La Grecia, campanello d'allarme per l'Europa
Presento un interessante articolo di Emiliano Brancaccio, il quale muovendo dal caso greco, indaga gli assetti organizzativi dell'Unione Monetaria Europea nell'attuale fase storica. La premessa è che i tassi di interesse sui titoli degli Stati europei riflettono in primo luogo i deficit dei conti esteri rispetto al PIL (a un maggior deficit corrisponde un maggior tasso di interessi) e soltanto in seconda battuta e in misura minore i debiti pubblici. Questo significa che se cominciano a divergere troppo i tassi di interesse sui titoli dei singoli Stati Europei, lo Stato che intenda pagare meno interessi sui titoli potrebbe trovarsi costretto a (o comunque volere) uscire dall'euro e a svalutare. Pertanto, nota Brancaccio, gli attuali squilibri delle bilance commerciali di alcuni stati (sovente a vantaggio della Germania) sono "il maggior pericolo" per la tenuta dell'Unione monetaria europea. Sia perché qualche governo europeo potrebbe prendere autonomamente la decisione; sia perché potrebbe trovarsi costretto a svalutare, eventualmente a causa della speculazione. La possibilità è concreta perché la Germania non sembra voler intervenire per evitare che qualche Stato esca dall'Unione monetaria: i vantaggi per quello Stato, ci spiega Brancaccio, terminerebbero nel breve periodo; poi la Germania avrebbe altri vantaggi da sfruttare. La minaccia seria potrebbe aversi se uno o più Stati a rischio, magari perché necessitati, non soltanto decidessero di svalutare, bensì anche di limitare il grado di apertura internazionale dei loro mercati (SD'A).
Ecco l'articolo
di Emiliano Brancaccio
fonte economiaepolitica
In Grecia il governo trucca i bilanci, si dà alla finanza allegra, manda in pensione i lavoratori troppo presto e poi chiede aiuto all’Europa quando i mercati finanziari lo sfiduciano. In estrema sintesi è questa l’interpretazione della crisi finanziaria greca che in questi giorni va per la maggiore. Gli economisti Alesina e Perotti, tra gli altri, la sostengono apertamente (Sole 24 Ore, 27 marzo). Questa lettura fa indubbiamente parte del senso comune. Essa tuttavia non coglie alcuni problemi di fondo che riguardano non solo il caso della Grecia ma l’intero assetto della Unione monetaria europea.
Le principali difficoltà in seno alla zona euro riguardano più gli squilibri commerciali tra i paesi membri che l’andamento dei conti pubblici di ogni singolo paese. La superiore capacità dei capitali tedeschi di aggredire i mercati esteri è la causa principale di tali squilibri. In Germania l’elevato grado di organizzazione e di centralizzazione dei capitali determina una rapida crescita del valore della produttività oraria del lavoro. A ciò si è aggiunta, soprattutto negli ultimi anni, una politica di forte contenimento dei salari e della spesa interna. Conseguenza di questi andamenti è una dinamica dei costi unitari e delle importazioni molto più contenuta rispetto a quella che si registra in altri paesi europei. L’economia tedesca risulta quindi sempre più competitiva e riesce ad accumulare avanzi commerciali sistematici a fronte della strutturale tendenza al disavanzo estero in cui versano soprattutto Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. Questi paesi vengono talvolta bollati con il poco diplomatico acronimo di “pigs”. Ciò che tuttavia sfugge a molte analisi è che i cosiddetti “pigs” sono accomunati dalla summenzionata tendenza ai disavanzi con l’estero, mentre per quanto riguarda i rispettivi debiti pubblici si somigliano molto poco. Del resto le indagini empiriche mostrano che i differenziali tra i tassi d’interesse sui titoli pubblici dei paesi europei sono correlati alla dinamica dei conti esteri in rapporto al Pil più che all’andamento dei conti pubblici[1]. A quanto pare, dunque, gli speculatori contemplano il rischio di un default dei bilanci statali solo in via secondaria, mentre tendono soprattutto a sbarazzarsi dei titoli sia pubblici che privati dei paesi afflitti da una tendenza alla stagnazione o al disavanzo estero, o addirittura da una miscela di entrambe. Il sospetto che sembra dunque muovere gli speculatori è che tali paesi possano prima o poi decidere di affrontare i loro problemi di competitività attraverso l’abbandono dell’euro e la svalutazione. In tal caso i titoli denominati nelle valute deprezzate perderebbero valore, ed è bene quindi venderli prima che ciò accada.
Gli squilibri commerciali rappresentano dunque il maggior pericolo per il futuro della moneta unica. L’attuale assetto istituzionale dell’Unione scarica tutto il peso del riequilibrio sui paesi in disavanzo con l’estero, i quali vengono continuamente forzati a comprimere i salari e la spesa sociale. Gli stessi “aiuti” alla Grecia saranno vincolati all’attuazione di tali politiche deflattive. Ma come abbiamo detto anche la Germania si caratterizza per una politica di schiacciamento delle retribuzioni e del welfare. I paesi in difficoltà commerciale sono quindi chiamati ad abbattere i salari e la spesa pubblica per compensare non solo la maggiore produttività delle imprese tedesche ma anche la stessa politica restrittiva della Germania. I dati ci dicono però che in questo modo il problema cruciale dei divari competitivi tra i paesi membri non viene risolto ma viene solo rinviato. Tali divari inoltre sono ormai così accentuati che la tentazione per qualcuno di mandare tutto all’aria e di sganciarsi dalla moneta unica potrebbe un giorno o l’altro farsi irresistibile. E se anche non vi fosse una espressa decisione politica in tal senso, gli attacchi speculativi potrebbero a un certo punto moltiplicarsi fino a rendere inesorabili le svalutazioni. Il caso greco rappresenta in questo senso solo un primo campanello di allarme.
La zona euro è dunque attraversata da tendenze centrifughe poderose, che vengono oltretutto rafforzate dalla crisi. Per contrastarle bisognerebbe indurre le autorità tedesche ad accettare l’introduzione di un diverso criterio di riequilibrio commerciale, che si basi su una loro maggior disponibilità a spendere e più in generale su meccanismi di governo politico dell’Unione che compensino la superiore capacità dei capitali tedeschi di penetrare i mercati esteri. Tuttavia a Berlino non sembrano particolarmente scossi dalla eventualità che alcuni paesi arrivino a sganciarsi dalla moneta unica. Ciò non deve meravigliare. Il governo tedesco sa bene che le svalutazioni altrui potrebbero ridurre in via solo temporanea i divari di competitività rispetto alla Germania. Inoltre, una volta esaurita la spinta competitiva delle svalutazioni, le imprese tedesche avrebbero l’opportunità di rastrellare ingenti capitali dal resto d’Europa a prezzi di saldo. Una eventuale crisi dell’unità monetaria potrebbe quindi esser vista dai tedeschi come una normale fase di assestamento lungo l’inesorabile percorso di egemonizzazione economico-politica dell’Europa.
Sparire o farsi assorbire: è questo dunque il destino di tante imprese situate in Grecia, in Italia e nelle altre periferie del continente? Bisogna cioè rassegnarsi al fatto che la testa pensante del capitale europeo si concentrerà sempre di più in Germania e che i “pigs” rimarranno popolati solo da masse inermi di azionisti di minoranza e di lavoratori a basso costo? Nella sostanza è esattamente questo il futuro che ci riserva l’attuale assetto dell’Unione monetaria europea. La crisi economica rende però la situazione più dolorosa sul piano economico e quindi forse più accidentata sul terreno politico. Se una tangibile ripresa mondiale si facesse ancora attendere, i paesi deboli dell’Unione potrebbero arrivare ad accarezzare l’idea non soltanto di svalutare, ma anche di ridurre in modi più o meno surrettizi il grado di apertura internazionale dei loro mercati. Impensabile appena pochi anni fa, una reazione del genere trova oggi più di un riscontro tra gli stessi imprenditori “periferici” ed è forse l’unica mossa che potrebbe suscitare qualche dubbio a Berlino sulla aggressiva politica mercantilista fino ad oggi perpetuata dalla Germania[2]. Sembra paradossale, ma il rilancio dell’unità europea potrebbe scaturire proprio da una minaccia neo-protezionista avanzata da qualcuno dei “pigs”.
L'intervento di Brancaccio ha una sobrietà e una chiarezza meritevoli che si contrappone alle sciocchezze tipiche con le quali taluni nostrani economisti fanno interventi abborracciati utili quei candidati che fanno campagna elettorale sopra i covoni di fieno. Il nostro paese come ha già rilevato Stefano ha condotto negli ultimi venti anni una politica di “sottosviluppo” basata sulla riduzione delle condizioni di vita degli italiani al livello di quelle dei cinesi a partire dalla considerazione che se i cinesi vivono con un piatto di riso al giorno gli italiani possono vivere con un piatto di spaghetti, ovvero che «senza le necessarie riforme avremmo perso “competitività”» che «la globalizzazione (il mercato mondiale dei beni e dei servizi) era una necessità o addirittura un dato di fatto (e non un fine perseguito mediante l’emanazione di leggi e la stipulazione di trattati internazionali), che “imponeva” di tener conto della concorrenza internazionale; urgeva dunque ed era anzi necessario rendere “flessibile” (ossia precario) il lavoro subordinato; così come era necessario introdurre una crescente moderazione salariale; la “gobba” della curva delle prevedibili entrate e uscite dell’inps, infine, avrebbe reso necessarie le riforme delle pensioni» (https://www.appelloalpopolo.it/?p=1431)
Putroppo sono scettico sulla possibilità alle possibile prospettive indicate da Brancaccio, non mi sembra di vedere chi possa, almeno in Italia, farsi portavoce di una contestazione contro il libero scambio e a sostegno di politiche protezionistiche. Gli orientamenti nazionali mi sembrano orientati a ridurre ulteriormente le condizioni di vita dei lavoratori; vale a dire che gli imprenditori possono sempre contare su quel vecchio saggio di sfruttamento indicato da Marx, con l'appoggio incondizionato di tutti i partiti politici. D'altra parte la Germania potrà davvero continuare una politica di concentrazione del capitale? I tassi di interesse necessariamente crescenti nei paesi in difficoltà davvero non riusciranno ad attrarre capitali distogliendoli alla Germania? Il tentativo di previsione di Brancaccio mi sembra basato su una valutazione troppo unilaterale che esclude una serie di possibilità alternative. Questo non toglie il fatto che la fase attuale dell'Ue è piuttosto critica.
Cruciani Battista