La nuova sintesi
Thomas Hobbes, filosofo e matematico inglese (1588-1679), concepisce l’uomo come “animale individuale”, atomizzato, competitivo ed egoista. Ogni individuo nello “stato di natura”, prima ancora che si formi la società umana, tenderebbe a procacciare per sé, senza alcun limite, tutto ciò che gli consente di muoversi, vivere e autoconservarsi; e siccome ciò fanno anche gli altri individui, le azioni di uno si scontrano con le reazioni di tutti (homo homini lupus) e allora tutti lottano contro tutti per predominare se non addirittura per prevaricare (bellum omnium contra omnes). Il Leviatano sorgerebbe per impedire una permanente guerra civile e sociale e dunque la sua base è la paura collettiva dei propri simili. Questa concezione si contrappose a quella di Aristotele che vede l’uomo come “animale socievole e comunitario” zoón politikón che tende naturalmente ad aggregarsi in poleis, a vivere in società, non solo perché ha bisogno degli altri per le proprie necessità, ma soprattutto perché solo le leggi e l’educazione, proprie di ogni convivenza sociale, gli consentono di raggiungere la virtù. Ogni società tende dunque a costituirsi Stato, che ha come scopo la felicità comunitaria. Coerentemente con tal fine Aristotele predilige l’attività economica che è mossa più dal bisogno che dal desiderio di ricchezza: l’agricoltura che converte la merce in denaro per acquistare altre merci è preferibile al commercio che converte denaro in merce per guadagnare altro denaro.
È la concezione aristotelica-mediterranea che predispone l’uomo a sottrarre, almeno in parte, alcuni ambiti dell’esistenza alla legge del profitto, a non mercificare del tutto la terra, il lavoro, l’arte, la cultura, la trasmissione del sapere, la gara sportiva. Quando invece i valori umani non quantificabili arretrano davanti al valore di scambio, l’economia diventa la “scienza” suprema e i valori mercantili pervadono e dominano totalmente le menti. L’immaginario collettivo, colonizzato dal regno della quantità, diventa strettamente dipendente dal sistema del denaro, che il capitalismo finanziario sviluppa fino allo stadio ultimo: non più merce in denaro o denaro in merce, ma guadagnare denaro dal denaro, l’apoteosi della rendita parassitaria.
Questo sistema, oltre che economico-finanziario, è antropologico e culturale; trasforma l’uomo in un produttore-consumatore proteso compulsivamente a estremizzare il suo illimitato interesse individuale e i suoi incontrollati desideri materiali. Però, a lasciarsi guidare soltanto dall’interesse e dal desiderio, l’uomo si aggregherebbe in comunità soltanto per contratto giuridico o per scambio mercantile, condannando in tal modo i suoi rapporti sociali all’azione di un destino esclusivamente economico. Non più dunque politikón ma zoón ovunque e perennemente contraente, cliente, utente, consumante. Inoltre e peggio, trasformate che siano tutte le cose – nessuna esclusa – in merci da vendere sul mercato, l’uomo, in questa totale e planetaria compravendita, diventa una di queste “cose”. In effetti, in alcuni ambiti di lavoro e di professioni, specie a livello di dirigenza presso le compagnie multinazionali, sei assumibile, acquistabile, se ti sai appunto “vendere”, illustrandoti con la scheda tecnica del prodotto (il curriculum).
L’ideologia dominante di origine hobbesiana, che la società e la cultura anglo-americane tendono a estendere su gli altri continenti e in particolare su quello europeo con la creazione eurounionista, presenta la società dei consumi come il migliore dei mondi possibili, i cui residui difetti possono essere emendati, ma che non è superabile. Altro tipo di società sarebbe inconcepibile, perché ogni tentativo, anche semplicemente riformista, condurrebbe al “totalitarismo”, termine con il quale gli accecati dall’ideologia liberista etichettano lo Stato nazionale, riscoperto come bastione ultimo a difesa dei ceti subalterni. L’ostilità liberista e quella internazionalista contro lo stato nazionale convergono nell’ideologia progressista, che da una parte idolatra il nuovo e il moderno dei cosiddetti diritti civili purché rigorosamente individuali, dall’altra respinge la novità radicalmente rivoluzionaria dell’azione sovrana dei popoli di intervenire, tramite lo Stato, nell’economia per salvaguardare i diritti sociali. Perciò, in questo indeclinabile paradiso terrestre vivremmo infelicemente schiacciati dalla fatalità del mercato progressista o condannati al declino, se non respingessimo entrambi questi destini accogliendo l’idea che la Storia è una porta sempre aperta.
Invece l’ideologia del progresso postula contraddittoriamente che la storia sia entrata nella fase terminale, la quale coincide con il regno assoluto del mercato globale, l’unico legittimato a “progredire” e nella cui incontrastata superiorità dovranno incanalarsi tutte le culture. L’ultimo uomo non avrebbe altro scenario davanti a sé che la “fine della storia” (Fukuyama). La storia sarebbe dovuta finire con l’implosione del sistema sovietico quando un immaginario “Occidente”, perdendo il suo principale antagonista, si ritrovò dominatore incontrastato del pianeta. Rapidamente invece la Storia ci ha introdotto in un periodo di transizione in cui nuove divisioni attraversano tutte le correnti politiche e ideologiche. Dopo che i partiti della sinistra europea, convertitisi alla dottrina economica liberista, hanno decomposto la contrapposizione destra-sinistra nella vasca nord-atlantica, tale evoluzione rende possibile concepire nuove sintesi in campo politico. A coniugare democrazia e giustizia sociale, libertà e pane, indipendenza e lavoro, autodeterminazione e terra patria, Popolo e Stato è sorta già la nuova sintesi: il sovranismo costituzionale.
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