Lineamenti per un confronto tra pensiero politico classico e moderno
Molti stereotipi e modelli preconcetti della modernità vedono nel pensiero antico i prodromi della società e del modo di produzione capitalistico. L’ideologia liberista, che tende per sua natura ad eternizzarsi, proiettando se stessa ovunque nella storia, si trova ad assecondare tale visione. Se nella nostra prospettiva ciò è infondato, dipende principalmente da una diversa declinazione del rapporto teoria e prassi delineato da due differenti scuole di pensiero politico: la filosofia politica classica e quella moderna. Per metterne in risalto i punti salienti nell’ottica di un miglior confronto, ridurremo le numerose specificità e le peculiarità che evidentemente esistono all’interno dei due poli.
La prima determinazione essenziale riguarda il campo stesso del politico: la filosofia politica classica si occupa principalmente della sua struttura interna, perché tale prospettiva si costituisce in modo essenziale come arbitraggio delle controversie tra le parti. La comunità, dunque, è sempre data nelle condizioni di partenza di ogni discorso politico. Secondo Aristotele, il fine di ogni attività, infatti, o è nell’uso stesso, cioè nell’essere in opera (energeia) o nell’opera finita, cioè nel prodotto del lavoro. Colui che agisce senza produrre possiede in sé la sua energeia (praxis), colui che agisce producendo qualcosa, non possiede in sé il fine della propria attività (poiesis). Come spiega nella Politica: “C’è senza dubbio una misura della grandezza anche per la polis, come per ogni altra cosa, animali, piante o strumenti; ognuno di questi, se troppo piccolo o eccessivo in grandezza, non conserverà la propria potenza, allo stesso modo una polis, quando ha troppi pochi abitanti, non è autarchica, e la polis è qualcosa di autarchico, e, quando ne ha troppi, sarà autarchica per le necessità, come una comunità etnica, ma non come una polis. È difficile che possa esistervi una organizzazione politica”. L’autonomia e l’indipendenza della polis sono, proprio come per l’individuo, valori nella loro stessa vigenza ed esercizio; una polis che non conserva l’autonomia possiede il proprio fine fuori di se stessa. Come abbiamo visto, la praxis ha un valore più alto rispetto alla poiesis, perché rispetto a quest’ultima è un’attività che conserva in sé il proprio fine. Per la stessa ragione, la più alta attività che ha in sé il proprio fine non può essere che l’attività politica, che, quindi, non può farsi scienza, nella misura in cui chi interviene nel dibattito sulla migliore forma di governo o solleva questioni all’interno del dibattito, non è mai al di sopra o al di fuori di esso. L’individuo integrato nella società classica agisce, dunque, dentro il perimetro della politica per cambiarla o per guidarla. Tuttavia, per far sì che la categoria del politico possa attualizzarsi, occorre che alcuni uomini vengano assoggettati a quella pre-politica delle necessità della vita. E’ lo schiavo costretto a condurre un’esistenza lavorativa che schiude la possibilità di una vita autenticamente umana, perché politica, per gli uomini liberi.
La comunità classica conserva un forte legame con la struttura permanente dell’architettura entro la quale può aver luogo la direzione delle situazioni da parte degli agenti politici. In questa comunità la legge conserva un forte valore prescrittivo. Questo punto ci consente di chiarire apertamente che il confronto qui svolto non è semplicemente diacronico, ad esempio tra la civiltà greca e la moderna capitalistica, ma ci consente di introdurre la radicale opposizione tra la società islamica e quella occidentale capitalistica.
Il legislatore, nella comunità classica, è limitato nelle sue riflessioni dalle leggi della comunità nella quale legifera, dalle sue tradizioni e infine dalle condizioni economiche; egli tuttavia cercherà di operare secondo il bene, avendo come fine la realizzazione della migliore forma di governo per quella data comunità. In tale prospettiva si capisce che la filosofia politica classica non può che essere guidata da giudizi di valore, utili per dirimere le controversie tra le parti sociali che aspiravano al potere, ma anche per guidare verso il bene l’intera comunità. Essa si occupa di comunità “vive” e delle esigenze reali di queste, ma, partendo da queste, elabora un cammino lastricato nella strada del “dover essere”.
La filosofia politica moderna, invece, riflette astrattamente sulla genesi della comunità, e in questo senso si trova a pensare le fondamenta profonde che portano alla sua costituzione. Avendo per oggetto le condizioni da cui può scaturire l’aggregato politico, essa pone in questione ciò che viene prima della società stessa, ciò che è esterno ad essa. Si tratta dunque di un pensiero del fuori, di ciò che è esterno al campo politico e ne situa l’esistenza. La riflessione sul fuori determina anche il concetto limite della sovranità stessa. Sovrano è, infatti, impiegando la definizione datane da Schmitt, “colui che decide dello stato di eccezione”, cioè la persona o il potere che, dichiarando lo stato di emergenza o la legge marziale, può legittimamente sospendere la validità della legge. In questo modo, nella figura del sovrano, l’ordinamento giuridico contiene il germe del suo stesso superamento/annullamento. Si può quindi desumere che, anche in questo caso, la filosofia politica moderna sia la riflessione sul fuori, e nello specifico tra ciò che prescrive la legge e ciò che è preso fuori (ex – capere) di essa, l’eccezione appunto. Gli strumenti della società moderna sono, dunque, il decreto e il bando, attraverso i quali il caso singolare entra in rapporto con la norma generale disattivandola e rendendola inoperosa. Nel drammatico presente assistiamo all’evento della piena inoperosità delle costituzioni nazionali, pur nella loro attuale vigenza, e la crescita a dismisura degli apparati esecutivi che detengono ormai il potere sovrano.
La questione fondamentale che la filosofia politica moderna interroga è a quali condizioni la comunità politica possa conservare il proprio stato. Sapendo che l’esistenza di ogni società è eventuale, si tratta di agire affinché essa non degeneri o collassi. In questo senso essa rinuncia ad ogni teleologia come ad ogni “dover essere”, fondandosi sul fatto che l’uomo non cessa di agire irrazionalmente, e, riconoscendo l’impossibilità di continuare ad agire irrazionalmente senza ricevere dei danni o degli svantaggi, compie strategie e calcoli sul reale. Si può dire che se la filosofia politica classica nasce sui bisogni reali delle polis greche, ma sconfina nell’astrazione allorché istituisce una teleologia basata su giudizi di valore come il bene e la giustizia, la filosofia politica moderna, pur astraendo i presupposti della comunità politica partendo da un punto di vista estraneo ad essa, cioè quello dello scienziato della politica, cerca, però, di scorgere nell’oggetto del suo campo di studio lo sviluppo delle forze sociali e di conferire ad esse l’autonomia e la legittimità dell’azione politica.
In quest’ultima prospettiva, l’individuo, assumendo la terzietà del linguaggio scientifico, mira a costruire un punto di vista neutrale, asettico. Il processo di oggettivazione attraversa anche il modo di produzione. Nel campo tecnico-scientifico, infatti, tutto è misurabile attraverso il mercato, perché tutto assume la forma della merce. Come spiega Vernant questa è la profonda e radicale differenza del sistema di produzione capitalistico da quello della classicità: “questa universale equiparazione dei prodotti del lavoro sul mercato, nello stesso istante in cui trasforma i diversi lavori, tutti diversi dal punto di vista del loro uso, in merci comparabili dal punto di vista del loro valore, trasmuta anche i lavori umani, tutti diversi e particolari, in una stessa attività lavorativa, generale e astratta. Al contrario, nell’ambito della tecnica e dell’economia antica, il lavoro non appare che nel suo aspetto concreto. Ogni compito è definito in funzione del prodotto che si propone di fabbricare: il calzolaio rispetto alla calzatura, il vasaio rispetto al vaso. Non si considera il lavoro nella prospettiva del produttore, come espressione di uno stesso sforzo umano creatore di un valore sociale. Per questo non esiste nella Grecia classica, una unica grande funzione umana chiamata lavoro, che comprende tutti i mestieri, ma piuttosto una pluralità di mestieri diversi, ciascuno dei quali definisce un tipo particolare di attività che produce la sua opera propria”. A differenza del mondo classico, l’oggettività dei criteri scientifici moderni assegnano maggior valore al prodotto del lavoro, proprio perché misurabile; in termini aristotelici la poiesis prende il sopravvento sulla praxis. In questo senso cade dal suo piedistallo anche l’attività politica, mentre acquista valore rispetto ad essa l’attività tecnica, che può essere misurata tramite i fattori della produzione. L’uomo moderno, nell’oggettivazione dei rapporti produttivi, persegue, attraverso la tecnica, l’appagamento dei suoi bisogni materiali, l’aumento indefinito della capacità di realizzare scopi e la possibilità di padroneggiare la natura, ma al prezzo della sua progressiva identificazione coi dispositivi tecnici che usa e dai quali allo stesso tempo è usato.
BIBLIOGRAFIA
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Senofonte, Economico, Milano 1991;
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