono uccisi a Catania. Sto cercando informazioni su il funebre evento.
Francesca