La cultura italiana contemporanea e la questione nazionale
Nel primo scorcio del XXI secolo la massima parte degli intellettuali italiani non riconosce l'esistenza di una questione nazionale. Non vede il problema della subalternità politico-economica, culturale e addirittura psicologica del paese nei confronti del grande capitale e degli Stati Uniti, ma anche della longa manus di entrambi che è l'Unione Europea. In altri termini, ignora lo snodo cruciale della sovranità in ogni accezione del termine.
Una delle cause di questa cecità sta nella formazione degli intellettuali tardonovecenteschi in cui la parola patria è stata messa al bando, come ha riconosciuto Massimo Cacciari, che infatti preferisce parlare di una "matria" puramente linguistica e dunque asettica, disincarnata. Ma è anche vero che a distanza di quasi cinquant'anni rimane ancora tangibile l'influsso della controcultura sessantottina, con la tipica celebrazione del nomadismo e il suo rifiuto della tradizione. Dopo il crollo del Muro di Berlino l'antitradizionalismo e l'internazionalismo professati dai contestatori e dai loro epigoni hanno trovato una nuova sistemazione in seno all'ideologia "imperiale" dello sradicamento e della deterritorializzazione.
A completare il quadro si aggiunge il riaffiorare della vocazione cosmopolita dell'intellettuale italiano, che Gramsci faceva risalire al Medioevo cristiano ma considerava esaurita nel Settecento. Il 2 luglio 2013 a Strasburgo il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz ha ricevuto il più grande fra i nostri scrittori viventi, Antonio Moresco, ex-seminarista e poi militante della sinistra extraparlamentare negli anni Settanta, che giungeva a piedi dall'Italia dopo aver percorso 1200 chilometri in circa quaranta giorni.
Il pellegrinaggio laico si proponeva di testimoniare il sogno di un'altra Europa, di "un nuovo continente sperimentale" che non sia quello plasmato dalle lobby economiche: sembra la posizione di Toni Negri e simili. In un registro alto e profetico di solito assente nei proclami della sinistra radicale europeista (quella chiamata a raccolta da Spinelli e Tsipras) Moresco sostiene che la sua impresa è stata dettata da una "misteriosa follia", cioè da un impulso non razionale, circonfuso dell'alone di un'indiscutibilità soprannaturale.
Ha ragione Moresco: soltanto un folle, o un kamikaze, o un (sia pure secolarizzato) eremita all'acme dell'estasi autosacrificale può pensare che un'altra Europa sarà mai possibile senza un lungo periodo di rimescolamenti etnici interni e di gestazione di una lingua comune. Perciò, più dell'incontro con Schulz, il momento della verità, l'evento che riassume allegoricamente il significato del pellegrinaggio, è stato in realtà un altro.
Questo: "Prima di lasciare Strasburgo", narra Moresco riflettendo sulla sua impresa, "sono andato con alcuni amici a Colmar a vedere la pala di Grünewald, che non avevo mai visto direttamente con i miei occhi. La portentosa crocefissione, il legno storto della croce contenuto appena nella cornice, la grande bestia divina macellata, le donne tese e incurvate come archi, le mani deformate, gli artigli, l’allucinante splendore alieno della Resurrezione, la Madonna con la testa cinta da una corona di fuoco e il coro di angeli al quale si è unito il demonio, l’angelo tenebroso dell’Annunciazione e una Madonna con le labbra intensamente rosse e la faccia greve da donna tedesca vissuta e forse sazia di cibo e ubriaca, l’altra Madonna con il bambino e il suo pitale di fronte a un paesaggio cosmico, le tentazioni di sant’Antonio trascinato a terra per i capelli e col volto attraversato da un sorriso ebete…"
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