Natura e funzione del partito politico
di DAVIDE PARASCANDOLO (ARS Abruzzo)
Recentemente, su Appello al Popolo, un interessante articolo di Anthony Domino (Il dover essere del partito e la politica nazionale) poneva all’attenzione dei lettori questioni di estrema centralità inerenti ruolo, struttura e funzionamento di un moderno partito politico. In questa sede, vorremmo riprenderne e svilupparne alcuni concetti chiave, aprendo un confronto sul tema.
Come giustamente si osservava in apertura, l’art. 49 della nostra Costituzione, riferendosi al diritto dei cittadini di associarsi in partiti, sottolinea come il fine al quale essi concorrono, ovvero quello di determinare la politica nazionale, debba essere perseguito con “metodo democratico”. Nell’articolo pocanzi menzionato, al concetto suddetto vengono attribuiti tre significati:
“democratico potrebbe significare pacifico, nel senso che il popolo ha come strumento di determinazione della politica nazionale il partito e non un metodo violento come la lotta armata: questa interpretazione (seppur corretta) non può essere accolta come esaustiva, in quanto meramente caratterizzante di un modello sociale in cui non vige il bellum omnium contra omnes e sicuramente non di un modello democratico.
Democratico potrebbe essere inteso come sinonimo di egalitario, nel senso che i partiti devono essere trattati secondo il principio di uguaglianza formale e concorrere fra loro in condizioni di pari opportunità: pur essendo una giusta considerazione questa, si deve tuttavia notare che essa attiene ai partiti in sé e non ad essi in quanto strumenti nelle mani dei cittadini. Infine possiamo – e dovremmo – interpretare la suddetta espressione nel senso in cui l’organizzazione partitica deve essere improntata a criteri di democrazia per ciò che concerne la definizione della linea programmatica comune”.
In realtà, più che sugli attributi di “pacifico” ed “egalitario”, per chiarire i termini del problema appare opportuno soffermarsi su due concetti che non hanno esattamente lo stesso significato: quello di “democrazia” e quello di “metodo democratico”, distinzione fondamentale per cercare di individuare in che modo dover correttamente interpretare la natura di un partito politico.
Il concetto di democrazia (da demos, popolo, e kratos, potere, dunque potere del popolo), se inteso in chiave idealistica, alla stregua di un “fondamentalismo” alla Rousseau, può essere declinato solo e soltanto in senso puro ed integrale, dovendosi intendere la democrazia diretta e sostanziale come l’unica forma davvero accettabile e coerente di democrazia. Ciò comporta l’inevitabile inapplicabilità di una tale concezione ai nostri sistemi rappresentativi, i quali costituiscono la necessaria impalcatura delle moderne democrazie su larga scala. In contesti di questo tipo, l’ideale puro della democrazia non può più trovare attuazione; ecco allora che si introduce lo strumento della rappresentanza, attraverso la quale il cittadino (divenuto tale da suddito quale era per il tramite del riconoscimento dei diritti politici) delega ad un rappresentante la sua facoltà di poter incidere sulla presa di decisioni politiche che determineranno effetti concreti sulla sua stessa vita.
In questo frangente si attua quello scarto decisivo che trasforma l’ideale della democrazia pura ed integrale in metodo democratico. In sintesi, si approda cioè all’adozione non più di un concetto sostanziale, ma formale o procedurale di democrazia. Il metodo democratico deve dunque essere realisticamente inteso, con le parole di Schumpeter, come «lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare»1. Pertanto, la democrazia concretamente realizzabile assume le fattezze di un modus procedendi, di un metodo tramite cui vengono scelti coloro i quali prenderanno e attueranno le decisioni (non si tratta più di un governo del popolo, ma per il popolo).
Questa scelta è il risultato di una competizione per la leadership che si esplica attraverso la concorrenza tra partiti i quali, con la progressiva estensione del suffragio e la conseguente massificazione della società, diventano il raccordo inevitabile tra il potere statale e l’individuo che, rimanendo isolato, non avrebbe politicamente alcun peso né alcun reale influsso sulla formazione della volontà dello Stato medesimo. Ecco perché la moderna democrazia non può prescindere dai partiti, i quali dovranno necessariamente continuare a costituire un filtro essenziale per garantire la partecipazione politica dei cittadini.
Il partito politico è ancora, o dovrebbe esserlo, un mezzo indispensabile per “educare” il cittadino alla partecipazione, per consentire lo sviluppo e l’espressione di una coscienza politica diffusa. D’altra parte, ce lo ricorda lo stesso Gramsci, una massa non può distinguersi e divenire indipendente senza organizzarsi, e non c’è organizzazione senza organizzatori e dirigenti. Con ciò si introduce un tema fondamentale, ovvero il nesso tra partito e organizzazione.
Le formazioni partitiche, in effetti, non operando in una realtà ideale, ma concreta e complessa, hanno bisogno di un’organizzazione che non sia inficiata e ingessata da un “eccesso” di democrazia. Quanto appena detto potrebbe ad un primo impatto risultare sgradevole, ma è quanto mai necessario per il corretto funzionamento di un partito politico. Quest’ultimo, essendo prima di tutto un apparato organizzativo (per quanto snello e “leggero” lo si possa concepire), rimane pur sempre, in primo luogo, un’organizzazione, e quindi il suo tratto distintivo, funzionale a ché essa sia quanto più efficiente possibile, non è tanto la democrazia, quanto in realtà la disciplina, concetto sul quale torneremo tra breve.
Intanto però, rifacendoci ad un’analisi a suo tempo svolta da Sartori, occorre preliminarmente separare due piani distinti: quello della democrazia nei partiti e quello della democrazia interpartitica. Prima di lui, lo stesso Gramsci sottolinea che «altra è la democrazia di partito e altra la democrazia nello Stato: per conquistare la democrazia nello Stato può essere necessario – anzi è quasi sempre necessario – un partito fortemente accentrato»2.
In questa sede ci interessa analizzare principalmente la dimensione della democrazia nei partiti.
Ora, è bene osservare che una leadership di pochi (nella sostanza inevitabile) appare perfettamente compatibile con una concezione democratica, purché un tale vertice sia affidabile, responsabile e sostituibile. Infatti, ciò che fa davvero la differenza tra un sistema che possa dirsi democratico e un altro che non lo è, non è tanto “che i capi vengano sostituiti, ma che essi possano venir sostituiti”. Da questo punto di vista, il centralismo all’interno di un partito è persino auspicabile.
Come scrive Sartori, «non si può rimettere tutto in discussione per mille volte, e tutte le volte. Che è quel che potrebbe accadere se la vita delle sezioni fosse così viva e autonoma come alcuni auspicano, e se venisse meno la deprecata centralizzazione. I partiti devono trattare con altri partiti… e per trattare occorre un contraente che risponda dei propri associati. Se le trattative venissero condotte alla periferia, non si finirebbe mai di trattare, e – quel che è peggio – si rischia di non arrivare mai ad un accordo generale»3.
Insomma, queste riflessioni ci inducono a dover considerare la centralizzazione, o quantomeno un certo grado di essa, come un’esigenza funzionale, di per sé positiva e desiderabile. Tutto ciò perché l’organizzazione presenta finalità funzionali, non democratiche; in altre parole, perché un sistema possa definirsi democratico, non è necessario trovare la massima espressione democratica all’interno dei partiti, ma nella concorrenza tra essi.
Se è vero quanto detto sinora, allora appare chiaro come il partito politico, per proteggere la sua solidità, debba soprattutto far leva sul concetto di disciplina. Occorre tuttavia rifuggire da erronee equazioni tra disciplina e costrizione, e interpretare il concetto di disciplina come una logica e accettata conseguenza di una costitutiva e preliminare omogeneità ideologica, tutto ciò essendo un fattore la cui presenza deve precedere necessariamente la definizione di successive e più dettagliate linee programmatiche.
Su questo aspetto troviamo conforto anche nelle parole di uno dei maggiori costituzionalisti italiani, Mortati, il quale afferma chiaramente che per un partito «la posizione di competizione e di lotta con gli altri partiti per la conquista del potere rende necessaria una saldezza organizzativa e una rapidità di azione che potrebbero venire compromesse da atteggiamenti critici troppo spinti da parte delle correnti di minoranza»4, nei confronti delle quali, tuttavia, deve essere ovviamente riconosciuto il diritto di potersi esprimere per evitare il pericolo di un “infeudamento oligarchico dei gruppi dominanti”.
Queste due esigenze possono in realtà essere contemperate senza molte difficoltà «quanto meglio determinata sia l’ideologia del partito e quanto più omogenea la sua composizione»5. Ciò vuol dire che un limite generale all’azione dei vari gruppi all’interno di un partito deve essere fissato nel comune rispetto dei principi fondamentali desunti dall’ideologia propria del partito medesimo. Una saldezza ideologica e programmatica essenziale per far sì che, col mutare degli individui, il gruppo rimanga unitario e coerente nella sua azione.
Quando parliamo di disciplina, essa è evidentemente richiesta a quel corpo intermedio fatto di uomini “comuni” senza il quale un partito non esisterebbe. Tuttavia, il partito non esisterebbe neanche “solamente” con essi. Per Gramsci, «essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente»6. La disciplina, per l’intellettuale sardo, rappresenta un “grandissimo valore politico”, perché essa trascende la vita di partito per essere trasfusa nella vita dello Stato, ovvero della comunità nazionale. I partiti, da questo punto di vista, dovrebbero perciò essere considerati come vere e proprie scuole di vita statale.
Considerazioni che certo cozzano con una realtà, quella attuale, la quale appare ad una distanza siderale rispetto alla struttura della società auspicata sinora. Qui approdiamo al secondo punto sollevato dall’articolo preso a riferimento: la crisi dei partiti dell’ultimo quarto di secolo. La tesi ivi sostenuta è che un partito dal cui funzionamento interno sia espunto il metodo democratico provocherebbe l’insorgenza di “meccanismi idonei ad accentrare nelle mani di una sparuta intellighenzia il potere di adottare le decisioni e la linea programmatica; facilmente il partito si scollerebbe dalla sfera della libertà per arroccarsi a quella dell’autorità e quindi mutare da strumento popolare a strumento di potere riservato a pochi”.
Abbiamo tuttavia sinora sostenuto come la presenza di un’intellighenzia che sappia disciplinare ed organizzare la massa del partito sia da considerarsi come un elemento essenziale. Crediamo dunque sia il caso di precisare meglio la natura della crisi in questione. Essa affonda le sue radici in quella cultura individualista ed in quella pseudocultura istituzionale di carattere sovranazionale che hanno contribuito a deresponsabilizzare in maniera drammatica il ruolo dei “rappresentanti”, scollandoli definitivamente dalla collettività di provenienza e orientandoli a perseguire non più il nobile fine dell’interesse nazionale, ma quello dell’interesse di fazioni, conventicole e potentati economici spesso e volentieri indifferenti o persino ostili all’interesse della collettività nazionale medesima.
I partiti, cioè, hanno rinunciato a fare i partiti, cominciando a non essere più una frazione organica delle classi popolari, una loro avanguardia, ma delle bande di galoppini e di maneggioni elettorali espressione di una selezione politica alla rovescia. E tutto ciò è potuto accadere anche perché, per costituire un partito, sono oggi sufficienti poche idee, vaghe, imprecise, indeterminate, persino confuse, volutamente generaliste, e tutto ciò a seguito della trasformazione dei partiti in forze trasversali e “pigliatutto”, con conseguente depauperamento del loro slancio ideale.
Insomma, ad un certo punto del recente sviluppo storico, qualcosa si è rotto: i partiti, distaccatisi dalla loro naturale e originaria funzione, cioè quella di rappresentare gli interessi, se non di una specifica classe, almeno dell’intera collettività nazionale, si sono trasformati in terra di facile conquista per l’avvento di uomini “provvidenziali” o “carismatici”. Lungi dal trovare una soluzione organica, l’unità interna dei partiti è stata frantumata per poi ricostituirsi e cominciare a dipendere in maniera del tutto innaturale dalla presenza di singoli individui, con i quali si sono ben presto identificati.
Il partito leaderistico è diventato la regola, e i meccanismi di selezione hanno conosciuto un imbarbarimento senza precedenti, con loschi figuri che spesso si sono ritrovati sugli scranni del potere per motivazioni che sono tra le più avulse rispetto a quelle che dovrebbero determinarne la scelta.
In definitiva, se i partiti erano una volta organismi centrali di elaborazione politica e finanche di educazione delle masse, formando ed esprimendo gli uomini che si credeva potessero inverare tali obiettivi, oggi essi sono divenuti squallide camarille dominate da influenze e interessi non confessabili. Di qui la devastante percezione dei partiti che si è prodotta nell’opinione pubblica con il conseguente convincimento, ancor più devastante e drammatico, seppur psicologicamente consequenziale, di dover affidare le proprie sorti e quelle delle future generazioni ad altrettanti loschi figuri assurti al rango di celesti salvatori: i cosiddetti tecnici.
Oggi viviamo questo che è, allo stesso tempo, il paradosso e il cortocircuito della rappresentanza: nelle nostre democrazie rappresentative, i rappresentanti eseguono le direttive imposte dagli onniscienti e infallibili tecnici, non eletti da alcuno e custodi di un potere potenzialmente illimitato. Ma questo, prima ancora che il fallimento della politica, è il fallimento di una cultura, una cultura che deve essere completamente rifondata.
Questo della tecnocrazia è l’ulteriore elemento accennato nell’articolo citato in apertura, tema che merita di essere ulteriormente approfondito in quanto assai centrale per le sorti attuali del nostro stesso Paese. In effetti, il rapporto tra tecnicismo e dottrina democratica e tra tecnica e politica è gravido di conseguenze deleterie per entrambi i secondi termini delle coppie proposte.
In primo luogo, cominciamo subito col dire che ogni forma di tecnicismo tende naturalmente ad eludere relazioni basate su processi democratici; questo perché il tecnicismo, essendo un sapere specialistico, è tendenzialmente escludente ed esclusivo, laddove la dottrina democratica implica inclusione e condivisione. Un tale decadimento si rispecchia nel modo attraverso cui, negli ultimi trent’anni, è stata rideclinata la gestione dello Stato, una gestione manageriale e aziendalistica il cui presupposto essenziale è stato il capovolgimento del rapporto intercorrente tra politica ed economia, con la prima ormai divenuta mera ancella della seconda, tanto che i Parlamenti degli Stati, una volta cuore pulsante del dibattito politico nazionale, sono oggi spoglie carcasse ridotte ad essere impotenti dopolavoro dove si ratificano decisioni assunte altrove.
La povertà etico-filosofica della nostra epoca deriva direttamente dalla riduzione della politica a mero epifenomeno dell’economia; pensare la decisione politica nei termini di un arido atto tecno-burocratico denota tutta la miseria della nostra attuale società, e primariamente da un punto di vista filosofico-culturale. Ecco perché occorre tornare al più presto alla politica, per poter nuovamente pensare la libertà come emancipazione dal determinismo della tecnica, tornando al contempo a poter ideare proposte alternative di esistenza.
Quale la strada da seguire? Quale soggetto storico può farsi portatore di un tale gravoso e impellente compito? Ancora una volta, crediamo non si possa prescindere dal soggetto partito, quel moderno Principe cui deve essere demandato il compito di forgiare un nuovo tipo di Stato, quel condottiero moderno che non può essere incarnato solo da un singolo individuo, ma che deve assumere le fattezze di un organismo sociale esteso nel quale abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva.
Chiaramente, la nascita di un tale partito ha bisogno di un’adeguata gestazione: «si tratta di processi di sviluppo più o meno lunghi, e raramente di esplosioni “sintetiche” improvvise… Si tratta di un processo molecolare, minutissimo, di analisi estrema, capillare, la cui documentazione è costituita da una quantità sterminata di libri, di opuscoli, di articoli di rivista e di giornale, di conversazioni e dibattiti a voce che si ripetono infinite volte e che nel loro insieme gigantesco rappresentano questo lavorio da cui nasce una volontà collettiva di un certo grado di omogeneità, di quel certo grado che è necessario e sufficiente per determinare un’azione coordinata e simultanea nel tempo e nello spazio geografico in cui il fatto storico si verifica»7.
Se il protagonista di questa rivoluzione culturale e politica insieme non può che essere il partito, i suoi singoli componenti devono essere all’altezza del compito storico loro affidato. Giungiamo dunque all’ultimo pilastro da rafforzare, quello della preparazione di chi si assume compiti di rappresentanza e di guida politica. La selezione è un tema cruciale, e i vergognosi e squallidi livelli qualitativi dei rappresentanti di partito cui siamo approdati negli ultimi decenni rivelano l’urgenza improrogabile di affrontare la questione. Si tratta indubbiamente di un presupposto decisivo, in quanto, senza élites debitamente formate, un regime democratico non sarà mai in grado di reggere adeguatamente uno Stato.
Anche in questo caso possono essere utili alcuni richiami a Mortati, essendo egli convinto che, in una democrazia di massa, lasciare piena libertà di presentazione delle candidature apporterebbe solo disorientamento e confusione. Questo certo non vuol dire arrivare all’estremo opposto, quello di nominare in maniera totalmente autoreferenziale dei profili servili e incapaci di produrre alcunché in termini di azione politica concreta. Il punto in realtà imprescindibile al fine di consolidare un sistema democratico è che la credibilità di quest’ultimo venga rafforzata dalla solida preparazione politica dei candidati, preparazione alla quale il partito deve contribuire in maniera determinante.
Il processo di selezione, basato su una serie di passaggi – implicanti, secondo Mortati, la scelta dei candidati a partire dalla base, previa discussione pubblica delle loro referenze e qualità e attraverso la formazione di una apposita lista in cui i candidati siano collocati dopo un attento vaglio delle loro competenze –, dovrebbe inoltre essere regolato da norme statali, anche perché «l’interesse dello Stato a tali interventi si palesa chiaramente quando si pensi che dalla bontà del procedimento di designazione dei candidati dipende il soddisfacente funzionamento degli organi statali»8. Di tutto questo oggi non vi è traccia alcuna, la selezione è un’utopia o, addirittura, se ve ne è di qualche tipo, essa è operata al contrario.
Le nostre democrazie sono effettivamente un governo di mediocri. Occorre perciò incentivare una selezione verticale, per ridonare alla politica il suo significato più nobile e per tornare a considerare l’élite che così verrà nascendo (la quale è sempre necessaria, non illudiamoci di poter estinguere la gerarchia) non più in termini spregiativi, ma nell’antica accezione di melior pars. È in questo senso che l’opera “rivoluzionaria” di un nuovo partito, disciplinato e strutturato sulla competenza e sulla preparazione dei suoi membri, potrà garantire l’esito qualitativo del processo democratico, proprio al fine di evitare che esso rimanga solo un processo, per giunta completamente sterile.
Il valore del risultato finale dipenderà allora dalla qualità della direzione, poiché democrazia non significa solo partecipazione, ma anche presenza di capitani preparati e competenti che possano salvaguardarla dalla dissoluzione.
Note
1 J. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Etaslibri, 1994, p. 257.
2 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 2007, vol. I, p. 236.
3 G. Sartori, “Democrazia, burocrazia e oligarchia nei partiti”, in Rassegna italiana di sociologia, I, 1960, p. 132.
4 C. Mortati, “Concetto e funzione dei partiti politici”, in Nomos, febbraio 2015, http://www.nomos-leattualitaneldiritto.it/wp-content/uploads/2015/10/Mortati_Nomos-2_2015.pdf.
5 Ibidem.
6 A. Gramsci, op. cit., vol. III, p. 1733.
7 Ibidem, vol. II, p. 1058.
8 C. Mortati, loc. cit.
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