William Morris, l’arte e il lavoro
di ALBERTO MELOTTO
Signore e signori, ecco a voi William Morris. Artigiano produttore di oggetti di arredamento, poeta, romanziere, affiliato alla confraternita artistica dei preraffaelliti, socialista utopista e profetico. Di rado nell’opera di uno studioso engagé di fine ‘800 si riscontrano, lucidamente evidenziati e confutati, gli snodi e le contraddizioni del movimento operaio novecentesco: il fallimento del modello del socialismo autoritario, l’acquiescenza socialdemocratica verso la rigidità di ruoli voluta dal potere borghese.
Inoltre, Morris sviluppò temi che i posteri non osarono nemmeno affrontare, senza dubbio per timore di sembrare ingenui, naif, poco allineati: la volontà di creare un mondo dove il lavoro sia gioia e creazione artistica, la critica disinvolta allo strapotere della scienza e della tecnologia, la rivalutazione dell’ambiente naturale, l’altra grande vittima, insieme all’uomo, del degrado e dello sfruttamento capitalistico. Un suo grande ammiratore, Oscar Wilde, raccontava una confidenza fattagli dallo stesso Morris: “Ho tentato di rendere ogni mio lavoratore un artista, e quando dico un artista intendo dire un uomo”.
Nato in un ambiente benestante, Morris trovò nella cittadella universitaria di Oxford il luogo ideale per lasciarsi affascinare da una miriade di diversi interessi culturali e artistici, e forse proprio per questo motivo non concluse nessun corso regolare di studi. Oltre al socialismo cristiano di Charles Kingsley, poi temporaneamente abbandonato in favore del radicalismo borghese di marca liberale, troviamo l’influsso determinante di John Ruskin, che gli instilla l’amore per l’architettura.
In Lavoro utile e inutile fatica Morris mostra di voler sgombrare il tavolo da tutta una serie di luoghi comuni riguardanti il lavoro, prima di procedere nella direzione del teorizzare una nuova concezione sull’argomento. È sbagliato, dice Morris, affermare entusiasticamente che ogni lavoro è una benedizione in sé. Congratularsi con il fortunato lavoratore per la sua operosità fa comodo soprattutto a coloro che vivono alle spalle degli altri. Non tutta la popolazione, infatti, è dedita ad attività lavorative, al contrario sussistono enormi differenze al riguardo.
Vi sono i ricchi, gli aristocratici. Vi è poi l’alta borghesia, la classe che Marx avrebbe definito come “proprietaria dei mezzi di produzione”, la quale è impegnata in una forsennata e feroce gara, in patria e all’estero, per l’accumulo della ricchezza, con l’unico fine di potersi astrarre dal lavoro, e divenire così improduttivi, come sono da secoli gli aristocratici.
Dopo la massa degli impiegati e dei soldati, ecco i lavoratori manuali, obbligati, e questo diviene il punto focale del ragionamento di Morris, a produrre “articoli lussuosi e stravaganti la cui domanda è legata all’esistenza delle classi ricche e improduttive, oggetti che chi conduce una vita degna e non corrotta non si sognerebbe neppure di volere”.
Morris sostiene dunque che il gusto della sua epoca per gli oggetti della vita quotidiana – mobilio, tendaggi – appare stravolto, avvelenato dai nefasti meccanismi di sfruttamento economico dell’uomo sull’uomo. Questa adulterazione del gusto si diffonde in ogni parte della società, poiché i poveri producono per uso personale dei manufatti che sono ridicole imitazioni del lusso dei ricchi. Tale deformità nel modo di concepire e, di conseguenza, guardare alle cose prodotte proviene dalla disarmonica strutturazione del corpo sociale: una classe oziosa di improduttivi che si fa mantenere da un gran numero di schiavi.
Quali caratteristiche dovrebbe, invece, possedere il lavoro per donare speranza all’uomo, invece che causargli pena e sofferenza? Dovrebbe garantirgli la speranza del riposo: per quanto possa essere piacevole, esso comporta tuttavia una certa sofferenza animale nel mettere in moto le proprie energie. Il riposo dovrebbe essere abbastanza lungo, più lungo dello stretto necessario al recupero delle forze, e dovrebbe essere libero da preoccupazioni e da ansie.
Vi è poi la speranza del piacere del lavoro in sé: concetto, questo, rivoluzionario al massimo grado; Morris afferma risolutamente che l’uomo che lavora davvero utilizza le energie della mente e dell’animo oltre a quelle del corpo: “la memoria e l’immaginazione lo aiutano nel lavoro. Non solo i suoi pensieri, ma anche i pensieri degli uomini delle trascorse età guidano le sue mani, egli crea in quanto parte della razza umana”.
La dimensione della creatività viene valutata come componente fondamentale nel dar corpo e significato all’atto del faticare: dare sfogo alle proprie capacità creative potrà dunque, donare quel piacere che sarà una soddisfazione quotidiana, una quotidiana ricompensa, nella società socialista. In una società di questo tipo non si assisterà più al fenomeno dello spreco, da Morris certamente detestato: ovvero la produzione di sordidi surrogati per la povera gente che non può permettersi merce di buona qualità e la produzione di oggetti pacchiani di lusso per i ricchi. Nella concezione di Morris, lo spreco è il volto perverso e malato della ricchezza di pochi, il profitto nato da uno stimolo produttivo insensato e privo di vere ragioni che non siano l’avidità.
Eclettico come soltanto certe figure vittoriane seppero essere, simili ai grandi del Rinascimento, William Morris non fu soltanto uomo di pensiero, ma fin dalla gioventù seppe coniugare la passione per l’arte (considerata a torto dal grande pubblico) minore, con una mentalità imprenditoriale decisamente controcorrente, sia dal punto di vista estetico che affaristico.
Nel 1861, all’età di 27 anni, fondò, nelle sue stesse parole, “una specie di ditta per la produzione di oggetti di arredamento”, alla quale si aggiunse col tempo una piccola ma originale casa editrice. La ditta Morris si dimostrò fedele al suo afflato iniziale, ovvero contribuire all’emancipazione economica e sociale dei suoi dipendenti. Gli operai poterono godere di un migliore salario e partecipare attivamente alla fase creativa. Tale volontà non era del tutto sconosciuta in terra d’Inghilterra: nella prima metà del secolo l’industriale Richard Owen aveva fondato dei laboratori dove i lavoratori potevano partecipare ai guadagni relativi ai frutti delle loro fatiche. L’iniziativa di Owen naufragò tristemente perché i prodotti non incontrarono i gusti del pubblico.
William Morris scrisse un romanzo utopico, News from nowhere, tradotto nella nostra lingua col titolo Notizie da nessun luogo, col preciso intento di raffigurare la società delle donne e degli uomini liberi. S’immagina che il narratore, un uomo di fine ‘800 nel quale è facile individuare un alter-ego dell’autore, venga trasportato magicamente in un futuro distante un centinaio d’anni, in un’Inghilterra liberata, grazie ad un’aspra guerra civile, dal dominio del capitale, un paese dove il benessere e la serenità sono condivisi dall’intera popolazione.
Va detto che la critica non considera il romanzo fra le vette più alte raggiunte da Morris in campo letterario, forse a causa di una raffigurazione fin troppo idilliaca e manichea di un tempo dove la felicità regna sovrana, tanto da far somigliare l’esistenza ad un “amoroso picnic”. Ciò non sminuisce la cristallina volontà di pervenire ad una sostanziale rivoluzione, in grado di liberare l’essere umano da ceppi che sono prima di tutto di tipo culturale e psicologico.
Morris non si tirò mai indietro, seppe partecipare a cruente manifestazioni di piazza, pur di accrescere il livello di protesta sociale. In particolare, è nota la sua partecipazione ad una delle tante Bloody Sunday, le domeniche di sangue, di cui è costellata la storia britannica. In Londra in stato d’assedio, che come gli altri scritti finora citati fa parte della raccolta di articoli intitolata Come potremmo vivere, Morris ci racconta dei fatti del 13 novembre 1887, quando il governo tory-liberale s’ispirò all’amorevole insegnamento di Bismarck per attaccare i disoccupati che avevano occupato Trafalgar Square.
La sua capacità d’immaginare un futuro e una società diversa ce lo restituisce come un fratello che solo l’ottusità e la parzialità di molto marxismo ci avevano tenuto nascosto. Valgano per William Morris le parole di Michail Bakunin: “È ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile. Coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come possibile, non hanno mai avanzato di un solo passo”.
fonte: www.ariannaeditrice.it, 19.9.2012
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