Finanziamenti comunitari: reale opportunità o ulteriore vincolo di spesa?
di DAVIDE PARASCANDOLO (FSI L’Aquila)
Da tempo i media non fanno altro che imputare l’insufficiente utilizzo dei fondi comunitari a nostre reali o presunte mancanze, dovute ai più svariati fattori, dalla farraginosità della burocrazia, all’incapacità di elaborare i progetti, alla solita onnipresente corruzione. Ma le cose stanno realmente in questi termini? Al netto di tali lacune, fisiologicamente presenti in forma più o meno accentuata in tutti i Paesi europei, il discorso è in realtà più complesso, e per svolgerlo faremo riferimento alla scrupolosa e approfondita analisi condotta nel dettagliato lavoro di Romina Raponi, Finanziamenti comunitari. Condizionalità senza frontiere. La finta solidarietà dell’Unione europea (Imprimatur, 2016). Ad esso rimandiamo per una disamina delle specifiche schede tecniche dei fondi posti in essere a livello comunitario, proponendoci in questa sede di fornire una sintesi generale del problema1.
Partiamo da una premessa di fondo: le priorità assolute stabilite dai Trattati europei sono il contenimento dell’inflazione attraverso la stabilità dei prezzi e la tutela di un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, aperta e in libera concorrenza (artt. 3 TUE e 119 TFUE). Questi obiettivi sono sostanzialmente incompatibili con molte delle finalità supposte dal meccanismo dei finanziamenti, prima fra tutte la lotta alla disoccupazione. Più in generale, essi vanno a ledere l’intero principio solidaristico posto alla base dei finanziamenti stessi. Vediamo allora come opera il meccanismo dei fondi e quali sono i requisiti per potervi accedere.
I principi fondamentali che contraddistinguono l’accesso ai fondi comunitari sono essenzialmente due (gli stessi che ne determinano peraltro anche la loro evidente disfunzionalità): il cofinanziamento e le condizionalità.
Partendo dal cofinanziamento, questo impone agli Stati che intendano beneficiare dei fondi di aggiungere alla quota comunitaria un’ingente fetta di risorse proprie (in genere vicina al 50%, ma a volte attestantesi addirittura all’85%), distraendo queste ultime da scopi di maggiore utilità ed efficacia strategica per lo Stato in questione. Non solo, ma si ricordi che queste risorse entrano nel novero di quelle computabili in termini di spesa pubblica, realizzando in tal modo uno dei tanti paradossi della astrusa logica comunitaria: per poter usufruire dei fondi europei, occorre tagliare altri servizi al fine di non sforare i parametri del patto di stabilità interno, dovendo in taluni casi rinunciare ai fondi medesimi per mancanza di risorse proprie (e non solo, quindi, per le “tare genetiche” delle burocrazie).
Altro elemento da dover tenere in debita considerazione è che l’articolazione dei fondi è impostata su cicli pluriennali di programmazione2 (attualmente siamo nell’arco temporale di programmazione 2014-2020), i quali sono pianificati in sede europea senza tenere sufficientemente conto delle particolari esigenze dei singoli Paesi, figurarsi di quelle di determinate aree all’interno di essi. Inoltre, i singoli Stati non hanno alcuna possibilità di spendere i fondi comunitari per fini diversi da quelli prestabiliti, magari più consoni alla risoluzione di specifiche problematiche interne. In questi casi quindi, gli Stati, pur di non perdere i fondi, spesso predispongono progetti attuativi completamente slegati dalle reali esigenze delle aree sulle quali essi avranno ricadute. Evidentemente, dunque, svestiti della loro aurea mitica, tali fondi appaiono in realtà come un chiaro strumento di controllo utilizzato dall’Unione per paralizzare l’autonomia decisionale di spesa dei singoli Paesi.
Quest’ultima considerazione ci porta al secondo punto, quello delle condizionalità. Lo stesso cofinanziamento può essere considerato come una di esse. Il ragionamento è il seguente: ti do i soldi solo se li utilizzi per i fini decisi da me e a condizione che tu abbia fatto i compiti a casa (cioè a condizione che tu abbia tagliato la spesa pubblica e che continui a farlo, obiettivo palesemente in contraddizione con la richiesta stessa di cofinanziamento). A questo punto, dovrebbe già sorgere una semplicissima domanda: non sarebbe molto più agevole, efficace e potenzialmente produttivo per un Paese spendere tali ingenti somme in proprio? Risposta secca: ovviamente sì.
Precisamente, il sistema delle condizionalità può essere suddiviso in tre tipologie: 1) condizionalità ex ante, definite nelle norme specifiche afferenti a ciascun fondo e da riportate nell’accordo di partenariato; 2) condizionalità connesse al coordinamento delle politiche economiche finalizzate al rispetto dei parametri macroeconomici e di finanza pubblica imposti dall’Unione; 3) condizionalità ex post, comprendenti i meccanismi (non sempre di facile attuazione) relativi alla verifica dell’efficacia dei programmi attuati e degli obiettivi raggiunti. In questo caso, peraltro, qualora la Commissione ravvisi gravi carenze nel raggiungimento degli obiettivi intermedi, essa può disporre la sospensione dei finanziamenti e la soppressione del programma in questione.
La prima categoria incorpora tuttavia la forma più subdola di condizionalità, quella prevista dalle raccomandazioni della Commissione medesima, le quali finiscono per influenzare enormemente la programmazione dei singoli Stati. Sostanzialmente, attraverso le raccomandazioni, l’Ue impone modifiche strutturali al sistema normativo e amministrativo interno dello Stato membro (lavoro, pensioni, istruzione, organizzazione della pubblica amministrazione ecc.) e a garanzia del rispetto delle stesse; i contratti di partenariato finiscono per esserne influenzati e condizionati tanto da prevedere la sospensione e/o la revoca dei finanziamenti in caso di mancata esecuzione delle raccomandazioni3.
Si consideri per giunta che ai finanziamenti possono accedere tutti gli Stati dell’area Ue e non solo quelli dell’area UEM. Ciò rileva in virtù del fatto che questi ultimi sono limitati operativamente dalla loro appartenenza ad un sistema di cambi fissi, il ché, come sappiamo, ha comportato in genere un aggravio delle loro differenze strutturali e un aumento ulteriore dei loro disavanzi. Per quanto riguarda le rilevanti quote di fondi strutturali allocate a regioni di Paesi non aderenti alla zona Euro, questi Stati aggiungono ai vantaggi derivanti dalla loro permanenza fuori dalla moneta unica (svalutazioni competitive e maggiore autonomia fiscale) quelli derivanti da questi ulteriori flussi di denaro, drenando risorse provenienti da Paesi che devono sottostare ad una disciplina molto più restrittiva. Si tratta di un’iniquità piuttosto evidente. In aggiunta, nella determinazione dei contributi da versare all’Unione, si tiene in considerazione soltanto il parametro relativo al PIL del Paese, quando sarebbe molto più opportuno basarsi su parametri economici più indicativi, come la situazione della bilancia dei pagamenti4.
L’Italia, in questo senso, è un nitido esempio della disfunzionalità del sistema. Nonostante essa sia un Paese con una precaria situazione di bilancia dei pagamenti, rimane infatti un contributore netto al bilancio dell’Ue (dona molto più di quanto non le ritorni indietro sotto forma di fondi). Basti pensare che, nel settennio 2005-2011, il saldo netto negativo ammontava per l’Italia a 39,3 miliardi di euro5. Cifre astronomiche andate letteralmente in fumo. Nell’Eurozona, l’Italia, (pur essendo al 12°-13° posto per PIL procapite) è il terzo maggior contribuente netto europeo, e contribuisce alla formazione del bilancio comunitario in misura pari a circa il 12% del totale (circa l’1% del proprio PIL)6. Morale della favola: l’Italia, in difficoltà economica, finisce per erogare fiumi di denaro che andranno a finanziare lo sviluppo di altri Paesi, mentre la propria situazione continuerà ad aggravarsi ulteriormente. Siamo a livelli parossistici di illogicità economica.
Chiaramente, tutto il sistema dei finanziamenti è stato pensato per sopperire, almeno in apparenza, al peccato originale che lacera l’Unione, la mancanza di un governo federale capace di predisporre un meccanismo di trasferimenti interni tra gli Stati (espressamente escluso dagli artt. 123, 124 e 125 del TFUE). In realtà, come ci ricorda l’autrice, il risultato è stato che l’inadeguatezza (a monte) del sistema di bilancio europeo e l’inidoneità a risolvere problematiche di asimmetrie strutturali tra le varie regioni europee da parte del sistema dei finanziamenti comunitari, sono state traslate a valle e attribuite (erroneamente) alle inefficienze di quegli stessi Stati7. Il quadro che emerge è quello di una vera e propria forma di eccesso di potere delle autorità comunitarie in quanto, nella sostanza, i fondi europei rappresentano un cavallo di Troia per apportare surrettiziamente modifiche al sistema legislativo e amministrativo interno degli Stati secondo i desiderata delle istituzioni Ue.
Riassumendo, nel nostro caso specifico l’Italia colloca anticipatamente sul proprio indebitamento annuale e quindi sul proprio debito pubblico le contribuzioni al bilancio dei vari fondi Ue, e solo una parte di queste somme vengono a essa restituite; inoltre, detta restituzione avviene soltanto a condizione di rispettare i limiti di deficit (che rischia di sforare, magari, proprio per aver dovuto contribuire al bilancio Ue o a causa della recessione indotta dal consolidamento di bilancio imposto dalla UEM e comunque reso arduo dal meccanismo dell’euro e dei tassi di cambio reali sfavorevoli)8. Un vero e proprio guazzabuglio di regole, condizionamenti e rendicontazioni spesso farraginose e inconciliabili che destituisce di senso la nostra appartenenza ad un sistema siffatto.
Attenzione poi ad un ulteriore fondamentale aspetto. Il sistema di condizionalità che stiamo descrivendo finisce per vincolare pesantemente la spesa pubblica dello Stato italiano, conducendo all’aperta violazione di alcuni fondamentali principi costituzionali. Un esempio lampante: in base agli artt. 1 e 4 della nostra Carta, lo Stato dovrebbe attuare politiche economiche atte a condurre ad un equilibrio di pieno impiego; al contrario, si vede costretto ad impegnare le risorse dei finanziamenti comunitari (che in realtà erano, almeno inizialmente, le sue) per raggiungere obiettivi diversi dal sostegno all’occupazione e stabiliti sulla base di parametri che tengono in nessuna o parziale considerazione i bisogni reali del nostro territorio nazionale.
Sia chiaro dunque che i finanziamenti comunitari non sono esattamente delle libere e gratuite elargizioni in favore degli Stati, di cui questi possono disporre a libero piacimento in base alle esigenze economico-sociali del momento9. Peraltro, un’ennesima contraddizione è ravvisabile nel fatto che saranno proprio gli Stati più in difficoltà ad avere i maggiori problemi ad accedere a tali finanziamenti in ragione della loro impossibilità a mettere a disposizione la propria quota di cofinanziamento. Il meccanismo è talmente perverso e mal congegnato da apparire pertanto addirittura punitivo nei confronti di chi versa in cattive acque, con buona pace dei tanto sbandierati propositi di solidarietà ed equità.
Di tutto ciò le istituzioni comunitarie sono ovviamente consapevoli. D’altra parte, come messo in evidenza dalla Raponi, nelle stesse relazioni periodiche della Commissione si può prendere atto del fallimento dei suoi propri strumenti. Il punto tuttavia è un altro: questi strumenti servono, lo ribadiamo ancora una volta, per poter meglio controllare la tipologia di spesa degli Stati, e ciò per dare più agevolmente attuazione al vero scopo che l’Unione si prefigge di raggiungere: spianare la strada al dominio incontrastato di un mercato aperto, concorrenziale e competitivo, con l’eliminazione di qualsiasi interferenza statale, obiettivo che nulla ha a che vedere con il reale soddisfacimento degli interessi pubblici né tantomeno con le esplicite finalità a suo tempo scolpite nella nostra Costituzione (che non a caso viene progressivamente stravolta in quanto “pericolosamente” intrisa di principi socialisti).
In sintesi, dai dati e dagli studi riportati con dovizia di particolari nel lavoro della Raponi, non solo si evince come la vulgata secondo cui il nostro Paese non utilizzerebbe i fondi comunitari sia il prodotto di una falsa strumentalizzazione mediatica, ma anche come l’utilizzo dei fondi, al netto della loro effettiva utilità, sia perfettamente in linea con quello che ne viene fatto dagli altri Paesi. L’Italia, è bene sottolinearlo, non sta ricevendo alcun regalo dall’Unione europea e, semmai, siamo noi che stiamo contribuendo attivamente allo sviluppo di altri Stati. I finanziamenti, lungi dall’essere una fonte reale di sviluppo, fungono da strumento di controllo esterno sulla nostra spesa pubblica, sul nostro sistema normativo e amministrativo e sul nostro sistema di welfare.
Se il nostro Paese non effettuasse più gli ingentissimi versamenti al bilancio europeo, rifiutando conseguentemente il sistema dei finanziamenti comunitari, potrebbe trarne sicuro giovamento. In sostanza, infatti, questo sistema si presenta come un ulteriore tassello inteso a cancellare la sovranità dello Stato che, spogliato di qualsiasi metodo di intervento, assiste ormai impotente al trionfo delle distorcenti forze di mercato le quali, lungi dal creare un armonico contesto di pace e solidarietà, stanno creando le condizioni per l’esplosione di un sempre più pernicioso risentimento dilagante non solo tra cittadini di Stati diversi, ma anche tra categorie e generazioni diverse all’interno dei medesimi Stati (giovani contro vecchi, professionisti contro pubblici dipendenti, cittadini contro immigrati). Inoltre, verrebbe certamente meno anche la compressione dei diritti fondamentali sanciti dalla nostra Carta costituzionale e giustificata dalla necessità di dover risolvere continue situazioni di emergenza (vedi impegni di bilancio da rispettare come il Fiscal Compact o i ben noti problemi strutturali da sanare a causa di un popolo che avrebbe vissuto al di sopra delle proprie possibilità).
Per concludere con le parole dell’autrice, nessun popolo merita di essere addomesticato o istruito, compresso o controllato, quantomeno se non lo ha deciso liberamente attraverso i normali mezzi di scelta democratica. Certamente non lo merita un popolo come quello italiano che, se è riuscito a farsi strada tra le principali potenze mondiali, lo deve al fatto di essere costituito da grandi lavoratori, da uomini di ingegno non comuni, da persone capaci di rialzare la testa di fronte alle difficoltà e che, certamente, hanno avuto sempre qualcosa da insegnare agli altri, senza che vi sia alcuna plausibile ragione perché ora si sentano additati come degli stolti incapaci che “devono” essere indirizzati (“rectius manovrati”)10.
1 Si rimanda, su questo stesso tema, anche al puntuale contributo di Carmine Morciano: https://appelloalpopolo.it/?p=14466
2 Nel dettaglio, la Commissione adotta un Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) cui segue la stesura di un Quadro Strategico Comune (QSC), nel quale tradurre in azioni gli obiettivi della politica di coesione delineati nel QFP. Sulla base del QSC, ogni Stato membro presenta poi un “Contratto di Partenariato”, nel quale viene indicata la propria strategia di sviluppo che dovrà essere approvata dalla Commissione medesima (si aggiunga come, già in sede di redazione dell’accordo di partenariato, lo Stato subisca pesanti condizionamenti da parte della Ue). Oltre a questo, ogni Stato deve stilare poi il proprio Quadro Strategico Nazionale (QSN), sulla base del quale vengono infine proposti i Programmi operativi nazionali (PON) e regionali (POR), che la Commissione provvederà ad approvare.
3 R. Raponi, Finanziamenti comunitari, pp. 146-147.
4 Un’estesa disamina della bilancia dei pagamenti la si può trovare al seguente link: http://goofynomics.blogspot.it/2014/10/le-lezione-di-oggi-la-bilancia-dei.html
5 Op. cit., p. 52.
6 Ib., p. 136.
7 Ib., p. 99.
8 Ib., p. 209.
9 Ib., p. 211.
10 Ib., p. 248.
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