Il grande saccheggio: l’età del capitalismo distruttivo
di SAVERIO LUZZI (storico)
Il grande saccheggio (ed. Laterza, Roma-Bari 2011, ndr) è l’emblematico titolo dell’ultima fatica storiografica di Piero Bevilacqua. Un volume che viene dopo quasi quaranta anni di studi – il primo libro di Bevilacqua venne pubblicato nel 1972 da Marsilio e si intitolava Critica dell’ideologia meridionalistica. Salvemini, Dorso, Gramsci – in cui numerose sono state le tematiche trattate con magistrale competenza: il meridionalismo, la storia delle campagne del Mezzogiorno, la storia dell’agricoltura italiana, quelle delle migrazioni e dell’ambiente.
Ne Il grande saccheggio si sente lontana l’eco di parte non trascurabile di tali temi, ma è evidente che Bevilacqua in questo libro si re-impossessi del suo passato per sistematizzarlo e superarlo. Il grande saccheggio è infatti un’opera molto ambiziosa, un’analisi storica della struttura economica che caratterizza la nostra epoca e che ne mette a nudo gli aspetti più contraddittori, iniqui e finanche violenti.
Bevilacqua effettua un esame decisamente severo del capitalismo, criticando con legittima e documentata asprezza un sistema economico capace di creare delle situazioni di disequità spaventose: nel mondo esistono almeno ventisette milioni di persone che vivono in stato di schiavitù, la quale “non è un residuo del passato. È un esito nuovo del capitalismo e dell’ideologia neoliberale”.
Il capitalismo è diventato sempre di più negli anni una struttura economica completamente autoprivatasi di ogni finalità che non sia la crescita infinita; in cui la produzione della ricchezza è del tutto separata dalle condizioni sociali dei lavoratori che rendono possibile questa stessa produzione; in cui i saperi sono stati artatamente iper-frammentati in maniera tale da togliere ogni capacità critica ai soggetti chiamati a produrre beni e servizi. Proprio per questo, afferma Bevilacqua, la cultura capitalistica rifiuta ogni approccio con il passato e con il futuro, a meno che quest’ultimo non sia limitato a un periodo brevissimo.
Ogni risorsa – culturale, ambientale, umana – viene sacrificata sull’altare della super-produzione in quanto il libero mercato ha letteralmente fatto scempio dell’interesse pubblico, consentendo ai privati di fare il bello e il cattivo tempo e realizzando “una rifeudalizzazione dello spazio pubblico, come se la storia dell’Occidente fosse ritornata indietro di quattro secoli“.
In Bevilacqua è palese una critica non semplicemente storico-politica del capitalismo, ma anche un rifiuto etico rispetto a un sistema che non si perita di mercificare perfino l’infanzia che il modello produttivo americano attua quotidianamente. È infatti proprio sulle persone più deboli – in quanto prive di coscienza critica – che il grande capitale fa leva per incrementare i consumi delle famiglie. Qui si impone una riflessione: come evidenzia Bevilacqua, i bambini statunitensi – ma il discorso vale per tutto il mondo occidentale – sono quotidianamente bombardati da spot che ne modellano il fisico (non è certo casuale la diffusione dell’obesità e di varie patologie da iper-consumo alimentare tra di essi) e la forma mentale. Tuttavia, poiché un minorenne non è titolare della capacità di disporre autonomamente dei diritti e dei doveri individuali, per quale ragione esso viene ritenuto titolare della capacità di consumare?
Questo subdolo e diuturno bombardamento della psiche dei bambini del XXI secolo viola o no i crismi della legalità? Se sì – come chi scrive assai immodestamente ritiene – perché nessuno è chiamato a rispondere di questa violenza psicologica quotidiana?
Il capitalismo descritto ne Il grande saccheggio è colpevole della desertificazione sociale, attuata attraverso la creazione degli iper-mercati, non-luoghi che hanno causato lo svuotamento dei centri storici e che, elevandosi a totem del moderno consumismo, permeano di sé il tempo libero dell’uomo, divenuto ormai a tutti gli effetti sic et simpliciter tempo di consumo. Ogni momento è consumo, il capitalismo obnubila le coscienze e cela scientemente i limiti della natura, tanto che Bevilacqua afferma: “La falsa infinità delle risorse, spacciata dall’ideologia economica occidentale, non è che un riflesso del controllo imperiale esercitato sul Sud del mondo per tutta l’età contemporanea“.
Ma quale è la ragione fondamentale che ha portato la nostra società ad essere un unico, grande e indistinto modo di produzione? Non certo un motivo episodico e transeunte, ma una tendenza irreversibile già descritta da Karl Marx, quella della caduta tendenziale del saggio di profitto del capitale. Ogni capitalista, ricorda Bevilacqua, al fine di massimizzare i profitti, riduce il ricorso alla forza lavoro e aumenta gli investimenti fissi: proprio per questo, però, il capitalista ha via via a disposizione un numero inferiore di uomini da cui estrarre il plusvalore, e quindi, paradossalmente, i profitti diminuiscono. Non solo: poiché, in seguito a ciò, nella comunità ci saranno meno persone con un salario, inevitabilmente la domanda di beni prodotti verrà a calare, quindi il capitalista ricorrerà di nuovo a un aumento degli investimenti sul capitale fisso, riavviando il circolo vizioso.
Nel capitalismo contemporaneo, questa tendenza è particolarmente forte in quanto negli ultimi anni il grande ricorso alla meccanizzazione produttiva ha ridotto oltremodo la necessità di manodopera, per cui è impossibile riassorbire i lavoratori in eccesso. Anche a causa di ciò, gli investimenti di capitale non si sono concentrati in attività produttive, ma si sono progressivamente indirizzati verso realtà puramente finanziarie, dando vita a ondate speculative sicuramente redditizie per alcuni, ma deleterie per l’economia globale e per i ceti più deboli.
È proprio per tentare di limitare questi aspetti che il capitalismo ha imposto a una politica imbelle il processo di estrema liberalizzazione e di globalizzazione dei mercati. Detti processi, sottolinea ancora Bevilacqua, non hanno e non possono però avere una prospettiva di lunga durata, in quanto le condizioni date dalla Rivoluzione industriale in poi per lo sviluppo capitalistico del mondo occidentale non si ripeteranno per le nazioni economicamente emergenti, per cui il capitalismo si trova davvero dinanzi a una crisi di sistema che può realmente determinarne l’implosione.
Ci sarebbe ancora molto da illustrare in merito a Il grande saccheggio (dalle riflessioni sull’obsolescenza programmata delle merci e dei lavoratori a quelle sulla politica ridotta a cartel party che non si preoccupa di governare e indirizzare la società, ma si limita a fomentare le paure e l’insicurezza al fine di perpetuarsi), ma per ragioni di spazio non è possibile farlo. Del resto, parlare troppo a lungo comporta il rischio di banalizzare delle tematiche tanto importanti e ben enucleate da Bevilacqua. Alcune riflessioni però si impongono.
Il capitalismo odierno così come ritratto da Bevilacqua ricorda non troppo vagamente l’Ancien Régime descritto da Alexis de Tocqueville ne L’antico regime e la Rivoluzione (1856): una struttura imponente eppure ormai decrepita, incapace di riformarsi e destinata per questo a una sorte inevitabile. A Bevilacqua va dato il merito di aver saputo interrogarsi sul presente e di aver fornito una chiave di interpretazione molto convincente delle ragioni che lo hanno portato a caratterizzarsi come lo vediamo. Teoricamente solidissimo, scevro da interpretazioni semplicistiche, radicale ma mai unilaterale, formalmente piano eppure mai banale Il grande saccheggio è un libro che merita una lettura approfondita e critica.
Fonte: www.officinadellastoria.info
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