Il trionfo apparente del multiculturalismo
di SERGE LATOUCHE
Per i turiferari della mondializzazione, il trionfo su scala mondiale dell’economia di mercato e del pensiero unico, lungi dallo «stritolare le culture nazionali e regionali», comporterebbe un’impareggiabile «offerta» di diversità, corrispondente a una crescente domanda di esotismo. La società globale si realizzerebbe conservando i valori fondamentali della modernità: i diritti dell’uomo e la democrazia.
In effetti, nelle grandi metropoli il libero cittadino può apprezzare tutte le cucine del mondo nei ristoranti etnici; ascoltare musiche molto diverse (folk, afro-cubana, afro-americana…); partecipare alle cerimonie religiose di svariati culti; incrociare persone di tutti i colori con abbigliamenti talvolta caratteristici. Questa «nuova» diversità “culturale” mondializzata si arricchisce ulteriormente delle commistioni e degli incroci incessanti provocati dalla mescolanza delle differenze. Da ciò consegue l’apparizione di nuovi prodotti, e tutto ciò in quel clima di grande tolleranza che, in linea di principio, sarebbe autorizzato da uno Stato di diritto laico.
«L’offerta culturale – proclama Jean-Marie Messier, il bulimico rappresentante francese delle transnazionali del multimediale – non è mai stata così ampia e diversificata. [ ... ] Per le generazioni future, la prospettiva non sarà la superproduzione americana, e nemmeno l’eccezione culturale alla francese, bensì la differenza delle culture, accettata erispettata».
Curiosamente, questa posizione si riallaccia a quella di certi antropologi, come Jean-Loup Amselle, secondo cui, «piuttosto che denunciare il predominio americano ed esigere quote che garantiscano l’eccezione culturale, è meglio comprendere che la cultura americana è diventata un “operatore di universalizzazione” in cui le nostre specificità possono riformularsi senza essere perdute. Il vero pericolo non è l’uniformazione: se esiste un effetto inquietante nell‘attuale mondializzazione, esso va individuato nel ripiegamento e nella “balcanizzazione” delle identità».
Così, dall‘inconfutabile constatazione che le culture non sono mai «pure, isolate e chiuse» ma vivono, al contrario, di scambi e di apporti continui; che peraltro un'”americanizzazione” totale è destinata all‘insuccesso; che anche in un mondo anglicizzato e«mcdonaldizzato» le diversità di linguaggio e di alimentazione si ricostituirebbero, ne deduce, a nostro avviso affrettatamente, che il timore dell‘uniformazione planetaria è infondato.
L’invenzione di nuove sotto-culture locali e l’emergere di «tribù» nelle nostre periferie eliminerebbero gli effetti dell'”imperialismo” culturale. Un simile punto di vista è sostenibile soltanto se si confondono le tendenze forti del sistema dominante con le resistenze che questo provoca; solo se si separa, alla maniera anglosassone, l’economia dalla cultura e si rifiuta divedere che in Occidente l’economia sta per fagocitare tutti gli aspetti della vita.
Regoliamo gli orologi. Lungi dal condurre a un arricchimento incrociato delle diverse società, la mondializzazione impone all’altro una visione specifica, quella dell’Occidente e, in misura ancora maggiore, quella dell’America del Nord.
Un ex-funzionario dell‘amministrazione Clinton, David Rothkopf, ha dichiarato seccamente che: «Nell’era dell‘informazione, l’obiettivo principaledella politica estera degli Stati Uniti deve essere la vittoria nella battagliadei flussi dell‘informazione mondiale, attraverso il dominio delle onde, propriocome una volta la Gran Bretagna regnava sui mari». Ha inoltre aggiunto che: «Fa parte dell’interesse economico e politico degli Stati Uniti vigilare che, se il mondo adotta una lingua comune, questa sia l’inglese; se si orienta verso norme comuni in materia di telecomunicazione, sicurezza e prerogative, queste norme siano americane; se diverse località sono collegate dalla televisione, dalla radio e dalla musica, i programmi siano americani; infine, se vengono elaborati valori comuni, questi siano valori nei quali gli americani si riconoscono».
E ha concluso affermando che ciò che è valido per gli Stati Uniti, lo è per l’umanità! «Gli americani non devono contestare il fatto che di tutte le nazioni nella storia del mondo la loro non solo è la più giusta, la più tollerante, la più pronta a mettersi in discussione e migliorarsi sempre, ma è anche il modello migliore per il futuro».
Questo imperialismo culturale, nella maggior parte dei casi, porta soltanto a sostituire l’antica ricchezza di senso con un tragico vuoto. Gli incroci culturali ben riusciti sono solo fortunate eccezioni, spesso fragili e precarie. Sono il risultato di reazioni positive alle evoluzioni in corso più che il prodotto della logica globale. Una manciata di Paesi ricchi e sviluppati costituisce un “centro” del quale gli Stati Uniti sono il cuore: tutto il resto forma una vasta “periferia“. Si può dunque parlare di una vera e propria invasione culturale degli Stati Uniti, con l’apporto complementare, qua e là, di questo o quel Paese del Nord.
Ora, questi stessi Stati Uniti importano meno del 2% dei loro prodotti di consumo audiovisivo e traducono col contagocce. Sono, in effetti, i più restii a importare la cultura degli altri e i campioni di tutte le categorie del protezionismo culturale. Dov‘è la lealtà (“fair play”) in questa concorrenzaplanetaria? Questa ignoranza, sistematicamente salvaguardata, del popolo americano (e, talvolta, dei suoi dirigenti al massimo livello) di ciò che si pensa e si fa altrove è tragica e forse spiega gli effetti “negativi” constatati l’11 settembre. Un “farmer” dell‘Arkansas o un operaio dell’Ohio non hanno mai visto, letto, sentito se non prodotti dell’industria culturale “made in USA“, secondo il metro di Disney & Co.
Ha scritto Ronald Steel: “Siamo alla testa di un sistema economico che ha definitivamente segnato la fine di ogni altra forma di produzione e di distribuzione, lasciando sul suo solco formidabili ricchezze, ma talvolta anche gigantesche rovine. Diffondiamo una cultura che si basa sul divertimento di massa e sulla soddisfazione delle masse, che esalta l’edonismo e l’accumulazione, perfino quando parla di individualismoe di abbondanza. I messaggi culturali che divulghiamo per il tramite di Hollywood e di McDonald’s si diffondono nel mondo per sedurre, ma anche per minare altre società. Al contrario dei tradizionali conquistatori, noi non ci accontentiamo di sottomettere gli altri: ci teniamo a farci amare. E tutto ciò, beninteso, per il loro massimo bene. Il nostro proselitismo è il più impietoso del mondo [...] Non c’è da stupirsi se molti si sentono minacciati da ciò che rappresentiamo”.
Cullati dalla melodia del sogno americano, i cittadini degli Stati Uniti sono convinti di appartenere all‘impero del bene e, in perfetta buona fede, non riescono a capire perché il resto del mondo non li ama.
[da La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo, trad. it. Elèuthera 2010]
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