Il multiculturalismo forzato e l'immigrazione di massa rallentano l'integrazione: considerazioni sociologiche
di MARTINA CARLETTI (FSI Umbria)
Quali sono i parametri etici attraverso i quali si possono valutare i diversi effetti sociali dell’immigrazione di massa? Secondo l’utilitarismo universalista degli economisti, il voler perseguire il massimo della felicità per il massimo numero di persone: quindi, ciò che accade alle popolazioni autoctone dei paesi ospitanti non ha alcuna importanza fintanto che nel complesso le migrazioni producano benefici a livello mondiale.
In realtà, alcune ricerche hanno evidenziato che, a livello sociale, un basso livello di migrazione comporta una serie di vantaggi, mentre un alto livello della stessa porta con sé una serie di perdite.
Il valore del senso di identità comune di un popolo è fondamentale, perché predispone le persone ad accettare la redistribuzione del reddito dai ceti più ricchi verso quelli più poveri, e a condividerne il patrimonio culturale. L’avversione nei confronti dell’identità nazionale, assiduamente propagandata dai principali mass media, rischia di avere conseguenze molto costose: una ridotta capacità di cooperare e una società meno equa, cosa che uno Stato sociale come il nostro non può assolutamente permettersi.
Non è un caso che con l’affermarsi del neoliberismo e dei vincoli europei, e delle riforme e privatizzazioni volute dall’Unione Europea, l’intervento dello Stato si sia trasformato in una sorta di oppressione fiscale perpetua, ma che dal punto di vista dell’equità abbia creato una polarizzazione della ricchezza, oltre ad una progressiva scomparsa della classe media.
Nei paesi ospitanti, i migranti costituiscono colonie che assorbono – in maniera diversificata, a seconda dell’ampiezza delle diaspore e del loro status economico – risorse destinate ai ceti meno abbienti della popolazione locale, con cui entrano in competizione e di cui minano i valori.
Con i migranti aumenta la diversità sociale, il che per alcuni aspetti è positivo: una maggiore varietà e di conseguenza ricchezza di stimoli e possibilità di scelta. Ma la diversità crea anche alcuni problemi: in un’economia moderna, infatti, il benessere aumenta notevolmente in funzione di quella che potremmo chiamare mutua considerazione, ovvero qualcosa di più forte del rispetto, qualcosa di più simile alla simpatia e alla benevolenza, sentimento alla base dei comportamenti collettivi per il buon funzionamento di una società.
Un alto livello di mutua considerazione aumenta inoltre lo stimolo alla cooperazione: spinge gli individui a fornire quei beni pubblici la cui erogazione non potrebbe essere garantita in maniera soddisfacente se affidata unicamente alle leggi di mercato; ma la fiducia deve poggiare su una ragionevole presunzione di reciprocità, ed è per questo che se i giochi di cooperazione sono spinti all’eccesso, e sono unilaterali, falliscono.
I sentimenti di fiducia e cooperazione non nascono spontaneamente, come attributi primordiali del “buon selvaggio”, come sostenne erroneamente Jean Jacques Rousseau1: al di là del perimetro familiare, fiducia e cooperazione si acquisiscono in quanto parte di una serie di atteggiamenti funzionali ad una società ricca e moderna.
Uno dei motivi per cui le società povere sono tali è l’assenza, anche indotta, di simili atteggiamenti nella popolazione autoctona: in Africa, ad esempio, si è osservato che la violenza degli scontri etnici tra gruppi si è tramandata fino ai giorni nostri2, e che il commercio degli schiavi ha distrutto le reciproche aspettative non solo tra i clan, ma anche all’interno delle stesse famiglie, i cui membri non di rado erano soliti vendere ai trafficanti figli e mogli3. Se la fiducia varia da una società all’altra, anche i giochi di cooperazione variano di conseguenza.
I tratti distintivi di una società ad alto reddito e con uno Stato sociale efficiente è che i sentimenti di mutua considerazione si estendono ad un gruppo allargato di persone, quello dei concittadini. Simili differenze culturali non sono genetiche, ma dipendono da una serie di rivoluzioni intellettuali che hanno progressivamente riconfigurato la maniera in cui gli individui percepiscono i loro simili dopo la nascita degli Stati-nazione.
Ogni diaspora di migranti, ovvero ogni gruppo nazionale o culturalmente definito, che si insedia in paesi ospitanti, importa anche il modello sociale (ovvero l’insieme delle istituzioni, delle regole e delle organizzazioni di un paese). Questo ci dovrebbe mettere in guardia dalle facili affermazioni in difesa del multiculturalismo: se un tenore di vita decente è qualcosa da apprezzare, allora in base a questo parametro dovremmo riconoscere che esistono società più disfunzionali di altre, e non tutte le culture si equivalgono.
È quindi possibile ottenere un incremento del livello di benessere nei paesi di provenienza dei migranti, diffondendo modelli sociali funzionali allo sviluppo economico: questo è però un compito che prima di tutto investe i cittadini di quegli Stati, poiché farci carico di questo obiettivo potrebbe facilmente scadere nelle innumerevoli forme di imperialismo che i nostri governi hanno posto in essere nel corso degli ultimi secoli.
Ulteriori timori derivano da un interessante studio di Robert Putnam, sociologo di Harvard4; è stato dimostrato che più grande è la diaspora rispetto alla popolazione autoctona, minori saranno i rapporti con i locali; questo perché esiste un limite pratico al numero totale delle relazioni che le persone sono in grado di gestire. Di conseguenza, maggiore sarà il numero di migranti della diaspora, più lento sarà il ritmo di integrazione: questo è stato verificato, ad esempio, attraverso uno studio del 2013 in Germania sulle diaspore turca e serba5.
Inoltre, più aumenta la quota di immigrati, più calano i livelli di fiducia reciproca: sia quelli tra immigrati ed autoctoni, che quella tra diversi gruppi di stranieri. Abbiamo in questo caso un “effetto tartaruga”: i cittadini autoctoni di una comunità ad alta densità di immigrati tendono a chiudersi in se stessi, a diffidare di altri che li circondano, ad impegnarsi di meno in attività sociali, ad allontanarsi dagli amici e a restare incollati ore ad internet o alla televisione.
Tra gli altri esiti, possiamo citare: una ridotta disponibilità a cooperare all’erogazione di beni pubblici ed una maggiore segregazione spaziale, provocati dalla scarsa padronanza della lingua nazionale; il sistema sociale generoso ha l’effetto di rallentare l’integrazione, poiché i migranti potrebbero trovare conveniente rimanere agli ultimi gradini della scala sociale; la somma di multiculturalismo e leggi anti-discriminazione può generare un paradosso, ovvero che gli immigrati sono autorizzati ed anzi stimolati a costruire comunità estremamente unite che difendono la propria cultura di origine, mentre gli autoctoni sono scoraggiati dal farlo.
La composizione qualitativa dunque, oltre a quella quantitativa, sono fondamentali, perché incidono sulla rapidità con cui gli stranieri si integreranno realmente nella nostra società.
La distanza culturale è un concetto importante, ed è possibile misurarla oggettivamente in base al numero di rami che separano le lingue di due culture secondo l’albero linguistico: credere che l’impatto sociale dell’immigrazione di massa non sia una variabile da tenere in considerazione significa perpetrare una politica globalista sconsiderata.
1. Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes)
2. T. Besley, M. Reynal-Querol, 2012b, The legacy of historical conflict: evidence from Africa, CEPR Discussion Papers 8850
3. N. Nunn, L. Wantchekon, 2011, The slave trade and the origins of mistrust in Africa
4. R. Putnam, 2007, E Pluribus Unum: diversity and community in the 21st century
5. Z. Koczan, 2013, Does identity matter?, Mimeo, University of Cambridge
> Secondo l’utilitarismo universalista degli economisti, il voler perseguire il massimo della felicità per il massimo numero di persone: quindi, ciò che accade alle popolazioni autoctone dei paesi ospitanti non ha alcuna importanza fintanto che nel complesso le migrazioni producano benefici a livello mondiale.
Il principio per cui è legittimo anteporre il bene comune della maggioranza al bene comune della minoranza è un principio democratico più che utilitarista. Ergo se tu sei a favore della democrazia sei a favore di questo principio. Quello su cui non sei d’accordo è al massimo che questo principio venga esteso su scala mondiale.
> In realtà, alcune ricerche hanno evidenziato che, a livello sociale, un basso livello di migrazione comporta una serie di vantaggi, mentre un alto livello della stessa porta con sé una serie di perdite.
Quali ricerche? Potresti dare alcuni riferimenti? Quali sono queste serie di vantaggi e queste serie di perdite? Le puoi elencare? Puoi fare degli esempi?
> Il valore del senso di identità comune di un popolo è fondamentale, perché predispone le persone ad accettare la redistribuzione del reddito dai ceti più ricchi verso quelli più poveri, e a condividerne il patrimonio culturale. L’avversione nei confronti dell’identità nazionale, assiduamente propagandata dai principali mass media, rischia di avere conseguenze molto costose: una ridotta capacità di cooperare e una società meno equa, cosa che uno Stato sociale come il nostro non può assolutamente permettersi.
In che modo il senso di identità comune di un popolo è correlato all’accettazione della redistribuzione della ricchezza? Inoltre se parli di “reddito dai ceti più alti a quelli più bassi” non stai facendo una redistribuzione di ricchezza, ma bensì un trasferimento di ricchezza. Quali sono poi questi principali mass media che propagandano “l’avversione nei confronti dell’identità nazionale”? Puoi menzionarne qualcuno?
> La distanza culturale è un concetto importante, ed è possibile misurarla oggettivamente in base al numero di rami che separano le lingue di due culture secondo l’albero linguistico: credere che l’impatto sociale dell’immigrazione di massa non sia una variabile da tenere in considerazione significa perpetrare una politica globalista sconsiderata.
Se la distanza culturale è possibile misurarla, significa che esiste una unità di misura secondo la quale è possibile misurarla. Come si misura la distanza culturale? In metri? Ohm? Joule? Kg? Assumendo comunque che sia possibile misurare la distanza culturale dal numero di rami che separano le lingue di due popoli (i popoli parlano le lingue, non le culture, ma questo forse è chiedere troppo evidentemente), allora significa che i tanto vituperati rumeni sono vicini agli italiani più di quanto si pensi (come i francesi e gli spagnoli), eppure par di capire che quasi nessuno in Italia li vuole. E’ un problema di “distanza culturale” o proprio gli immigrati non li volete?
L’immigrazione di massa poi non è una variabile, ma una costante nella storia. Fu immigrazione di massa quella degli italiani nelle americhe, quella degli spagnoli nel Sud America, quella degli inglesi e irlandesi in America del Nord e Australia, quella degli olandesi e degli inglesi in Sudafrica, e così via fino agli unni, i traci, e gli altri popoli europei che provenivano quasi tutti dal Caucaso (da cui appunto l'”etnia caucasica”).
E senza contare l’immigrazione degli asiatici in Nord America, visto che gli inuit discendono di fatto dai popoli asiatici (attraverso lo stretto di Bering).
le retoriche e i falsi perbenismi/buonismi non aiutano nè noi nè loro (tradotto noi/loro,perchè aiutiamoci ed aiutarli è il medesimo concetto)..se poi volesse fornire nome ed indirizzo a casa sua a sue spese quanti ne ospita’
Incredibile la mente del progressista medio.
Riesce ad avere da ridire persino per questo timidino timidino articoluccio politicamente correttissimo, scritto non a caso da chi ha elaborato una proposta di legge sull’immigrazione talmente blanda da far pensare che il suo scopo sia quello di aumentare gli allogeni sul nostro territorio.
Ovviamente, poi, il progressista è anche ignorante (si sa, la storia piace solo se scritta da Eco) indi si permette di definire “costante della storia” qualcosa che costante non è, usando come esempi tragici episodi di genocidio autoctono.
Interessante il cortocircuito mentale che questo genera…
Matteo, risponda nel merito.
L’immigrazione di italiani in America fu genocidio?
L’immigrazione delle popolazioni asiatiche in Nord America via lo stretto di Bering fu genocidio?
L’immigrazione degli ebrei in Europa fu genocidio?
Le migrazioni indoeuropee furono genocidio?
Tralasci gli argomenti ad hominem, sono per menti deboli e ovviamente non è il suo caso, vero?
Aveva ragione Gramsci a ritenere prioritaria la battaglia culturale. Se si adottano passivamente i parametri spirituali dell’avversario (umanesimo, antirazzismo, cosmopolitismo) tutto diventa una battaglia di retroguardia e bisogna fare i capitomboli per trovare ragioni contro l’invasione extracomunitaria.
Fra le varie imprecisioni dette da Queen c’è la definizione di democrazia. La quale significa “potere del popolo”, cioè di un gruppo civilmente, geograficamente, razzialmente e/o censitariamente determinato, il quale non necessariamente lo esercita tramite il meccanismo maggioranza/minoranza contestato da rousseAu. Ad esempio può esercitarlo tramite l’azione del partito-stato, tramite l’identificazione estatica in una personalità carismatica ecc. Più corretto è il riferimento all’utilitarismo importato dal conquistatore anglosassone, vero termine di riferimento della dittatura demoplutocratica.
Per quanto utilitarismo, a sua volta, significhi tutto e niente, e tutto dipenda da quali siano i soggetti di cui si vuole massimizzare l’utilità e cosa si intenda con questa vaghissima nozione. Col risultato che, tanto per cambiare (siamo filosofi neh), ciascuno può riempire questo piatto colla ciccia che gli sta a cuore, o meglio nel portafoglio.
Caro Queen, le faccio notare che i ceppi autoctoni in America (del Nord e del Sud) non erano esattamente quelliche parlavano inglese, spagnolo, portoghese o se è per questo italiano.
Per il resto, sposo quanto detto da Lorenzo: l’articolo è un tentativo di condannare l’immigrazionismo selvaggio sulla base della filosofia che lo promuove.
Terreno alquanto scivoloso, perchè è come giustificare la libera impresa sulla base del comunismo.